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RAZZISMO
DALLE LEGGI ANTIEBRAICHE DEL 1938 AL PREOCCUPANTE RIGURGITO DEGLI ULTIMI ANNI

di Daniela دانیلا Zini زینی

In Italia, coloro che pensavano che il nostro antisemitismo, e il razzismo in generale, fossero nati, nel 1938, per adeguamento mussoliniano alla filosofia dell’Asse Roma-Berlino, e si fossero dileguati assieme al crollo del regime del littorio, oggi riflettono sulle radici ben più profonde di questo “male oscuro” della nostra civiltà.
Il razzismo in Italia risale ai lunghi secoli di ghetti per i “perfidi giudei”, colpevoli del deicidio. E risale alle imprese africane, perché non vi è colonialismo che non abbia nella propria ideologia una robusta vena razzista.
Con il fascismo, che ha una concezione “aristocratica” della società e della storia, il razzismo si trova maggiormente a suo agio, anche se non si presenta subito come antisemitismo perché il punto di vista di Mussolini sembra essere, a proposito della questione ebraica, oscillante. Parlando con Ludwig, nel 1932, il duce sostiene che “l’antisemitismo non esiste in Italia” e, negli anni 1933 e 1934, Il Popolo d’Italia – con articoli non firmati, ma di evidente ispirazione – polemizza spesso con il razzismo dei nazionalsocialisti appena saliti al potere in Germania; ma, già, nel 1936, Mussolini scrive che “l’antisemitismo è inevitabile laddove il semitismo esagera con la sua esibizione, la sua invadenza e, quindi, la sua prepotenza. Il troppo ebreo fa nascere l’antiebreo”.
Sono oscillazioni dettate da convenienze politiche: a un certo momento gli fa comodo appoggiare il gruppo dei “sionisti revisionisti” che, a differenza dei sionisti ufficiali, era antinglese. Certo è che aveva derivato da alcune fonti socialiste antisemite – Fourier, Proudhon, Bakunin e, soprattutto, Georges Sorel – uno stato d’animo che sul suo giornale, il 4 luglio 1919, aveva espresso così:
 
“Se Pietrogrado non cade, se Denikin segna il passo, gli è che così vogliono i grandi banchieri ebraici di Londra e New York, legati da vincoli di razza con gli ebrei che a Mosca come a Budapest si prendono una rivincita contro la razza ariana che li ha condannati alla dispersione per tanti secoli. In Russia vi è l’80% dei dirigenti dei Soviet che sono ebrei. Il bolscevismo non sarebbe per avventura la vendetta dell’Ebraismo contro il Cristianesimo? L’argomento si presta alla meditazione. È possibile che il bolscevismo affoghi nel sangue di un pogrom di proporzioni catastrofiche.
La finanza mondiale è in mano agli ebrei. Chi possiede le casseforti dei popoli, dirige la loro politica. Dietro i fantocci di Parigi, sono i Rothschild, i Warburg, gli Schiff, i Guggenheim, i quali hanno lo stesso sangue dei dominatori di Pietrogrado e di Budapest. La razza non tradisce la razza. Il bolscevismo è difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa è la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare.”
 
Vi sono, già, in queste righe, tutti gli ingredienti della polemica fascista antisemita di venti anni dopo.
Ma il primo razzismo fascista nasce con gli insediamenti coloniali e, in un modo più esplicito, con la conquista dell’Etiopia, quando il PNF (Partito Nazionale Fascista) proclama la necessità di “creare la coscienza imperialistica e razzista del popolo italiano”. In Libia vige l’ordinamento giuridico instaurato dal governatore Volpi di Misurata, il quale ha chiara in testa una divisione etnico-sociale. Gli italiani hanno il potere; gli arabi sono lo strato inferiore, piccoli contadini, commercianti, ambulanti, pastori; gli ebrei sono lo stato intermedio, mediatori, grossi commercianti, amministratori. Alle scuole e ai tribunali per gli ebrei, dunque, Volpi affianca una distinta giurisdizione per i musulmani.  
Il 23 ottobre, il Gran Consiglio del Fascismo proclama la Libia territorio nazionale e, il 4 dicembre, viene promulgata la legge che elargisce ai libici musulmani una “cittadinanza italiana speciale”, che era, in pratica, quella limitata di prima, con l’aggiunta dell’ordinamento sindacale e corporativo.
Nei riguardi dell’Africa Orientale, il 19 aprile 1937, il regime emana il decreto-legge che istituisce il nuovo reato di “rapporti coniugali con i sudditi”. Nel quadro della politica “di miglioramento e potenziamento” della razza si pone – con molta disinvoltura, perché l’aumento delle nascite e il miglioramento delle condizioni sanitarie e fisiche dei cittadini non sono affatto un capitolo del razzismo – anche la battaglia demografica, con la progettazione di una grande colonizzazione.
Si poteva pensare di seguire l’esempio della Spagna e del Portogallo che avevano lasciato libera la mescolanza dei colonizzatori con i colonizzati: ma dove sarebbe finito il “primato di Roma”?
Il problema urgente è il “madamismo”, vale a dire la vecchia abitudine dei nostri ufficiali e funzionari di tenersi in casa more uxorio una donna indigena, “madama”: il decreto citato pone un argine alle nascite dei “mulatti”, che ora sarebbero aumentate considerevolmente. Non viene, invece, vietato ai cittadini italiani l’accesso nelle case di tolleranza rifornite di “sciarmutte” indigene, reclutate dalle nostre autorità.
Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale l’Italia fascista è, dunque, al centro di una comunità imperiale che – ispirandosi alla prassi dell’antica Roma – presenta una serie di stati giuridici differenti: solo la cittadinanza italiana è optimo jure, vale a dire gode della pienezza dei diritti, mentre hanno diritti più o meno limitati e sono diverse tra loro la cittadinanza albanese, quella dell’Egeo, quelle libiche, la condizione di sudditanza nell’Africa Orientale. Specialmente nell’Africa Orientale la differenziazione razziale è nettissima. Tutte le terre della corona, dei ribelli e dei fuoriusciti sono state incamerate dal demanio per distribuirle ai coloni italiani: in questi provvedimenti, scrive Angelo del Boca, “vi sono già tutti i principi dell’apartheid sudafricano”. Paul Gentizon, che visiterà l’Impero, nel 1939, quando i suoi istituti e la sua macchina amministrativa funzionano, già, da tempo, scrive:
 
“La politica coloniale dell’Italia è dominatrice in tutti i campi. Essa non ha nulla di sentimentale. Nei riguardi degli indigeni, respinge come falsa e pericolosa ogni teoria dell’assimilazione. Essa mira infine a proteggere la purezza e l’integrità della razza bianca. Il razzismo può essere considerato come il corollario o meglio il coronamento della politica coloniale fascista.” 
 
È in questo contesto che trova posto anche il progetto di una cittadinanza speciale per gli ebrei. I primi segni tangibili del sorgere imponente di una questione ebraica sono del 1937, quando vede la luce il pamphlet di Paolo Orano Gli ebrei in Italia, in cui si vuole dimostrare che gli ebrei costituiscono in ogni nazione lo stato maggiore dell’antifascismo e che i sionisti italiani antepongono un’altra patria alla nostra.
Giovanni Preziosi, antisemita da antica data, cura una nuova edizione dei famigerati Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Altri libri escono in quegli stessi mesi sulla questione ebraica, tra i quali particolarmente incisivo è Il mito del sangue di Julius Evola, che espone una dottrina basata sulla distinzione tra la razza del corpo, dell’anima e dello spirito, superando, con ciò, il puro dato biologico. In prima linea sulla nuova problematica sono diversi fogli dei GUF (Gruppi Unitari Fascisti).
Preoccupati, molti ebrei testimoniano a Il Popolo d’Italia la loro fede patriottica e fascista e Mussolini ne prende atto, ribadendo, tuttavia, che “il sionismo non può far rima con fascismo”. E, nel febbraio del 1938, esce una nota dell’agenzia ufficiosa Informazione diplomatica che enuncia due punti notevoli: il problema ebraico può essere risolto solo “creando in qualche paese nel mondo, non in Palestina, uno stato ebraico”; occorre “fare in maniera che la parte degli ebrei nella vita d’insieme della nazione non sia sproporzionata ai meriti intrinseci individuali ed alla importanza numerica della loro comunità”. La nota aggiunge che il governo non pensa a provvedimenti contro gli ebrei; ma quale minaccia contiene questo criterio della “proporzionalità”?
Nel 1938, gli ebrei cittadini italiani sono 47.252 e quelli stranieri in Italia sono 10.173.
Il 14 agosto 1938, due mesi dopo la visita di Hitler a Roma, i giornali pubblicano Il manifesto della razza che, firmato da un gruppo di “studiosi fascisti” il più noto dei quali è Nicola Pende, pretende di fissare in dieci punti le basi biologiche del nostro razzismo. Dimenticando secoli di invasioni che la nostra penisola ha subito, il “manifesto” afferma con disinvoltura che la razza italiana è ariana, che gli ebrei non appartengono alla razza italiana e che i caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani di razza ariana non debbono essere alterati in nessun modo. Zelante, il segretario del partito Achille Storace pone alla cultura fascista i punti da approfondire: l’individuazione dei caratteri della nostra razza e la sua difesa nel campo dei rapporti coloniali, per affermarvi la “superiorità colonizzatrice” dell’Italia, e nel territorio italiano dove occorre eliminare gli ebrei “dal corpo etnico della Nazione”.
Ai primi di agosto appare nelle edicole il quindicinale La difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi (segretario di redazione sarà Giorgio Almirante), e Storace raccomanda la diffusione ai federlali. Il nuovo periodico si affianca alle testate antisemite preesistenti: Il Tevere, diretto dallo stesso Interlandi, e La vita italiana di Giovanni Preziosi. Viene istituito presso il ministero dell’interno un Consiglio superiore per la demografia e per la razza.
Fuori dall’ambiente ebraico – che finge di manifestare fiducia nelle assicurazioni di non persecuzione – le espressioni di dissenso sono rare e prudenti. Fu luminosa eccezione un articolo, pubblicato il 3 agosto 1938, su La luce, il settimanale della Chiesa valdese, da un professore, Mario Falchi: “in quest’ora storica di ridesto antisemitismo” egli rivendica la positività della visione ebraica della vita. Il titolo è: “Quello che l’umanità gli deve…”; e il sottotitolo: “Vale a dire: quello di cui essa, l’umanità, fu e rimane debitrice ad Israele!”. Ma di opposizioni decise Mussolini non ne incontra. 
Tra gli altri gerarchi solo Balbo, De Bono e Federzoni sono dissenzienti. Vi è il Quirinale e vi è la Santa Sede.
 
“Nei confronti di Vittorio Emanuele”
 
scrive Renzo De Felice: “la cosa fu facile e rapida”. Buffarini Guidi va a parlargli a San Rossore e il re si limita a invitare il governo a discriminare gli ebrei che si sono distinti per patriottismo. Nei confronti della Santa Sede la situazione è più complessa: in linea generale, il sacro collegio e gli ambienti vaticani sono meno contrari del papa alla nuova campagna fascista, si attestano sul principio del “discriminare e non perseguitare”, sottolineano positivamente le differenze tra il razzismo tedesco (“biologici”) e il nostro, e alla fine limitano l’opposizione al solo punto delle nozze degli ebrei convertiti non potendo non considerare lesivo del Concordato il divieto del matrimonio di un ebreo convertito con un ariano.
Ma Mussolini tiene duro e la spunta. Qualche voce cattolica – ricordiamo Mario Bendiscioli – si leva contro “la condanna del mondo ebraico, vale a dire del Vecchio Testamento” (e questa fronda dà fastidio a Farinacci:
 
“Cos’è avvenuto che la Chiesa ufficiale si sente oggi non più antisemita, ma filosemita?”); ma più numerosi e autorevoli sono i prelati favorevoli: ricordiamo i gesuiti di Civiltà cattolica, con l’argomentazione che “gli ebrei medesimi hanno richiamato in ogni tempo e richiamano tuttora su di sé le giuste avversioni dei popoli coi loro soprusi troppo frequenti e con l’odio verso Cristo medesimo, la sua religione e la sua Chiesa” e padre Agostino Gemelli, rettore dell’Università cattolica di Milano, il quale vede nei provvedimenti fascisti “attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una patria, mentre le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo”. Va detto, tuttavia, che molti sacerdoti continueranno a celebrare matrimoni “misti” e che molti figli di matrimoni misti ottennero certificati di battesimo retrodatati, per eludere i limiti fissati dalla legge.
La quale, che cosa dice?
Chi è ebreo secondo le disposizioni nuove?
“Agli effetti di legge:
a)     è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi ebrei, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica;
b)     è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera;
c)      è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica quando sia ignoto il padre;
d)     è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi momento, manifestazioni di ebraismo.
Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1° ottobre 1938, apparteneva a religione diversa da quella ebraica.”
E chi sono gli ebrei “discriminati”?
I familiari dei caduti nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola e per la causa fascista, i feriti, mutilati, volontari e decorati nelle medesime occasioni, i fascisti antemarcia e quelli che si sono iscritti al partito nel secondo semestre del 1924 (vale a dire dopo l’uccisione di Matteotti).
Una serie di disposizioni di legge scaglionate nel tempo eliminano gli ebrei dalle scuole – sia come insegnanti sia come allievi – dalle forze armate, enti pubblici, industrie, commerci, professioni; limitano le loro proprietà immobiliari; ne diminuiscono le capacità nel campo testamentario. Con l’ultima fase della guerra le disposizioni si aggravano con limitazioni in materia di patria potestà, di adozione, di tutela, di affiliazione, con l’eliminazione degli ebrei dal settore dello spettacolo e il divieto di amministrare case o condomini appartenenti anche solo parzialmente ad ariani o da costoro abitate; fino alla disposizione del 6 maggio 1942, che sottopone “gli appartenenti alla razza ebraica, anche se discriminati, di età dal 18° al 55° anno compresi, a precettazione civile a scopo di lavoro”.
Questa odiosissima disposizione – che tenta di giustificarsi con un presunto “malcontento popolare” contro il favoritismo fatto agli ebrei i quali, “liberi da obblighi militari, potevano dedicarsi all’affarismo e all’ozio”, il che suonava “offesa per le masse combattentistiche e lavorative Italiane” – non fa a tempo ad avere una grande applicazione: le prefetture tardano a compilare gli elenchi, poi il regime cade. Qualche donna viene utilizzata in fabbriche tessili o alimentari o cartiere, gli uomini in aziende agricole, lavori stradali e di nettezza urbana. A Roma, per scavi e pulitura degli argini del Tevere.
Non va, viceversa, dimenticato il non infrequente aiuto dato dalle nostre truppe di occupazione, in opposizione ai tedeschi, alle comunità israelitiche nella penisola balcanica. La caduta del fascismo (25 luglio 1943) non modifica lo stato giuridico degli ebrei perché il governo Badoglio non provvede ad abrogare le leggi razziali. Si dice: per non irritare l’alleato, con il quale “la guerra continua”. Ma la cosa grave è che durante i “45 giorni” il maresciallo non abbia provveduto a far distruggere gli elenchi degli ebrei conservati nelle questure e che dopo l’8 settembre siano caduti nelle mani dei repubblichini e dei tedeschi.
Spietata diventa la condizione sotto la RSI, che nel Manifesto di Verona, al comma n. 7, recita semplicemente:
 
“Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.”
 
Segue l’ordine ai capi delle Province di inviare “tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano”, in appositi campi di concentramento; e la confisca di tutti i loro beni, mobili e immobili, devolvendone il prezzo di vendita allo Stato “a parziale ricupero delle spese assunte per assistenza, sussidi e risarcimenti di danni di guerra ai sinistrati delle incursioni aeree nemiche”.
È la “soluzione finale”. A Roma vi è la taglia di 5.000 lire per ogni israelita catturato (2.000 se donna, 1000 se bambino). Gli ebrei braccati dai fascisti della RSI e deportati (secondo i calcoli fatti da Giuseppe Mayda in un suo saggio) sono 8.451, di cui solo 980 si salvano. Occorre aggiungere i 292 uccisi in Italia e morti in detenzione. Aggiunge Mayda successivamente:
 
“Le condizioni in cui vivevano gli ebrei nelle prigioni di Salò erano talmente crudeli da spingere le vittime al suicidio: soltanto a San Vittore, e nel limitato periodo tra l’11 e il 23 dicembre 1943, due ebrei si tolsero la vita gettandosi dal terzo piano all’interno del carcere e due donne ebree, una straniera e una signorina Calabresi, si impiccarono a Firenze in una cella della Santa Verdiana. Agli ebrei chiusi a San Vittore erano negati anche i pochissimi diritti concessi agli altri detenuti, politici e comuni: l’ora d’aria in cortile, la possibilità di ricevere pacchi, la corrispondenza con le famiglie, l’assistenza medica e l’acquisto di generi alimentari o di conforto allo spaccio del carcere.”
 
Il razzismo che, oggi, ritorna a fare capolino nei recessi oscuri dell’irrazionalismo culturale italiano è un fenomeno complesso, un pretesto per lo scatenarsi dell’aggressività, che, pur avendo come substrato di fondo la mancata maturazione di una solida, diffusa coscienza democratica e la crisi di tutti gli equilibri della nostra società, rivela più di una causa contingente.
Vi è la radice veterocattolica di coloro che, diffidando delle innovazioni “pericolose” del Concilio Vaticano II, non hanno cancellato nel loro cuore l’idea del delitto di deicidio; vi sono all’estrema destra coloro che si ispirano a Evola; e nell’area confusa della “nuova sinistra” coloro i quali, con errata semplificazione e non distinguendo tra ebrei, sionisti e Stato d’Israele, individuano – più o meno in buona fede, vale a dire con o senza puzzo di petrolio – nell’ebraismo nient’altro che una componente dell’imperialismo americano.
 
Daniela دانیلا Zini زینی
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Mercoledì 15 Luglio,2009 Ore: 14:08
 
 
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