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www.ildialogo.org ĞEssere cattolici non significa esserlo come il papağ,di Davide Pelanda

ĞEssere cattolici non significa esserlo come il papağ

di Davide Pelanda

Intervista a Vito Mancuso


Questa intervista è tratta da numero di febbraio 2010 di tempi di fraternità. Ringraziamo la redazione per avercelo messo a disposizione. Per contatti www.tempidifraternita.it

E' un teologo. Ma più che un teologo Vito Mancuso può essere inquadrato come un “libero pensatore”. Insegna teologia pres­so la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, un istituto laico diretto dal filosofo e sindaco Massimo Cacciari, ma messo in piedi da un prete, l’ultraottantenne don Luigi Verzé. Mancuso dunque insegna teo­logia in una università laica, non in un semina­rio od in una facoltà sotto l’egida del Vaticano. E ciò indubbiamente influisce nel suo pensiero e nelle sue disquisizioni teologiche che sono più libere.
Editorialista de La Repubblica, ai più, però, Mancuso ricorda il libro “L’anima e il suo de­stino”, vero e proprio best-seller che ha avuto il pregio di far uscire la teologia dai vecchi “sacri palazzi” vaticani e far conoscere le pieghe del­l’anima anche a persone della strada, a casalin­ghe, ma anche ad astrofisici, scienziati delle più qualificate università italiane. Un vero e proprio pregio quello di poter farsi capire dalle più sva­riate categorie di persone.
L’intervista che segue è molto serena, pacata e rilassata. Ma anche molto schietta.
Per chi conosce da vicino le opere di questo teologo ha capito che uno dei pregi di Vito Mancuso è il parlar chiaro, schietto, semplice (ma non banalmente) delle delicate tematiche te­ologiche. Un pregio che abbiamo colto anche in questa intervista.
Mancuso, pochi sanno che lei a 23 anni ha scelto la via del seminario diventando sacer­dote e che, dopo solo un anno, ha lasciato l’abito talare. Perché questa scelta così re­pentina? Come è stata vissuta?
Ero entrato in seminario a 18 anni dopo il liceo. Ho fatto i cinque anni di Teologia, anni bellissi­mi, al termine dei quali, a 23 anni e mezzo, sono stato ordinato sacerdote dal cardinal Martini. Dopo un anno, a 24 anni e mezzo, ho capito che la vita sacerdotale non era per me.
Mi avevano affidato una parrocchia, ma in re­altà avevo desiderato io andarci. Anche se i su­periori avrebbero voluto subito farmi continua­re gli studi, io avevo detto di no perché pensavo fosse necessario almeno un po’ di contatto con la realtà, e dissi che poi si sarebbe visto.
Ed è stato proprio il contatto con la realtà, mol­to importante e decisivo per me. Capii infatti due cose: che la mia vera vocazione è lo studio e che la vita sacerdotale, sia per quanto concer­ne la dimensione celibataria sia per la dimen­sione gerarchica, entrambe mi stavano strette. L’avrei dovuto capire prima che quella vita non era per me, ma... Di tutto ciò ne parlai subito con molta schiettezza ed apertura, mettendo da subito in chiaro tutte le cose, al cardinale Martini ed ai suoi collaboratori. La questione si svilup­pò nel modo più sereno possibile: continuai a studiare, dietro l’incarico della diocesi, andai a Napoli anche se avrei dovuto andare a Roma. Martini preferì che studiassi da Bruno Forte dove ho vissuto con lui per due anni prendendo la li­cenza in Teologia. Lì interruppi ogni forma di ministero: continuai solo a studiare. Al termine di questi due anni iniziai a lavorare nel cosid­detto mondo. Poi da Roma è arrivata la dispen­sa, chiuso.
Può dunque dire che lei è un prete-sposato, anche se mi sembra essere del tutto al di fuori delle associazio­ni dei preti-sposati classiche che conosciamo.
Non ho mai pensato ad iscrivermi a questi movimenti dei preti sposati perché non mi sento un prete, è questo il punto. Tutto ciò accadde perché per me l’unica modalità che conoscevo di studiare teologia era quella di entrare in seminario, non c’è una università di Teologia laica e non ci sono neanche figure di teologi laici, né tantomeno c’era­no quando avevo diciotto anni. Quando manifestavo que­sto forte interesse, tutti mi dicevano che la mia strada era di sacerdote dell’oratorio, della scuola, dicendomi anche che questo era chiaramente un segno di vocazione. Ho dei ricordi di cose bellissime, ho avuto ottimi insegnanti, da Ravasi, Sequeri, Buzzi che adesso è il Prefetto della Biblioteca ambrosiana.
E in famiglia come hanno preso questa sua decisione di entrare in seminario e poi la fuoriuscita da esso?
Male, male. Male l’entrata e male l’uscita. Mio padre non voleva assolutamente che entrassi in seminario. Poi, una volta dentro, non voleva che ne uscissi lasciando l’abito con tutti i traumi che ne conseguono. Un po’ di pensieri, come detto da parte di mio padre soprattutto, ci sono sta­ti. La cosa si spense abbastanza presto, iniziai poi a lavo­rare e i risultati si sono presto visti.
In che rapporti è ora con la gerarchia ecclesiastica cattolica? Soprattutto per ciò che scrive?
La gerarchia, la gerarchia! In realtà parlerei di gerar­chie.
Ho ottimi rapporti con il cardinal Martini, con altri ve­scovi, ad esempio dal punto di vista personale con Bruno Forte. Dal punto di vista delle idee, invece, non sempre c’è consenso, anzi su alcune cose c’è divergenza.
Penso sia normale per chiunque eserciti la professione del pensiero, fare per esempio teologia in modo critico, sia normale dover dire fino in fondo quello che si ritiene sia giusto. Se poi dico cose sbagliate ci penserà la storia a confutare le mie affermazioni, così come sempre è avve­nuto. Se c’è un seme di verità questo lo si vedrà la fine. I rapporti con la gerarchia sono normali, di uno che sta come in una famiglia: a volte litiga, a volte è contento di quel che il padre dice, è una cosa normalissima.
C’è sempre una specie di “battibecco”, mi si passi il termine, un botta-e-risposta, tra lei su Repubblica e il giorno dopo Enzo Bianchi su La Stampa: lui la criti­ca molto, una volta addirittura dandole dell’agnostico. Come mai questa diatriba? Perché parrebbe avercela con lei?
Ma no, non è così. Innanzitutto quello è stato l’unico caso. I rapporti con Enzo Bianchi sono ottimi, è un caro amico, è stato collega al San Raffaele, i miei figli sono stati bat­tezzati a Bose. C’è quindi grande comunanza.
Semplicemente Enzo Bianchi, su Famiglia Cristiana, dis­se che nel mio pensiero c’era una traccia - forse anche più di una traccia - di gnosticismo. In seguito scrissi su Repubblica che del mio pensiero si possono dire tante cose, che non è ortodosso - sono io il primo a dirlo! - ma che questa eterodossia si possa definire gnosticismo è un colossale abbaglio come argomentai in quell’articolo e come lui, scrivendomi in risposta su La Stampa, non poté smentirmi.
Lei è diventato famoso per il libro “L’anima e il suo destino”, che presto è diventato un best-seller diven­tando un caso editoriale che ha acceso ampi dibattiti. Si è mai chiesto perché? Se l’aspettava? Come mai questo argomento dell’anima e della morte affascina e spaventa ancora oggi così tante persone?
Innanzitutto nessuno si aspettava il successo di questo libro, né l’editore né lo stesso autore, cioè il sottoscritto. Naturalmente il successo abbastanza clamoroso del libro - e che continua ad avere, perché io continuo a ricevere attestazioni di lettori, inviti e tutte queste cose - mi ha portato appunto a chiedermi come mai tutto ciò. Ritengo che le ragioni possano essere queste:
- il tema dell’anima è un tema che più intimo di così è difficile pensarlo: mancava però da parecchio tempo un trattato sistematico a riguardo;
- questo trattato, che io ho presentato, si è caratterizza­to per un forte dialogo con la scienza e con la filosofia. Il libro, dal punto di vista teoretico, ha contribuito a svecchiare il concetto di anima da un, come dire, certo alone di poeticità e di incredulità;
- lo stile con cui il libro è scritto. Mi sono cioè sforzato di renderlo il più possibile non dico divulgativo ma ac­cessibile ad ogni tipo di lettore, anche proveniente da al­tre formazioni culturali.
Mi spiego meglio: molto spesso i filosofi scrivono per i filosofi, i teologi per i teologi... Io invece ho voluto scri­vere per ogni persona mediamente colta, di modo che que­sta persona, già esperta nel suo ambito, potesse entrare anche nel mio. Parecchi lettori di questo libro sono di estrazione scientifica: ancora l’altro giorno, ad esempio, a Bologna, il direttore dell’istituto di astrofisica mi dice­va quanto questo libro l’abbia interessato. Sarò a Foggia ad un seminario sulle neuroscienze, anche lì scaturito da questa mia opera.
Questo per dire delle due attestazioni di questa setti­mana... ma non passa settimana che dal mondo scientifi­co non riceva delle attestazioni di gradimento rispetto alle argomentazioni ed alla metodologia che ho sviluppato, quindi allo stile;
- la critica a dei dogmi consolidati. Io vedo e percepi­sco un forte disagio, da parte della coscienza credente contemporanea, rispetto al patrimonio dottrinale. Il fatto di ritrovare argomentate in modo chiaro, organico e sistematico in questo mio libro obiezioni che, grosso modo, ciascuno sentiva e sente dentro di sé, tutto questo è stato una specie di festa della ragione per molti.
Dal nulla comunque lei è diventato famoso. A quale prezzo? Con quale fatica?
Tutte le cose grosso cambiano la situazione precedente. Questo successo mi ha creato vantaggi e nello stesso tem­po svantaggi.
Ho meno tempo a disposizione per la tranquillità, per lo studio, la famiglia, per la meditazione, debbo lottare contro una serie di richieste e sollecitazioni e così via; d’altro lato le sollecitazioni e le richieste sono anche ar­ricchenti per gli incontri e per le possibilità. Grazie alla possibilità di esprimere il mio pensiero, io oggi scrivo in prima pagina su Repubblica. Ci sono dunque vantaggi e svantaggi della cosa: dunque la sapienza di un uomo con­siste sempre nel riuscire a trovare il giusto equilibrio.
Si è creato anche dei nemici?
Non esiste azione che incida nel mondo senza creare da un lato amici, mentre dall’altro crea nemici, ciò è inevita­bile in tutte le cose umane. Non c’è azione del mondo che entra nel mondo, che in qualche modo incide nel mondo, lo modifica... e che in qualche modo non provochi una azione e, come tale, una reazione. Questo lo insegna già la fisica newtoniana, questo avviene anche nel mondo umano. Quindi tanti amici da un lato e tanti nemici dal­l’altro, ciò è del tutto evidente.
Qualche lingua malevola dice che lei ha inventato una sorta di “teologia per casalinghe”. Ritiene che la teo­logia debba rimanere nei “sacri palazzi” dei seminari e del Vaticano oppure più divulgata tra il popolo sem­plice?
È la prima volta che sento l’espressione “teologia delle casalinghe” che per me, sia chiaro, non è una offesa. Il fatto di riuscire a parlare a biochimici, ad astrofisici, a matematici, a fisici, a medici, a giuristi come ho settima­nalmente attestazioni in tal senso, ed al contempo riusci­re anche a parlare alle casalinghe beh, per me è una ope­razione della quale probabilmente la filosofia può anche fare a meno, ma la teologia no.
E la teologia cristiana ha da sempre, come compito spe­cifico, quello di riuscire ad essere universale, ad essere la più semplice e al contempo la più profonda possibile. Riu­scire a trovare profondità e semplicità è una grande e dif­ficilissima operazione spirituale. Io non so se ci sono riu­scito!
Se è vero quello che dicono alcuni, cioè che faccio “te­ologia delle casalinghe”, e se è vero quanto ciò di cui ho attestazione quotidiana per gli inviti nelle università di stampo scientifico, probabilmente ci sono riuscito e que­sto per me è il massimo.
Uno dei limiti della teologia contemporanea è che sia fatta con un linguaggio per pochi iniziati, chiusa all’interno del circolo accademico: si scrive per gli studenti, si formano studenti, tra quei cento studenti ce n’è uno, due, tre che a loro volta scrivono e formano altri e via così! È un circolo chiuso che forma se stesso e va bene, se si vuole essere felici di questa cosa si accomodino. Mi sem­bra che il mondo semplicemente vada da un’altra parte.
Come vede oggi la Chiesa cattolica? Chi è oggi, se­condo lei, il cattolico adulto criticato anche da papa Ratzinger di recente?
Come da sempre ci sono cattolici di tutti i tipi. Questa è una caratteristica del cristianesimo, una caratteristica che esiste da sempre. Così come ci sono diverse tipologie di credenti, ci sono sempre state, ci sono oggi e ci saranno sempre.
Lei mi chiedeva del cristiano adulto: egli è semplice­mente un cristiano che vuole, da un lato, continuare a credere in Dio con forza, cioè in un fondamento raziona­le ed eterno del mondo, della priorità e validità della giu­stizia del Bene, dell’Essere rispetto al nulla, al male, al nichilismo. Il cristiano adulto vuole continuare quindi a nutrire questa speranza in modo che sia, come diceva Bonhoeffer, “fedele al mondo”.
Cosa vuol dire oggi essere fedele al mondo, a questo mondo moderno? Significa per me sostituire il principio di autorità con un altro principio che chiamo di autentici­tà, questo è il punto.
Non si tratta più di continuare a coltivare la fede nella maniera del “è stato detto che è così”, “ipse dixit”, sta scritto che è così e quindi io debbo conformare la mia mentalità e la mia dottrina a quanto è stato stabilito altro­ve e da altri prima di me. Al contrario devo tener presente la dottrina, tenere presente la realtà, l’esperienza, e crea­re una sintesi delle cose che sia la più possibile vera, au­tentica, fondata innanzitutto dentro me stesso. Questa è la maturità del cristiano.
Però pare non accettata molto da Benedetto XVI sem­bra... Tra l’altro io chiedevo del cattolico e non del cristiano in quanto il protestante è più libero del cat­tolico...
Anche lì, del mondo protestante ci sono diverse tipologie. A me è capitato di fare qualche dibattito con i protestanti ma non sempre ho trovato quella libertà che essi stessi dicono di avere: ho trovato anche lì rigidità dogmatiche, dogmatismi.
Anche questo, insomma, è uno stereotipo. Ciò è vero nel principio, in prospettiva, a livello di fondo: è vero, nel cattolicesimo c’è molto più il principio di autorità che nel protestantesimo, basti pensare a come è nato il tutto, a Lutero, alla dieta di Worms, il principio della coscien­za, indubitabile questo aspetto.
È altresì vero, però, che nella pratica concreta si posso­no trovare cattolici diciamo più liberali, e cattolici più dottrinali.
Detto ciò, su Benedetto XVI cosa devo dire... ma era sot­to gli occhi di tutti, anche prima di diventare papa, il fatto che egli appartiene ad una tipologia di cattolicesimo a cui non appartengo io.
Ritengo che essere cattolici non significa esserlo come il papa. Il papa non è il modello in base al quale uno è cattolico. Altrimenti un personaggio come il cardinal Martini non potrebbe sussistere. Il compito del papa è invece un ministero di unità, di coordinamento: questo dovrebbe essere il ministero petrino. Poi però lui inter­preta la sua fede in modo congeniale a se stesso, alla sua fede, alla sua teologia. Ripeto, questa maniera non è la mia, punto.
Crede che in Italia oggi ci sia una forma di “devozio-nismo papale”, di “ossequiosità” verso le gerarchie vaticane, a partire dai politici di qualsiasi colorazio­ne essi siano, e giù fino all’uomo della strada?
È almeno dal 1870 che tutto ciò esiste: il Vaticano I, l’infal­libilità pontificia, la concentrazione dell’essere cattolici sulla figura papale... Bisogna arrivare al Concilio di Trento per spiegarne l’origine, l’inizio di questo tipo di concen­trazione.
Prima il papa aveva molta meno importanza. Che ades­so sia diventato l’obbedienza alla gerarchia e in special modo al papato, l’“ur sacrament”, ciò che costituisce originariamente l’essere cattolico oggi è la fedeltà alla gerarchia e che per molti sia ancora così è un dato di fat­to. Ma a mio avviso è una patologia, è una patologia della dimensione di fede.
Oltre 130 mila iscrizioni on-line per vedere la Sindone l’anno prossimo.
Che cosa suscita in lei questo dato? Non siamo forse un po’ idolatri?
Ma lo siamo sempre stati! L’umanità lo è sempre stata! Il commercio delle reliquie è avvenuto lungo i secoli cri­stiani in maniera molto, molto più considerevole di oggi! L’umanità ha sempre avuto bisogno - soprattutto nelle sue dimensioni più semplici - di vedere, di toccare, di avere un qualche cosa di tangibile. La dimensione del toccare e del vedere, dei sensi, è comunque un qualche cosa innato all’essere umano.
Dovrebbe essere il grande compito della “cura delle ani­me”, come si chiamava un tempo e come oggi purtroppo si chiama sempre meno il ministero pastorale di “cura delle anime”, quello di educare questo bisogno di spiri­tualità - che anzitutto si traduce in un bisogno di toccare e di vedere - facendolo salire per giungere alla vera e pro­pria dimensione di quando Gesù parla nel vangelo: “I veri adoratori adoreranno Dio in Spirito e Verità”.
Ma l’umanità nella sua dimensione più semplice, quel­la delle pecore senza pastore di cui parlava Gesù, ha bi­sogno di toccare: basta leggere i vangeli. In sé non è neanche sbagliato, non è una cosa che bisogna combattere.
Bisogna educare, bisogna partire dal lì.
È sbagliato tanto l’aspetto di chi accorda a questa di­mensione del toccare e vedere per credere una importan­za assoluta, così come è sbagliato l’atteggiamento dell’icono-clastia e cioè di chi voglia negare qualunque tipo di senso di tutto questo, a prescindere dal fatto che la Sindone sia vera o sia un falso, questo non lo so.
Parlo in generale nella dimensione dell’uomo che vuo­le vedere, che va a Lourdes, che va a Medjugorie, che va da Padre Pio: è sbagliato l’atteggiamento di chi si ferma lì ed è sbagliato l’atteggiamento di chi nega a priori tutto ciò.
Occorre partire da questa dimensione dell’essere uma­no, elevarlo spiritualmente e poi ritornare alla concretez­za, alla corporeità, alla dimensione pratica delle cose vi­ste e rilette con più sapienza e più profondità.
Non ha paura di essere richiamato e che i suoi libri finiscano, per così dire, all’Indice?
Guardi io ho un solo padrone: il mio unico padrone è la mia coscienza di fronte al Signore, di fronte a Dio, di fronte alla Verità.
Questo è quello che voglio fare con il mio pensiero, con i miei scritti, con la massima serenità possibile, sen­za rancore, senza nemici... perché il vero uomo spirituale non ha nemici... io mi sforzo quotidianamente di vivere questa dimensione dello Spirito e quindi non ho nemici... ho, come dire, assunto la missione di servire - con tutta l’onestà intellettuale di cui sono capace, magari non è molta - l’idea di Dio, l’idea del Bene, l’idea della Verità cristianamente connotata: Dio, Verità e Bene mediati dalla figura e dall’insegnamento di Gesù. Ecco, voglio servire questa idea nell’oggi a confronto con la tempesta specu­lativa, di sabbia nichilista, dentro cui siamo tutti quanti immersi.
Se poi questo mi comporterà alcune censure e così via, non mi interessa, non cerco né applausi, né titoli, né di evitare censure... non cerco nulla, cerco di servire la mia coscienza, la Verità e il Bene nelle anime altrui.
Debbo dirle, concludendo, che una delle cose di cui veramente gioisco è quando la gente mi scrive (e lo fa spessissimo) dicendo che grazie al mio lavoro per molti la dimensione spirituale si è rafforzata.
Questa è per me la cosa che mi ripaga e che vado cer­cando: quella di ridare fiducia al vivere oggi, la fiducia teologale propria del senso della fede, la fiducia nella vita, nella bontà della vita.
Che poi vuol dire credere in Dio, altrimenti che cosa vuol dire credere in Dio?
È esattamente avere fiducia nella sensatezza, nel Bene, nella giustizia della vita... Ed io questo intendo fare... e poi i posteri giudicheranno, che le debbo dire!


Domenica 14 Febbraio,2010 Ore: 17:18
 
 
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