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www.ildialogo.org Verso un’epoca post-ecumenica?,di Fulvio Ferrario

A CHE PUNTO SIAMO CON L’”ECUMENISMO”
Verso un’epoca post-ecumenica?

di Fulvio Ferrario

Passato e presente del movimento ecumenico tra crisi e speranze. Un'analisi dopo la XLVI Sessione di Formazione ecumenica a Chianciano su “La Parola della croce”


Il Novecento è stato senz’altro il secolo dell’ecumenismo, sviluppatosi grazie alla fondazione del Consiglio Ecumenico e ampliatosi in seguito alla partecipazione della chiesa romana al cammino verso l’unità visibile della chiesa. I venticinque anni tra il 1965 e il 1990 hanno determinato un’esplosione di speranze, tutt’altro che irragionevoli. Quattro fattori, mi pare, hanno inciso in modo particolare.
 
Speranze ecumeniche
 
1) La pressione della base delle chiese. Sia la componente più consapevole e impegnata del popolo cristiano, sia, per ragioni diverse, quella più secolarizzata, hanno mostrato una vistosa insofferenza per barriere confessionali sempre meno comprensibili, in particolare nel quadro della società secolarizzata. A fronte delle grandi diversità nella comprensione del mondo (tra credenti e atei e tra credenti appartenenti a tradizioni religiose diverse) e ai grandi problemi sociali e politici dell’umanità, le divergenze confessionali sono apparse a molti come un retaggio del passato, da superare con decisione. In tale giudizio vi era anche una componente di approssimazione, ma non è difficile riconoscere in esso un consistente nucleo di verità, sul quale l’impegno ecumenico ha fatto leva.
 
2) La tradizioni teologiche accademiche cattolica e protestante (il discorso vale solo in parte per quella ortodossa, che ha vissuto una storia assai diversa) hanno imparato a lavorare intensamente assieme. Ciò vale in primo luogo per l’esegesi biblica nella quale, se ci si pone a un serio livello scientifico, consensi e divergenze, anche molto sensibili, sono del tutto trasversali rispetto alle confessioni. Anche nella dogmatica, nella teologia pratica e persino nell’etica, tuttavia, il dibattito, certamente dopo il Vaticano II, ma per alcuni aspetti anche prima, è stato comune e condiviso, oltre le appartenenze ecclesiali.
 
3) Il Consiglio ecumenico delle chiese ha offerto un contributo inestimabile nel gettare ponti, nel coinvolgere con forza il Sud del mondo nel confronto ecclesiale, nell’inserire le tematiche sociopolitiche, appoggiando anche materialmente i movimenti di liberazione, nel mantenere aperti i contatti con l’ortodossia oppressa dal giogo del socialismo di stato, nel perseguire con coraggio il dialogo con Roma. In questo sforzo, numerose sono stati gli errori e le unilateralità. Il consapevole rifiuto di assumere, rispetto al comunismo, un atteggiamento demonizzante parallelo a quello del cattolicesimo romano, è sconfinato a volte in un atteggiamento remissivo e poco coraggioso. È doveroso dire, oggi che questo grave limite è spesso rimproverato da parte ortodossa, che ad esso ha concorso anche la volontà di non mettere in difficoltà chi, con quei regimi, doveva fare quotidianamente i conti. Sarebbe stato facile giocare a fare i profeti restando a Ginevra. Piuttosto che condannare oggi il movimento ecumenico di allora, le chiese ortodosse dei paesi ex comunisti potrebbero utilmente chiedersi se da parte loro si sia sempre detto e fatto tutto quello che era necessario. Che le chiese ortodosse condannino ora come collaborazionisti i propri dirigenti del passato (dei quali comunque quelli attuali sono gli eredi), e al tempo stesso appoggino religiosamente le ambizioni neozariste dei nuovi satrapi, non può non suscitare qualche perplessità.
È anche doveroso aggiungere che la forza del movimento ecumenico si è appoggiata a una certa abbondanza di mezzi finanziari, messi in gran parte a disposizione dalle chiese evangeliche tedesche, uscite a pezzi dalla guerra e dal nazismo e desiderose di rientrare nel dialogo internazionale. Oggi che anch’esse vivono gravi difficoltà finanziarie, che le costringono a ridurre il loro apporto, il loro sforzo pluridecennale dev’essere riconosciuto con gratitudine da tutti coloro che hanno a cuore la causa dell’unità della chiesa.
 
4) Gli anni Sessanta e i primi anni Settanta del XX secolo hanno visto una generale passione per il dialogo, il confronto, il superamento delle barriere, la progettazione del nuovo. Non è nemmeno il caso di sottolineare gli aspetti contraddittori, confusi e anche negativi e pericolosi che tale tensione rinnovatrice ha portato con sé. In ogni caso, essa ha creato un clima di speranza nel quale anche il movimento ecumenico ha potuto crescere. È parso per un tempo (ingenuamente, possiamo dire oggi) che esistesse qualcosa come un trend della storia: non lineare, certo, non privo di controtendenze, ma indirizzato, nell’insieme, verso un incremento della giustizia, dell’impegno di liberazione, dell’unità di intenti, della solidarietà.
 
La svolta recente
 
Dal punto di vista socio-politico, tre fattori, tra loro non omogenei e non coincidenti cronologicamente, hanno segnato un nuovo quadro.
 
1) L’elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti (1980) ha inaugurato una fase neoconservatrice di lunga durata. Importante per il nostro discorso è il ruolo, a suo modo realmente “ecumenico” svolto dalla destra religiosa, protestante, cattolica e anche ebraica nell’ideologia neoconservatrice.
 
2) Il crollo dei regimi comunisti è stato senza dubbio un grande evento di liberazione. Esso però ha lasciato l’America reaganiana come unica superpotenza mondiale il che, per molti paesi del Sud del mondo, ha significato un aumento drammatico delle difficoltà. La nuova situazione ha anche modificato significativamente l’atteggiamento ecumenico delle chiese ortodosse, nelle quali si è manifestata con chiarezza sempre maggiore l’atavica diffidenza nei confronti dell’Occidente e della cultura da esso espressa.
 
3) I processi di globalizzazione hanno reso totalmente obsoleti i tradizionali strumenti di analisi sociopolitica. È nato un mondo nuovo, che si è sviluppato con una velocità infinitamente maggiore di quella delle capacità di interpretarlo (per tacere di quelle di governarlo). La ricchezza mondiale si è ulteriormente concentrata e la sperequazione tra ricchi e poveri è aumentata a ritmi esponenziali, del tutto fuori controllo.
In questo scenario, sono cambiate anche le chiese. Dell’ortodossia abbiamo in parte detto. Il cattolicesimo romano ha vissuto il lunghissimo (1978-2005) pontificato di Giovanni Paolo II, un cardinale polacco formatosi nel fuoco della resistenza anticomunista della sua chiesa e più che perplesso nei confronti del liberalismo occidentale. Personaggio di statura eccezionale, grande comunicatore, non scevro, anche, da atteggiamenti demagogici, Karol Wojtyla ha fortemente propugnato un’interpretazione assai prudente del Vaticano II, sottolineandone all’estremo la continuità con la tradizione cattolico-romana precedente. In questo è stato efficacemente coadiuvato dal teologo da lui chiamato alla direzione della Congregazione romana per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger. Uomini dalla personalità assai diversa, Giovanni Paolo II e il futuro Benedetto XVI hanno realizzato un incisivo progetto di “normalizzazione” della chiesa cattolica, dopo quelli che ad essi apparivano come gli imprudenti slanci conciliari e, soprattutto, post-conciliari. In Giovanni Paolo II, il conservatorismo interno si è sposato con gesti anche eclatanti su altri piani: l’impegno per la pace, per il dialogo interreligioso e anche le dichiarazioni sulla giustizia sociale. Queste ultime, tuttavia, non hanno impedito a lui e al suo braccio destro dottrinale di soffocare, a suon di provvedimenti disciplinari, sospensioni, censure, pressioni su vescovi e superiori, la chiesa della liberazione latinoamericana, per poi liquidarla definitivamente con nomine mirate dei nuovi vescovi.
Non si può dire che, fino all’inizio del XXI secolo, tale politica si sia accompagnata a dichiarazioni di scetticismo sul piano ecumenico. Anzi, Roma è stata molto attiva in questo ambito. Il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani ha promosso un numero impressionante di dialoghi bilaterali; il cattolicesimo romano ha partecipato attivamente ai lavori di Fede e Costituzione; il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee ha promosso, insieme alla KEK, la grande assemblea di Basilea (e, poi, quella meno entusiasmante di Graz 1997 e quella francamente deprimente di Sibiu 2007). Nel 1999, alla vigilia del cosiddetto Grande Giubileo del 2000, è stata sottoscritta la Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione.
 
Crisi protestante
 
Il protestantesimo è stato investito da questi cambiamenti in una fase di rilevante crisi interna. Le sue caratteristiche ecclesiologiche, ma anche di mentalità, lo hanno esposto, nei paesi ricchi occidentali, alle spinte della secolarizzazione in misura più rilevante rispetto al cattolicesimo; la consistenza numerica delle chiese si è ridotta, a volte drammaticamente, con conseguenze rilevanti anche a livello finanziario. La sua grande forza, cioè la ricchezza pluralistica e dialogica, la libertà nel dibattito, la capacità di accogliere e integrare posizioni diverse, si è tradotta, nella società mediatica, in un fattore di debolezza. La voce unica e stentorea del bianco viaggiatore proveniente da Roma, infatti, ha mostrato una capacità di ottenere udienza infinitamente maggiore di quella espressa dalle assemblee delle chiese evangeliche: esse appaiono all’opinione pubblica, farraginose nelle procedure, oscure e complicate nelle conclusioni, modeste nella rappresentatività. È impressionante constatare che anche quei settori dell’opinione pubblica occidentale che rifiutano drasticamente le posizioni romane (ad esempio in materia etica), di fatto vedono nel pontefice il loro vero interlocutore “cristiano” o, addirittura, il rappresentante delle “religioni”; nei casi più estremi, addirittura della “sensibilità alle questioni etiche”.
 
Fenomeno pentecostale
 
Un ulteriore fattore critico è costituito, per il protestantesimo, dall’esplosione del movimento “evangelicale” (in particolare pentecostale), nato in suolo protestante, ma che ormai tende a configurarsi come una forma autonoma di cristianesimo. Esso fa proprie le tesi decisive della Riforma (la centralità della Scrittura, la giustificazione per grazia, il sacerdozio universale dei credenti). Diversa è però la prospettiva culturale di fondo: mentre il protestantesimo “classico” si è plasmato nel quadro del confronto con la modernità di matrice europea, i nuovi movimenti evangelici mantengono un rapporto essenzialmente critico con la modernità e soprattutto con la secolarizzazione, che della modernità occidentale è una delle espressioni qualificanti. Ne derivano: un’interpretazione biblica che spesso rifiuta consapevolmente gli esiti, ma soprattutto i metodi e la passione spirituale e intellettuale dell’esegesi moderna; una teologia che, mentre riprende in modo spesso molto fedele il vocabolario della tradizione evangelica, lo inserisce in un impianto che ritiene di poter aggirare o ignorare le grandi sfide della modernità (un esempio per tutti: il darwinismo e le sue conseguenze culturali, globalmente intese); un’etica che, mentre si richiama con forza alla lettera del testo biblico, respinge come compromissorio ogni tentativo di leggere tale testo sullo sfondo delle conoscenze e delle sfide attuali. Mentre dunque le chiese protestanti “classiche” manifestano un vistoso affanno, quelle “evangelicali” crescono impetuosamente, soprattutto nei paesi del Sud del mondo, e si propongono al cattolicesimo e all’ortodossia come il nuovo, vero, interlocutore ecumenico. Il fatto è tanto più significativo l’arcipelago “evangelicale” manifesta, in termini piuttosto perentori, un’accentuata diffidenza, quando non un vero e proprio rifiuto, nei confronti dell’ecumenismo. Roma, però, pensa in tempi lunghi e in prospettiva non soltanto teologica, ma anche geopolitica: il suo interesse si indirizza là dove, a suo parere, si collocano le forze alle quali sembra appartenere il futuro. Inoltre, molti elementi della concezione “evangelicale” attraversano anche le chiese storiche, il che può senz’altro essere visto come un elemento di vitalità del protestantesimo, una capacità di recepire gli stimoli dei tempi nuovi. Finché, però, l’incidenza sociologica e statistica delle chiese protestanti continua a ridursi, è difficile pensare che esse possano assumere nuovamente l’iniziativa, anche ecumenica, che le ha caratterizzate nel passato
Fulvio Ferrario
(1.continua)

Articolo tratto da:

FORUM (158) Koinonia

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Mercoledì 05 Agosto,2009 Ore: 16:45
 
 
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