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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org La dottrina sociale come ideologia,di Marie-Dominique Chenu

La dottrina sociale come ideologia

di Marie-Dominique Chenu

Come la pensava P.M.D.Chenu


Le parole hanno una storia sempre significativa, dicevamo all’inizio: la lettura dei testi ci ha portato a osservare l’uso e le vicissitudini dell’espressione ‘dottrina sociale’. Non nel senso generale, e noi l’abbiamo detto, di un cristianesimo che comporta, come legge essenziale dei rapporti fraterni tra gli uomini, una dimensione socio-politica, ma nel senso preciso e storico dell’uso che ne è stato fatto dai pontefici e dal magistero ordinario a partire da Leone xiii fino alle novità di Giovanni XXIII.
La prova incontestabile di questo destino storico è, dopo un uso durato settant’anni, l’eliminazione, prima implicita, poi intenzionale, di questa espressione dai discorsi ufficiali. Ancora frequentemente usata nella Mater et Magistra (1961), è assente nella Pacem in terris (1963), e esclusa dalla costituzione conciliare Gaudium et spes. Vi si sostituisce una formula apparentemente simile nella sua formulazione materiale, ma diversa nel suo significato: ‘insegnamento sociale del Vangelo’, che comporta ‘insegnamento’ invece di ‘dottrina’, e un richiamo diretto al Vangelo e alla sua ispirazione. È spiacevole che negli stessi indici ufficiali queste espressioni differenti siano state collocate sotto la stessa voce ‘dottrina sociale’.
A proposito del vocabolario del concilio, durante l’elaborazione dei testi e nel corso della redazione, sono avvenuti incidenti rivelatori. In diverse occasioni ‘dottrina sociale’ è stata usata in senso globale; ma, a più riprese, l’espressione fu contestata. Nel decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi durante la discussione fu proposto e accettato un emendamento che chiedeva l’eliminazione di una espressione ambigua e soggetta a contestazione; e infatti fu eliminata dalla redazione finale.
È soprattutto nella costituzione Gaudium et spes che i responsabili chiesero di sostituire ‘dottrina sociale’ con ‘dottrina cristiana sulla società’, minuscola variante per evitare la formula stereotipa. Così avvenne al cap. 2 n. 23 e nel capitolo relativo alla comunità politica (n. 76), dove per un disgraziato malinteso ci si è arbitrati di ristabilire l’espressione [dottrina sociale] dopo la promulgazione del testo.
Da allora, malgrado qualche oscillazione, l’espressione è stata sempre più contestata. È risultata particolarmente inaccettabile nelle chiese del Terzo Mondo, nelle quali le categorie occidentali non rispondono alle situazioni economiche e culturali locali.
In verità fu quella la prima sconfitta di questo concetto: esso accomuna categorie socio-culturali che sono il riflesso di una situazione storica e geografica determinata e che, di conseguenza, offendono le realtà che non hanno integrato. Tale concetto destoricizza nozioni che sono il prodotto del tempo determinato in cui furono elaborate. Per riprendere l’espressione di Paolo VI nella sua lettera al card. Roy sopracitata: i ‘condizionamenti’ fanno tutt’uno con la verità evangelica, imprigionata in modelli prefabbricati e dunque privata d’innovazione creatrice. In breve, si enunciano princìpi astratti, a partire dai quali per via deduttiva si cercano delle applicazioni, invece di misurarsi effettivamente con la realtà, nei luoghi concreti dove si svolge la vita collettiva, «lontano dal palazzo delle idee e del potere», come diceva il prof. De Rita al convegno dei cattolici italiani a Roma del novembre 1976. È impossibile stabilire il costume sociale prendendo come riferimento per tutti gli uomini un mondo ideale, che si presume rifletta la gloria divina e che di fatto sacralizza un ordinamento gerarchico particolare della società.
È questa la causa della mediocre efficacia dell’insegnamento dei pontefici. In ogni nuovo documento il papa si lamentava della indifferenza, della negligenza, delle esitazioni dei cristiani nell’applicazione delle direttive proposte; la mancanza di zelo non è la causa prima di questo scacco, ma il metodo stesso nella sua mancanza di realismo psicologico e sociologico.
È ancora questa la causa della permanente ambiguità delle soluzioni e dei consigli offerti; erano infatti idealizzate e universalizzate situazioni locali e temporanee: richiami alla vita contadina, regime di civiltà preindustriale, costumi pre-capitalistici, organizzazioni professionali, corporativismo, sindacalismo, intervento dello stato, ecc.
Al limite è la raffigurazione stessa di Dio che presiede a questa idealizzazione: un Dio che ha stabilito eternamente le leggi costitutive dell’ordine del mondo,, che governa con la sua imperturbabile provvidenza, di fronte alla quale la docilità più o meno passiva degli esseri umani garantisce la stabilità sociale e l’autorità. Questo ‘deismo’, nel quale l’Evangelo del Cristo è neutralizzato, è stata l’ideologia della borghesia del xix sec.; e non è passata senza lasciare traccia nella spiritualità della dottrina sociale. Si sarà osservato, al contrario, che nei testi recenti il richiamo al messaggio del Vangelo è proposto come la motivazione dell’impegno del cristiano, assai più che le istanze del diritto naturale o di una philosophia perennis.
Il cristianesimo è una ‘economia’, e il regno di Dio si realizza nella storia, nella quale l’apporto dell’evento non è una semplice aggiunta a una visione dell’uomo che esisterebbe in se stessa, indipendentemente dallo spazio e dal tempo. Gli eventi nuovi conducono la chiesa a una interpretazione nuova della tradizione kerigmatica e di tutta la tradizione evangelica. Interpretare la storia della salvezza a partire da un fatto nuovo esige che la chiesa sia profondamente inserita nell’avvenimento salvifico. Così, mediante il suo magistero, può portare i suoi fedeli a inserirsi nella storia della salvezza, impegnandosi nella storia della liberazione degli uomini. Il rapporto tra liberazione e salvezza non ha senso se non storicamente situato. In altri termini la liberazione totale e definitiva del Cristo si concretizza sempre attraverso liberazioni storiche parziali. Così bisogna rifiutare una teologia astratta che prenda in considerazione soltanto la condizione permanente dell’umanità, nelle sue speranze come nella sua miseria. Questo tipo di teologia ha spesso servito da garanzia ideologica a coloro che, dal momento che detenevano il potere economico e politico, cercavano di mantenere lo status quo.
Vi è un caso stupendamente esemplare nella storia quando la chiesa si trovò a far fronte a una congiuntura storica fino allora imprevista: Las Casas († 1566) sconvolse l’ordine stabilito dalle gerarchie locali, le ecclesiastiche come le politiche, allorché condusse una violenta campagna per la liberazione degli Indios; e per una meravigliosa coincidenza, in quello stesso momento a Salamanca, in Spagna, il suo confratello Vitoria enunciò, contro la teologia corrente in quel tempo, le leggi della promozione politica e dell’autonomia evangelica degli individui, fossero pure pagani.
Oggi, lo sviluppo dei popoli (Populorum progressio) rimette in questione le strutture mentali all’interno delle quali la chiesa ha sempre espresso la sua fede. L’uomo che essa vedeva al servizio di un ordine divino impresso nella natura, si rivela come il creatore della propria libertà, il suo sforzo genera continuamente l’assetto che gli permette di diventare una persona. Il ritorno a Dio dell’universo e dell’umanità non è soltanto un processo determinato da Dio, ma un atto cui l’uomo liberamente consente. Le libere azioni dell’uomo creatore e liberatore, che costituiscono la storia, formano il processo che, realizzando l’immagine di questo mondo, fa di questo stesso mondo un mondo liberato, un mondo salvato. Così si forma una concezione della vita sociale che supera l’idea dell’essenza nell’ambito del cosmo e della natura e riconosce l’orizzonte più vasto della libertà, del tempo, della storia. La storia non è più dunque una semplice modificazione di una essenza eterna, ma al contrario non vi è natura che all’interno del quadro più vasto della storia.
Non si tratta dunque per la chiesa di proporre un modello prestabilito, un progetto di società che si troverebbe in concorrenza ideologica con altri regimi sociali e a motivo dei quale una chiesa-cristianità professerà la sua religione come la forma determinante della civiltà. Coscientemente o no i sostenitori e i protagonisti della ‘dottrina sociale’ erano permeati da questo mito della cristianità. Concezione giuridico-societaria che non è che una incarnazione della potestas indirecta: «Si stabilisce pertanto un regime competitivo della chiesa con la società umana nell’illusione di poter presentare agli specialisti di problemi sociali un sistema di soluzioni razionalmente irrefutabili, e, a un tempo, fedele espressione di princìpi cristiani. Non è difficile riconoscere in questo schema l’impostazione fondamentale delle ideologie, tra le quali infatti, da alcuni decenni, si allinea anche un’ideologia di ispirazione cristiana».
«Con la teologia del popolo di Dio, introdotta come secondo capitolo della Lumen gentium, si è verificata la rivoluzione copernicana dell’ecclesiologia cristiana contemporanea. In tal modo si è ridato spazio e dinamica a tutta la riflessione sulla chiesa ponendola in una prospettiva storica e di comunione. È su tale base che si è aperta la reale possibilità, anzi l’urgenza, di superare la fase della dottrina sociale cristiana, per impostare una riflessione sul rapporto fra storia della salvezza e storia umana, abbandonando tutte le tentazioni competitive rispetto alle società civili e la pretesa di impegnarsi in un discorso tecnico sui vari problemi dello sviluppo e dell’equilibrio sociale» (G. Alberigo, “La Costituzione Gaudium et spes in rapporto al magistero globale del concilio”, in La Chiesa nel mondo di oggi, Firenze, 1967, p. 186, 190).
La Gaudium et spes non è un semplice restauro della dottrina sociale; essa è un elemento decisivo dell’inversione di tendenza rispetto allo schema che comandava la dottrina sociale.
Di questa posizione noi possiamo offrire la linea e il nucleo, applicando la nozione di ‘segni dei tempi’, l’espressione evangelica alla quale Giovanni xxiii ha dato credito in questa materia. ‘Segni dei tempi’: è l’espressione adeguata per significare lo sforzo nuovo dei cristiani nella loro ermeneutica della società e per qualificare la nuova coscienza della chiesa nello svolgimento della storia attuale. Invece di cercare di applicare una dottrina generale ai casi particolari, l’attenzione si concentra sulla lettura della storia come tale, per distinguere in alcuni fatti il loro valore simbolico, nella misura in cui questi avvenimenti costituiscono dei punti di convergenza per molte persone e esprimono in qualche misura la loro attesa. Leggere il senso divino o evangelico di questi eventi non significa affatto astrarli dalla loro realtà terrena; è in se stessi, nella loro piena e propria pregnanza umana, che essi sono segni. È proprio in questa realtà che la chiesa legge in essi un’attitudine a divenire richiamo al Vangelo e soggetto della grazia. Così la promozione dei popoli del Terzo Mondo nelle giovani chiese con la loro liturgia e la loro teologia della liberazione: così la socializzazione in forza dei rapporti di produzione; così la mondializzazione dei problemi, ecc.
Aggiungiamo che questo emergere di valori non può essere percepito che mediante e nell’azione. Leggere i segni dei tempi è essere provocati all’azione e, nello stesso tempo, non li si legge che perché si agisce simultaneamente; essi non saranno veramente segni dei tempi se noi non li vivremo. Indubbiamente questo contro ogni metodo idealista, è il test del realismo cristiano, secondo il quale si ‘fa la verità’ [Gv. 3, 21].
 
Marie-Dominique Chenu
La dottrina sociale della Chiesa, Queriniana, 1977, pp.48-53

Articolo tratto da:

FORUM (156) Koinonia

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Domenica 19 Luglio,2009 Ore: 17:24
 
 
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