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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org OMAGGIO A NADIA ANJOMAN: LA VOCE MAI ASCOLTATA DELLE DONNE AFGHANE,di Daniela Zini

OMAGGIO A NADIA ANJOMAN: LA VOCE MAI ASCOLTATA DELLE DONNE AFGHANE

di Daniela Zini

 
هرگز بر نمی‌گردم


من‌ زنم‌ كه‌ دیگر بیدار گشته‌ ام
از خاكستر اجساد سوخته‌ی‌ كودكانم‌ برخاستم‌ و توفان‌ گشته‌ام
از جویبار خون‌ برادرانم‌ سر بلند كرده‌ ام
از توفان‌ خشم‌ ملتم‌ نیرو گرفته‌ ام
از دیوارها و دهكده‌های‌ سوخته‌ كشورم‌ نفرت‌ به‌ دشمن‌ برداشته‌ام
                      حالا دگر مرا زار و ناتوان‌ مپندارهموطن،
                      من‌ زنم‌ كه‌ دیگر بیدار گشته‌ام
                      راه‌ خود را یافته‌ام‌ و هرگز بر نمی‌گردم

من‌ دیگر آن‌ زنجیر ها را از پا گسسته‌ام
من‌ درهای‌ بسته‌ی‌ بی‌خبری‌ ها را گشوده‌ام
من‌ از همه‌ چوری‌ های‌ زر وداع‌ كرده‌ام

                      هموطن‌ وای‌ برادر، دیگر آن‌ نیستم‌ كه‌ بودم
                      من‌ زنم‌ كه‌ دیگر بیدار گشته‌ ام
                      من‌ راه‌ خود را یافته‌ ام‌ و هرگز برنمی‌گردم

با نگاه‌ تیز بینم‌ همه‌ چیز را در شب‌ سیاه‌ كشورم‌ دیده‌ام
فریاد های‌ نیمه‌ شبی‌ مادران‌ بی‌فرزند در گوشهایم‌ غوغا كرده‌ اند
من‌ كودكان‌ پا برهنه‌، آواره‌ و بی‌لانه‌ را دیده‌ام
من‌ عروسانی‌ را دیده‌ام‌ كه‌ با دستان‌ حنا بسته،
                      لباس‌ سیاه‌ بیوگی‌ بر‌ تن‌ نموده‌اند
من‌ دیوار های‌ قد كشیده‌ی‌ زندان‌ ها را دیده‌ام
                      كه‌ آزادی‌ را در شكم‌ های‌ گرسنه‌ی‌ خود بلعیده‌ اند
من‌ در میان‌ مقاومت‌ ها، دلیری‌ ها و حماسه‌ ها دوباره‌ زاده‌ شدم
من‌ در آخرین‌ نفس‌ ها در میان‌ امواج‌ خون‌ و در فتح‌ و پیروزی
                                                   سرود آزادی‌ را آموخته‌ام
حالا دیگر مرا زار و ناتوان‌ مپندار
هموطن‌ وای‌ برادر،
من‌ در كنار تو و با تو در راه‌ نجات‌ وطنم‌ همنوا و همصدا گشته‌ام
صدایم‌ با فریاد هزاران‌ زن‌ برپا گشته‌ پیوند خورده‌ است
مشتم‌ با مشت‌ هزاران‌ هموطنم‌ گره‌ خورده‌ است
من‌ در كنار تو و در راه‌ ملتم‌ قدم‌ گذاشته‌ام
تا یكجا بشكنیم‌ این همه‌ رنج‌ زندگی‌ و همه‌ بند بندگی
                        من‌ آن‌ نیستم‌ كه‌ بودم
                        هموطن‌ وای‌ برادر،
                        من‌ زنم‌ كه‌ دیگر بیدار گشته‌ام

 
مینا
 
 
 
 
Sono una donna che ormai si è svegliata…
Mina Keshvar Kamal, Mai tornerò indietro
 
 
 
 
All’indomani dell’attentato alle Twin Towers, viene messa in atto in Afghanistan l’operazione battezzata Enduring Freedom per punire i responsabili – in particolare Osama Bin Laden, restato introvabile da otto anni – e accelerare la caduta dei talebani, di cui l’occidente non si è affatto curato prima.
 
Per sei anni, un gruppo di terroristi religiosi che si erano dati il nome di talebani, studenti di religione, avevano oppresso la popolazione afghana au vu et au su della comunità internazionale. Quest’ultima si era emozionata e indignata più facilmente per la distruzione delle statue di Buddha che per la distruzione sistematica di migliaia di vite umane.
Il principale bersaglio dei talebani era stato la popolazione femminile.
Le donne afghane erano state imprigionate non solo in un abito, che le copriva dalla testa ai piedi, ma anche nella loro casa, quando ne avevano una. La crudeltà era stata spinta fino a obbligarle, almeno nelle città come Kabul, a dipingere le finestre delle loro case perché nessuna donna o ragazza al di sopra dei dieci anni fosse visibile all’esterno. Nessun altro Paese al mondo ha mai assegnato alla residenza la metà della popolazione a causa della femminilità, ma tutti i Paesi hanno lasciato fare i talebani con una compiacenza sconcertante.
 
I media hanno gettato, un velo sul passato glorioso e ben conosciuto dei mojahedin. Dalla partenza dei sovietici, nel 1989, i punti comuni tra loro non bastano più a far tacere le rivalità. La cupidigia e l’appetito di potere di tutti i signori della guerra li spingono a battersi incessantemente gli uni contro gli altri in alleanze rovesciate appena create. Al termine di quattro anni, nel 1992, prendono Kabul e rovesciano Najibullah; ma la guerra civile e, soprattutto, la guerra contro i civili non si ferma per questo. I soldati dell’Alleanza del nord saccheggiano le case e violentano le donne. I capi locali taglieggiano i camion ogni 50 km, i trasporti sono impossibili, la corruzione e il disordine impediscono l’applicazione della shari’a.
Alcuni tra i mojahedin, soprattutto i più giovani, che hanno preso gli ideali islamici sul serio, sono sconfortati. Partono per studiare in Pakistan. Sono gli studenti, i talebani, i figli spirituali e, talvolta, fisici dei mojahedin. Altrettanto anticomunisti come i loro padri ma più disciplinati, più seri e ancora più fondamentalisti. E in un anno, i talebani formidabilmente armati conquistano buona parte del Paese ed entrano a Kabul.
I talebani interdicono l’accesso alla scuola delle ragazze e impongono una scolarità strettamente religiosa ai ragazzi, in cui lo studio del Corano fondato sulla ripetizione a memoria delle sure sostituisce i corsi di letteratura, di storia e di scienze. Il ministro dell’istruzione al servizio del Mollah Omar dichiarava fieramente che un futuro medico non aveva che da fare un apprendistato presso un macellaio per apprendere tutto quello che gli poteva servire alla professione in materia di anatomia, ciò che riflette abbastanza bene l’approccio educativo di quel governo.
Una scolarità parallela fu organizzata nelle città, soprattutto da donne letterate, per le ragazze sotto forma di corsi clandestini tenuti all’interno di appartamenti, vi era sempre un lavoro di cucito a portata di mano, nel caso di un’irruzione da parte di un miliziano del ministero della promozione della virtù e della repressione del vizio. L’organizzazione femminile afghana RAWA (Revolution Association of the Women of Afghanistan) (1), la sola a denunciare dall’inizio gli abusi degli integralisti, estese questo tipo di scolarità ai villaggi. È così che un buon numero di donne ebbero accesso all’alfabetizzazione.
Quando i mojahedin battono in ritirata nel 1996, lasciano 50.000 morti soltanto a Kabul e la città in rovina. Quello che sei anni di guerra anti-sovietica non erano riusciti a fare, quattro anni di guerra tra fazioni lo hanno compiuto.
 
Per mesi dopo l’11 settembre 2001, le immagini dell’Afghanistan inondarono, tutte le sere, i nostri schermi televisivi. Il mondo scopriva allora le vite distrutte delle donne sotto il regime fondamentalista talebano, che controllava il 90% del Paese, compresa la capitale, dal 1996.
Non era, tuttavia, che un altro capitolo in un conflitto che durava da quasi trenta anni, del quale le donne sono state le principali vittime. Questo conflitto, che perdura, ha precipitato il Paese nella miseria: morti a milioni, mine disperse ai quattro lati del territorio, la maggioranza delle infrastrutture distrutte.
Il 29 gennaio 2002, nel suo discorso sull’Unione George W. Bush aveva dichiarato:

“La bandiera americana svetta di nuovo sulla nostra ambasciata a Kabul… Oggi, le donne sono libere.”
 
Era il terzo cambiamento di obiettivo dall’inizio della guerra.
I giornali pubblicarono le foto dei sorrisi delle donne – no, mi correggo, del sorriso di una donna – e la guerra trovò la sua quarta ragione: la liberazione delle donne.
Dire che la guerra fosse vantaggiosa alle donne afghane, era decidere che fosse preferibile per loro morire sotto le bombe, morire di fame, morire di freddo, piuttosto che vivere sotto i talebani.
Mi chiedo come è possibile pretendere di andare a liberare la gente bombardandola?
Si può giustificare una guerra dicendo di andare a liberare le donne dimenticando che sono sotto le bombe?
Quando si tratta dei diritti delle donne, vale a dire dei diritti umani, la questione che si pone a proposito di una guerra è sempre, infine, la stessa: quali sono i mali peggiori della guerra per una popolazione?
In quale momento la guerra diviene preferibile?
Il modo con cui è stato trattato in occidente l’alibi della liberazione delle donne afghane è un’illustrazione del fatto che le vite occidentali valgono di più, infinitamente di più, delle altre e del fatto che l’occidente, non contento di aver messo un prezzo molto basso sulle altre vite, stimi di avere il diritto di disporne a suo piacimento.
È Simone de Beauvoir che utilizza il termine di alibi per descrivere in che cosa consista il recupero della lotta delle donne da parte del sistema politico, che non si adopera che al minimo per poter utilizzare la causa delle donne e avere un alibi da fornire quando lo si interroga su questo punto.
 
Il gioco che svolsero i talebani fece, forse, parte di uno scenario messo a punto per creare una diversione. I talebani sapevano che la loro sorte era intimamente legata a quella di Bin laden, al quale erano debitori. Dopo che il Pakistan li aveva aiutati a insediarsi al potere, nel 1996, avevano resistito agli attacchi delle forze di opposizione grazie all’esercito di Bin Laden. Il regime talebano pretese, dapprima, che avrebbe potuto liberare Bin Laden solo a condizione che fossero fornite delle prove sulla sua colpevolezza, rifiutando, in anticipo, ogni prova contraria alla legge islamica. O per meglio dire, che non avrebbe riconosciuto alcuna prova come valida. Poi, negò che il capo terrorista avesse potuto realizzare una simile operazione, sostenendo che la sua condizione di ospite gli impediva di metterlo nelle mani di stranieri. Occorreva guadagnare tempo perché Bin Laden e i suoi alleati, dovunque fossero nel mondo, potessero nascondersi in un luogo sicuro e, forse, preparare una replica. Il capo terrorista aveva, forse, scelto di rifugiarsi in un Paese dove aveva numerosi simpatizzanti capaci di proteggerlo e di fargli varcare, se la cosa fosse divenuta necessaria, altre frontiere amiche.
Questo Paese avrebbe potuto essere un vicino dell’Afghanistan, il cui governo ignorava la presenza di Bin Laden, un Paese che non avrebbe corso il rischio di essere attaccato dagli Stati Uniti in quanto loro alleato circostanziale?
Gli Stati Uniti hanno potuto veramente credere che Bin Laden, che aveva avuto tre settimane per mettersi al riparo, sarebbe restato sul posto ad attenderli?
Come potevano pensare di arrestare Bin Laden e il suo gruppo lanciando bombe e missili, senza scendere a terra?
Volevano limitare il numero delle vittime nel loro campo, d’accordo, ma non hanno avuto alcuna esitazione a fare vittime tra una popolazione innocente e affamata, che viveva in una miseria estrema da più di venti anni.
Nella nostra epoca di guerra tecnologica, le guerre fanno infinitamente più vittime civili di vittime militari.
Mi chiedo è morale?
 
Nella sua conferenza dell’11 ottobre 2001, il presidente Bush aveva fatto una nuova apertura ai talebani:
 
“Consegnateci Bin Laden e i suoi alleati e noi cesseremo di bombardare l’Afghanistan.”
 
Il suo obiettivo non era, dunque, di mettere fine al regime dei talebani?
Saddam Hussein era stato considerato il diavolo in persona durante la Guerra del Golfo.
In questa, il diavolo era Bin Laden.
E con il diavolo non si patteggia in alcun modo.
L’amministrazione americana aveva accusato certi media, che si mostravano critici, di essere dei cattivi patrioti. Il primo emendamento della costituzione americana, che garantisce la libertà di espressione a tutti e a tutte, non pesa molto quando si vuole guadagnare la guerra dell’opinione pubblica, al posto della guerra contro il terrorismo.
L’operazione violava tutti i diritti internazionali: non era stata approvata dal Consiglio di Sicurezza. Soltanto, dopo l’invasione e il rovesciamento del governo, Washington ottenne l’autorizzazione dell’ONU per il nuovo governo che aveva insediato e per la NATO a continuare il suo intervento (2).
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
 
(1) RAWA (Associazione Rivoluzionaria di Donne Afghane) è stata fondata a Kabul, nel 1977, da Mina Keshvar Kamal (27 febbraio 1956 – 4 febbraio 1987), assassinata a Quetta, in Pakistan, da agenti del KHAD (Khadamat-e Ettela'at-e Doulati), il braccio afghano del KGB, in connivenza con i fondamentalisti di Golbodin Hekmatyar, il 4 febbraio 1987.
(2) La missione in Afghanistan è iniziata il 7 ottobre 2001, ma solo, il 20 dicembre 2001, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con l’approvazione della Risoluzione n. 1386, autorizza il dispiegamento nella città di Kabul e nelle aree limitrofe di una Forza multinazionale denominata International Security Assistance Force (ISAF), con il compito di assistere le istituzioni politiche provvisorie afghane a mantenere un ambiente sicuro, nel quadro degli Accordi di Bonn del 5 dicembre 2001.
 
 
 
 
Daniela Zini
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Luned́ 26 Ottobre,2009 Ore: 17:12
 
 
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