- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (422) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org ISTITUZIONE E PROFEZIA: QUALE MODELLO PER LA CHIESA D’OGGI,di P.Alberto Bruno Simoni o.p.

Intervento di A.B.Simoni al convegno di Roma del 20 giugno
ISTITUZIONE E PROFEZIA: QUALE MODELLO PER LA CHIESA D’OGGI

di P.Alberto Bruno Simoni o.p.

I - “Istituzione e profezia per quale modello di chiesa”: sono parole di prima grandezza! A volerle conciliare teoricamente o teologicamente – come sarei portato a fare secondo una mia impostazione mentale - sarebbe un rompicapo: si potrebbe tornare a “Carisma e potere” di L.Boff. Ma siamo nell’ambito e nella prospettiva del Vaticano II, e si richiede una lettura storica e “pastorale” del problema.
E allora, dire “istituzione” fa pensare subito ad una chiesa neo-costantiniana, post-tridentina, latina, romana e infine “pacelliana”, nel senso che tutto si risolve positivamente in ministero e magistero, e negativamente in ufficialità, potere, “gerarcologia” o “papolatria” (Congar), in clericalismo.
 
Dire invece “profezia” - sempre in questo contesto - rimanda a colui che si è presentato al mondo col nome di Giovanni, per assumere, col nome, il compito di colui che è stato più che un profeta: preparare al Signore un popolo ben disposto. Siamo in altro versante! Non che allora non ci fossero profeti, ma erano “profeti di sventura”. 
Anagraficamente, tra Pio XII e Giovanni XXIII c’è uno scarto di 5 anni: in realtà c’è un passaggio d’epoca e quanto era da tempo latente alla base, matura in nuova stagione: i fermenti presenti dentro una struttura di chiesa verticistica anche nelle sue espressioni laicali, avranno come frutto il n. 12 della Lumen gentium, dove si valorizzano il sensus fidei e il munus profetico del Popolo di Dio.
 
Questo passaggio da una forma di “chiesa-istituzione” a quella di “chiesa-profezia” è sì qualcosa di acquisito in linea di principio, ma non lo si può dare per scontato su un piano di fatto: non è stato indolore al tempo del Concilio ed è tutt’altro che pacifico e compiuto ora. Per poterlo portare storicamente a compimento è necessario capire come si è generato e come si è sviluppato, o anche come si è interrotto. Bisogna riandare alla genesi del Vaticano II, “grazia di Dio e dono dello Spirito santo” (Sinodo dei Vescovi 1985),“un evento provvidenziale" (Novo Millennio Adveniente, n. 18). Quindi non siamo davanti ad una decisione amministrativa o iniziativa diplomatica, ma davanti ad un evento carismatico.
 
Ecco allora la biografia e il carisma di Giovanni XXIII, che trovano il loro sbocco nella ispirazione improvvisa che lo induce a pronunciare – “certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito” - il nome e la proposta di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale. Rimane questo il momento più significativo e decisivo.
Ci sono poi il radiomessaggio dell’11 settembre ’62 e il discorso di apertura del Vaticano II l’11 ottobre: non sono discorsi celebrativi ma entrano già nel vivo e sono orientativi del futuro Concilio, quando la preoccupazione istituzionale e l’ispirazione profetica entreranno in conflitto. Ma le indicazioni di Giovanni XXIII sono ben chiare: “Siamo dunque, con la grazia di Dio, al punto giusto. Le profetiche parole di Gesù, pronunciate in vista del compiersi della finale consumazione dei secoli, incoraggiano le buone e generose disposizioni degli uomini, in modo particolare in alcune ore storiche della Chiesa, aperte ad uno slancio nuovo di elevazione verso le cime più alte: «sollevate la testa, perché è prossima la vostra liberazione» (Lc 21,20)”. Ci sono già qui i tanti motivi che ritorneranno poi nei documenti conciliari, in cui viene riattivata la tensione escatologica della storia della salvezza.
 
Ma entrando ancor più nello specifico, il discorso di apertura traccia la mappa del Vaticano II, all’insegna della urgenza di una “inculturazione della fede della Chiesa” nel discernimento dei segni dei tempi e secondo un magistero a carattere prevalentemente pastorale. Ne emerge subito un progetto di chiesa sospesa tra la novità del vangelo e la novità della storia, come ci è fatto capire dalle parole dettate da Giovanni XXIII dieci giorni prima della sua morte: “Non è il vangelo che cambia, ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
Ma come questa prospettiva storica e dinamica è recepita dentro i lavori del Concilio e con quali esiti li attraversa, e come ne esce? Come un vero e lungo travaglio e con le doglie del parto. Ora, se c’è un documento che ha avuto un percorso travagliato ed è il parto più emblematico del Vaticano II, questa è la costituzione Dei Verbum: la sua stessa vicenda redazionale è come il filo conduttore del nodo istituzione-profezia: ripensiamo al dibattito delle due fonti della rivelazione.
Anche in questo caso, è stato Giovanni XXIII ad evitare che non solo il documento ma l’intero concilio abortisse, accogliendo la volontà di una maggioranza inferiore ai richiesti 2/3, quando si è trattato di decidere se continuare o meno sulla falsariga dottrinale-dogmatica o dare una svolta biblica di aggiornamento ai lavori del Concilio. Questa svolta prenderà una direzione più specificamente ecclesiologica con Paolo VI, ma ciò non impedirà che la Dei Verbum veda la luce in extremis e rappresenti l’ago della bilancia ed il terreno forse ancora inesplorato dell’intero Vaticano II.
 
II - Procedendo sempre per accenni, si può avanzare l’ipotesi che la Dei Verbum sia l’asse portante e la chiave interpretativa di tutto il Concilio, che non ha voluto essere ecclesiocentrico, ma si è poi appiattito su questioni ecclesiologiche. A questa ipotesi di lavoro ne fa seguito un’altra: prima o accanto ad un modello di chiesa di segno istituzionale espresso dalle Costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes – è possibile enucleare un modello di chiesa in termini profetici a partire appunto dalla Dei Verbum? In altre parole, prima che rinchiudere la Parola di Dio nella chiesa, forse è il caso di ricollocare la chiesa dentro l’intero mistero della rivelazione o nella storia della salvezza: una Chiesa interamente “sotto la Parola di Dio”.
Questa diversità di approccio la si coglie mettendo a confronto il n.1 sia della LG che della DV: da una parte si definisce formalmente la chiesa “sacramento - segno e strumento - dell’intima unione con Dio e dell’unità dell’intero genere umano”, dall’altra se ne dà una descrizione dal vivo, e si dice che essa si presenta “In religioso ascolto della parola di Dio” e in stato di annuncio per servire la comunione ricevuta, “affinché per l'annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami”.
 
Quella della Dei Verbum è più che mai chiesa in atto e in dialogo con Dio e col mondo: è meno che mai uno stato, una gerarchia, un ordinamento giuridico, né solo magistero, ministero, organizzazione. È sacramento, ma in quanto Parola di Dio fatta carne: quanto di più imprevedibile e fragile ci possa essere. Non è sostanza o soggetto a sé preesistente, ma è relazione sostanziale o costitutiva, “persona mistica”: non potere di sangue o volere di uomo, ma potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede.
 
Per la verità, al n.1 della Dei Verbum si dice anche che questa Chiesa, “seguendo le orme dei Concili Tridentino e Vaticano I, intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione”. Ma forse proprio qui, pur ammettendo un compromesso, abbiamo il caso più evidente di quanto Giovanni XXIII si riprometteva dal Concilio quando disse: “Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi”.
Una chiesa dunque che rientra nella “economia della rivelazione” (n.2) e che - nel Verbo eterno che illumina tutti gli uomini - diventa “economia cristiana” o cristica (n.4), preparata e annunciata profeticamente dall’”economia della salvezza”(n.14) e dall’”economa del Vecchio Testamento”(n.15). Questa economia nuova è inaugurata al momento in cui “Cristo Signore ordinò agli apostoli che l'Evangelo venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni divini”. Ci viene detto che questa missione avviene in questo ordine: “nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni” (n.7)
 
Se oltre alle modalità guardiamo ai contenuti, si dice che tutto questo “contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede <…> nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio <…> le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega” (n.8). Per cui “il magistero non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio” (n.10).
Senza poter approfondire e andando subito al capitolo VI della DV, in cui si esamina il rapporto Sacra Scrittura-vita della Chiesa, le divine Scritture sono ritenute “la regola suprema della propria fede” (n. 21), alla stessa maniera in cui l’Eucarestia ne esprime il mistero centrale: esse godono della stessa venerazione del Corpo di Cristo. Certo, se questo fosse stato vero nella storia e nella spiritualità a parità di importanza forse noi avremmo già una chiesa profetica e meno sacramentalizzata e ritualizzata! In ogni caso la Chiesa che crede e che prega non manca di “di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli” (n.21). Su questo piano, per arrivare ad un bilanciamento si impone inizialmente un rovesciamento, altrimenti si continua sempre a versare vino nuovo in otri vecchi.
È un nuovo equilibrio di mentalità e di prassi che va trovato, ed è quanto sembra auspicare l’esortazione finale della Costituzione conciliare: “Come dall'assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso alla vita spirituale dall'accresciuta venerazione per la parola di Dio, che «permane in eterno» (Is 40,8; cfr. 1 Pt 1,23-25)” (n. 26). Emmaus è sì riconoscere il Risorto nello “spezzare il pane”, ma solo potendo dire: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32).
 
III – Nel titolo che mi è stato assegnato per questo mio intervento c’è una parola che sembra rituale ma è la più impegnativa: “per la chiesa di oggi”. Siamo riportati al motivo stesso del Concilio, che non sarebbe stato necessario “per intavolare discussioni” dottrinali, ma è stato voluto per dare alla dottrina di sempre “quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale”.
Viene subito da pensare a quello che sarà chiamato “principio pastorale” e anche alla parola chiave che ha contraddistinto tutto il Concilio: “aggiornamento”! E verrebbe subito da chiedere: cosa ne è stato, nel linguaggio e nei fatti? Questa parola programmatica ci dice chiaramente che una immagine di chiesa profetica ad extra – in interfaccia col mondo - sarebbe dovuta diventare primaria rispetto a quella ad intra e autoreferenziale, a carattere istituzionale.
Questa immagine profetica di chiesa noi la intuiamo nei suoi lineamenti ed è forse quella presente nelle nostre attese e nei nostri sogni: la Gerusalemme di lassù che è libera ed è la nostra madre” (Galati 4,26). Forse traspare già sui nostri volti. Ma è bene tentare di sciogliere dei nodi che ne impediscono e ne ritardano la nascita come chiesa in fieri, in cammino, del “non ancora”, del futuro, delle genti: una chiesa che sviluppi non solo la dimensione sacerdotale e regale del Popolo di Dio, ma porti in primo piano la dimensione profetica: Chiesa del Vangelo, e quando si dice vangelo è Regno di Dio che viene, ma sul piano delle relazioni umane e personali ; chiesa della Parola che è “Parola della croce” “Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola” (Atti 6,24); chiesa dello Spirito, che ne sente la voce, pur senza sapere di dove venga e dove possa portare, alla verità tutta intera.
 
Un primo nodo da sciogliere sta nella complessa vicenda post-conciliare, troppo facilmente liquidata, ma tutta da esaminare e ripensare. Il laborioso dibattito che si era sviluppato “in capite” nel Concilio non è passato “in membris”: un primo periodo per molti tutto sembrava fatto in senso profetico, fino a contentarsi di rifacimenti di facciata; ora al contrario sembra che tutto sia fatto in senso dottrinale, per cui l’ermeneutica del Concilio è “quaestio soluta” e chiusa. Ecco perché è necessario ritrovare un altro approccio e adottare un’altra strategia per riaprire il confronto dialettico su tutta la linea.
Questo retrospettivamente; ma approccio e strategia diversi sono necessari soprattutto in prospettiva, per rilanciare e reimpostare il dibattito sulle questioni di fondo, risolte o non risolte allora, adottando però quel metodo inaugurato da Giovanni XXIII, cui va “data grande importanza e, se è necessario, applicato con pazienza”. È l’altro nodo da sciogliere: come dare corpo ad un modo di essere chiesa che vive qua e là nelle coscienze di molti e in esperienze di vangelo diffuse, ma che non si impone come volto nuovo della Chiesa di Dio?
“Lungi dall’essere minimalista, questa presenza evangelica e apostolica (parousia) corrisponde molto bene a un profondo mutamento della figura stessa della Chiesa. La sua forma politico-integralista – la Chiesa definita come ‘società perfetta’ o gerarchica, fondata su un diritto divino che ne regola il dogma, la vita sacramentale, le istituzioni, le pratiche e i precetti – ha perso molto della sua plausibilità. Oggi il ‘programma istituzionale’ che essa ha saputo inventare all’inizio del secondo millennio e trasmettere alla cultura europea, insegnandole a trasformare i valori e principi in azione e in soggettività attraverso un lavoro professionale specifico e organizzato, si esaurisce: questo causa il declino di tutte le istituzioni destinate a socializzare gli individui in un universo definito di principi e di valori. La chiesa e la sua pastorale sono coinvolte in questa dinamica della decomposizione. Ma al tempo stesso sta nascendo un’altra figura di Chiesa: non una figura mitica delle origini, ma una Chiesa nascente” (C.Theobald, Dei Verbum, Dopo quarant’anni. La rivelazione cristiana, il regno attualità 22/2004).
La controversa vicenda conciliare della Dei Verbum è emblematica anche in questo senso e penso che per uscire dall’ impasse attuale sia necessario adottare e sviluppare quello che viene chiamato il “principio pastorale” o di pastoralità, vale a dire l’orientamento e la destinazione di un Concilio come era stato inteso e concepito da Giovanni XXIII. C.Theobald lo formula in questi termini: “Non c’è annuncio del Vangelo di Dio senza farsi carico del destinatario; e, per precisare il ruolo di quest’ultimo, si deve aggiungere che ciò di cui si tratta nell’annuncio è già operativo in lui, dal momento che può aderirvi in piena libertà” (in Chi ha paura del Vaticano II, p.56).
Se la Dei Verbum – pomo della discordia – non ha potuto a suo tempo strutturare pienamente e dare una impronta unitaria a tutto il Concilio, può diventare ora la matrice di una Chiesa profetica? Se la nostra risposta è “sì”, l’impresa è tutta davanti a noi e richiede semplicità di colombe e accortezza di serpenti. Non bastano proclami o prese di posizione, ma ci vuole “cuore buono e perfetto” (Lc 8,14) che porti frutto con la perseveranza
 
A questo proposito, solo qualche accorgimento e suggerimento:
a) mutuare da Giulio Girardi questa “feconda ipotesi interpretativa: quella che, contrariamente a quello che si pensa, riconosce nel Vaticano II due distinti concili, ognuno con i suoi protagonisti e con la sua coerenza interna”. E quindi mantenere aperta e viva una inevitabile tensione dialettica tra istituzione e profezia.
b) non avere la pretesa che la chiesa possa essere tutta e solo e sempre profetica, ma impegnarsi in prima persona a farla esistere come tale, a darle vita e corpo, ricordando che mai nessuno è profeta in casa! Fa bene Paolo Farinella ad aspettarsi dal suo cardinale “un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità”, ma bisogna stare attenti ad un ecclesiocentrismo di ritorno o di riflesso. Una “chiesa profetica” non ha confini istituzionali, semmai include l’istituzione! 
c) favorire quella che Massimo Faggioli indica come “recezione politico-culturale” del Vaticano II e che trova proprio nella Dei Verbum la sua chiave interpretativa in prospettiva storica, interreligiosa, ecumenica ed ecclesiale. Praticare la distinzione tra movimenti storici e ideologie, secondo la Pacem in terris! Ed è qui che sarebbe da inserire un discorso sulla laicità
 
Questa impresa e questo impegno dovrebbero portarci a fare del Vaticano II una nuova o diversa tradizione della Chiesa e ad assicurarle nel tempo il volto della profezia per il mondo, così come Trento e Vaticano I le hanno garantito un assetto istituzionale interno, controriformista e antimodermista.
Se un auspicio o un preghiera vogliamo farli è che qualcuno alzando gli occhi al cielo e sospirando, pronunci sulla sua Chiesa un grande “Effatà”. “apriti”!
 
P.Alberto Bruno Simoni o.p.
 
Pistoia, 19 giugno 2009
 

Articolo tratto da:

FORUM (152) Koinonia

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Venerdì 03 Luglio,2009 Ore: 16:47
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Concilio Vaticano II 50 anni dopo

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info