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www.ildialogo.org Dialogo: non funziona più?,di Giuseppe Platone

L'opinione
Dialogo: non funziona più?

di Giuseppe Platone

Cattolici e ortodossi a braccetto nella difesa della morale, protestanti messi in fuori gioco perché affascinati dalla modernità. Tra le religioni c’è rispetto ma diffidenza


Riprendiamo questo articolo dal numero 46 del 4 dicembre 2009 del settimanale Riforma, SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI. L'autore è il direttore di Riforma.

Quindici anni di scavi archeologici nella valle di Oaxaca in Messico hanno permesso agli studiosi, sulla base di reperti, di capire meglio l’evolversi della religione. L’arco di tempo studiato va da millecinquecento anni prima dell’era volgare a qualche decennio dopo: la religione, il bisogno del divino si manifesta in forma primordiale con danze, graffiti e riti ancestrali e approda, attraverso i secoli, a sofisticati calcoli astronomici con cui orientare la planimetria dei templi dedicati al culto, immagini, testi scritti e tradizioni orali da utilizzare nei riti. Dall’insieme di questi recenti risultati archeologici, riferisce N. Wade sul New York Times (del 23 Novembre) – si possono trarre mille diverse conclusioni sul piano scientifico. E tra queste ultime la prima, indiscussa è che la religione, da millenni, accompagna costantemente l’evolversi delle società. La religione, nelle sue varie forme, può scomparire per un po’, ma poi riappare più vivace di prima quasi a voler riguadagnare il terreno perduto. Banale ma vero.

Ed è un po’ lo scenario che abbiamo visto in Europa negli ultimi anni. La secolarizzazione avrebbe dovuto fare tabula rasa di ogni credenza. In realtà abbiamo e stiamo assistendo da almeno un ventennio a un gagliardo ritorno del fatto religioso. Esso si manifesta in modo discreto o eclatante (vedi il «no» svizzero ai minareti), oppure è associato a pulsioni clericali, o violente, o mistiche, o di evasione. Siamo di fronte (o meglio: dentro) un mix sempre più complesso per il quale, credo giustamente, molti ritengono ormai urgente, nella scuola pubblica, introdurre un insegnamento del «fatto religioso» nella storia affrontato in termini critici, senza ipoteche confessionali. Per capire, per orientarsi. I dati del panorama religioso italiano – ho sotto gli occhi il recente libro-dossier: «Il Muro di vetro, l’Italia delle religioni, rapporto 2009» a cura di Paolo Naso e Brunetto Salvarani – sono impressionanti. Essi illustrano chiaramente un pluralismo religioso in rapida trasformazione che, purtroppo, non è sostenuto da un adeguato quadro legislativo in Italia.

I dati oggettivi sono importanti per capire dove stiamo andando. Un solo esempio: la presenza musulmana, che registra un milione e trecentomila residenti in Italia, è il secondo gruppo religioso nel nostro Paese. Ci sono settecento luoghi di preghiera per i musulmani per lo più ricavati in garage, o in capannoni industriali dismessi. Se pensiamo, inoltre, ai nuovi arrivi di migranti e soprattutto alle nuove nascite si capisce come il gene religioso dell’Italia stia rapidamente mutando.

Ma più che un’evoluzione si rischia un’involuzione. Dall’esperienza che ho tratto dalla partecipazione a vari convegni interreligiosi o gruppi di lavoro ricavo il dato che siamo ormai giunti a una vera e propria crisi del dialogo. Finita l’euforia della scoperta del «diverso da te» si arriva a un redde rationem, a una resa dei conti per nulla incoraggiante. E la crisi non riguarda solo il mondo del dialogo interreligioso ma anche quello ecumenico ovvero il dialogo tra cristiani di tradizioni confessionali diverse. Ci sono divergenze che paiono irreversibili, pietrificate. Una di queste è ormai diventata un adagio che l’arcivescovo ortodosso Hilarion, che presiede alle relazioni estere del patriarcato di Mosca, ripete ossessivamente in tutte le sue conferenze (Roma, Parigi…). L’assunto è questo: ortodossi e cattolici hanno sostanzialmente identici punti di vista sulla dottrina sociale e sulla morale. Sicché le due chiese debbono testimoniare insieme per difendere i valori spirituali della famiglia cristiana e dell’educazione morale che sgorga dalla loro fede comune. I protestanti sarebbero fuori gioco, incapaci come sono – sostiene Hilarion – di sfidare la società edonistica, materialistica, relativista, post cristiana in cui viviamo. La sacra alleanza sulla questione morale è pronta ad accogliere a braccia aperte tutta quella parte del mondo religioso che si contrappone alla società moderna e al suo «relativismo etico». Risultato: dialogo tra sordi tra noi cristiani divisi su due opposte sponde e difficoltà crescenti di dialogo tra le religioni in Italia. È sintomatico il fatto che a Roma sia la Consulta sia il Tavolo interreligioso che il Comune aveva istituito siano entrambi naufragati così come a Milano l’unico vero tentativo strutturato di Forum delle religioni è in mano alla Curia (quest’ultima però passerebbe volentieri la mano al Comune ma con l’aria che tira in Lombardia è meglio scordarselo). A Torino il Comitato Interfedi che fa capo all’Assessorato alla Cultura del Comune rappresenta un caso raro visto che registra anche la presenza cattolica considerata alla pari con tutte le altre religioni. Una recentissima presa di posizione del gruppo di lavoro interreligioso torinese esprime preoccupazione per le prospettive del dialogo oggi in Italia. Insomma ciò che sino a ieri pareva scontato diventa sempre più difficile, osteggiato, respinto. In effetti, quando si entra realmente in relazione, il dialogo diventa questione complessa. Non basta raccontarsi. Per dialogare occorre saper ascoltare, mettersi in gioco e, per così dire, metterci la faccia sino in fondo. La convegnistica del dialogo, fatto di scambio di curiosità esotiche, ha fatto il suo tempo. Sul piano interreligioso occorre aiutare i vari soggetti a uscire allo scoperto non per rivendicare posizioni di privilegio o di potere (alle quali anelano purtroppo non pochi cristiani, quasi che le chiese dovessero dominare e conquistare la società anziché farne semplicemente parte) nei confronti dello Stato ma per esercitare le proprie pratiche religiose in modo pubblico e trasparente in locali idonei destinati al culto. Luoghi visibili nella toponomastica cittadina, contro il regime dell’occulto. Da un lato c’è chi teme la luce del sole, la piena trasparenza e dall’altra c’è chi vede nel confronto, nel dialogo a tutto campo un luogo d’insana contaminazione, di perdita della propria identità. Ma che identità è quella che ha paura dell’altro, dei mille «prossimi» che sono ormai qui e che ti chiedono non la luna ma i tuoi stessi diritti? Così, al dialogo, in molte realtà italiane, si è sostituita la chiusura, i muri, le rivendicazioni identitarie. Un virus che non infetta solo il Nord-Est o le forze conservatrici o fondamentaliste ma è trasversale a tanti ambienti. Il rinchiudersi nel proprio orgoglio confessionale ritenendosi detentori di verità assolute la vince di gran lunga sull’essere umili testimoni e sentinelle attente di realtà più grandi delle singole organizzazioni religiose. Se si dialoga lo si fa solo per convertire l’altro al proprio credo. Non si rispetta l’alterità, si considera l’interlocutore un soggetto da redimere.

Io vedo che c’è un grande lavoro da fare per il quale si arranca a fatica. I tanti episodi di chiusura che si manifestano sia a livello ecumenico sia a livello interreligioso vanno affrontati con grande serietà e continuità. Davanti agli attuali irrigidimenti non dobbiamo gettare la spugna rinunciando al dialogo, al confronto, all’ascolto e quindi al cambiamento. Il dialogo è indispensabile nella costruzione della nostra società e per noi protestanti è ossigeno. Ma per sviluppare un dialogo non formale o opportunistico c’è bisogno di grande concentrazione e di cedere il posto, che gli compete, a Dio: proprio come diceva Meister Eckahrd, il mistico di Erfurt, nel 1300. Dovremmo guadagnare un distacco critico dai nostri stessi convincimenti profondi e allo stesso tempo, come uomini e donne di fede, stare di più con Dio. Non disperderci in mille inutili polemiche, dettagli e scontri. Puntare invece di più sull’essenziale nel rispetto delle singole fedi e soprattutto far crescere la cultura dei diritti e della solidarietà verso i deprivati. Non abbiamo da insegnare ma da imparare. L’identità non è un idolo da adorare e non lo sono neppure le nostre organizzazioni religiose, provvisorie e fragili rappresentazioni della nostra stessa fede. Ciò che oggi conta è che nessuna religione pretenda di avere l’esclusiva per diritto divino, o di viaggiare in corsie privilegiate tentando di azzerare altri progetti di umanità ispirati da fedi diverse dalla nostra. Ma chi può garantire questo fecondo dialogo tra identità religiose diverse se non uno Stato che sia veramente laico? La nostra crisi è direttamente proporzionale al tasso di laicità dello Stato. Ed è proprio questo deficit di laicità che rende profonda la nostra crisi. Teniamo quindi ben aperta la porta del dialogo impedendo che la corrente della superbia confessionale ce la sbatta violentemente in faccia. Inaugurando la propria e altrui rovina.



Mercoledì 09 Dicembre,2009 Ore: 16:27
 
 
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