“SAPIENZA” E DINTORNI
Ratzinger: il mondo reale e quello virtuale

di Piero Stefani

In una situazione in cui i fiancheggiatori (più dei protagonisti) sembrano dare il peggio di sé e nella quale il bandolo del discorso è tenuto in mano dalla strumentalizzazione politica e dall’amplificazione mediatica, è vano sperare di riflettere con pacatezza. Se lo si cerca ugualmente di fare, l’opzione va ascritta al registro della dignità intellettuale, non a quello dell’utilità. Ciò vale anche per quanto è avvenuto (e sta avvenendo) a proposito della lectio magistralis che Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere alla Sapienza.
Pare un segno del destino che due tra gli avvenimenti dotati di maggior eco tra tutti gli atti connessi al pontificato di papa Ratzinger siano collegati all’ambiente accademico. I motivi del clamore sono però opposti: nel primo caso le reazioni sono state suscitate da parole pronunciate, nel secondo da un discorso non detto. Questa asimmetria toglie inevitabilmente mordente al confronto tra i due testi. Inoltre Ratisbona, a differenza di Roma, resterà un punto di svolta di un pontificato, da allora in poi messo in uno stato di perenne ricattabilità da parte dell’islam, mentre Roma avrà ripercussioni più sull’Italia che sulla S. Sede. Tuttavia l’operazione di leggere sinotticamente i due discorsi, poco significativa per conoscere il mondo real-virtuale che caratterizza i nostri giorni, resta istruttiva per comprendere il pensiero di Benedetto XVI.
Il raffronto tra le due circostanze è stato evocato da Ratzinger stesso nel suo discorso preparato per l’università di Roma e diffuso nonostante la rinuncia. La ’lectio-simulacro’, resa nota soprattutto per dimostrare il rispetto da essa espresso nei confronti della laicità, attesta in modo significativo il sentire e il pensare del suo autore: l’area accademica gli è di casa e sono i suoi umori a far emergere in maniera più scoperta i convincimenti di fondo del papa. Ratzinger ha vissuto (e in parte ancora vive) l’insegnamento accademico come la parte più qualificante della propria missione.
Nella cara Regensburg, il professore Joseph Ratzinger, oltre che come papa, dichiara di aver parlato come ex docente; a Roma, nella sua diocesi, doveva invece prendere la parola solo come pastore. Il filo del suo discorso si dipana proprio a partire dalla volontà di giustificare perché un papa possa pronunciare una lectio nell’università della sua città. Ironia della sorte: la riflessione, forse più ampia, del perché il vescovo di Roma abbia il diritto di parlare è contenuta in un discorso da lui mai pronunciato.
L’argomentazione del perché un vecovo-papa possa esprimere il proprio insegnamento in un’università fondata da un suo lontano predecessore (Bonifacio VIII) veleggia tutta in alto, sul piano dei principi. Le sue parole, quindi, sarebbero, paradossalmente, risultate virtuali soprattutto se lette dal papa in un’aula magna gremita di docenti togati. Il effetti, nel discorso di Ratzinger non traspare alcun sospetto di quali siano i problemi reali legati al degrado dell’università italiana. Nell’ordine dei fatti, l’istituzione che, secondo Benedetto XVI, dovrebbe avere nella ricerca della verità la sua finalità qualificante, è, per la massima parte, una struttura di inganno che non mantiene quasi mai quel che promette né nel corso degli studi, né, ancor meno, dopo. La dissennata proliferazione di corsi di laurea e sedi universitarie è la cartina di tornasole di un sistema trasformatosi in un abnorme e sfaccettato specchietto delle allodole che procura disastri di non piccola entità alle giovani generazioni. Bloccato ogni significativo ricambio basato sui meriti, non scalfito in modo significativo il sistema baronale, gli insegnamenti universitari si reggono (precariamente) solo perché affidati, per la massima parte, a truppe ausiliarie di ricercatori a vita e di assegnisti e contrattisti sottopagati e spesso illusi. Conclusione inevitabile: i giovani che, nonostante tutto, riescono a conseguire una formazione intellettuale di rilievo sono sempre più frequentemente destinati ad accasarsi all’estero.
Benedetto XVI non poteva, né doveva mettere il piede direttamente in questo piatto; gli spettava però lasciar capire che sapeva che questi fenomeni esistono. In realtà, l’astratta elevatezza del discorso alla Sapienza si presenta, nel suo piccolo, come uno specchio del massimo dramma dell’attuale pontificato: l’incapacità non solo di leggere e di interpretare, ma persino di percepire il mondo reale. L’illusione insita nel discorso ratzingeriano incentrato sulla verità è che i principi siano chiamati a governare il mondo. Da questo punto di partenza è invitabile concludere che il mondo, nel suo svolgersi concreto, sia inevitabilmente in preda all’errore e allo sviamento. Come si sa, i principi sono quasi sempre disattesi. In questa impostazione la difesa della ’verità eterna’ è quindi affidata al suo storico riconoscimento avvenuto in passato, mentre nel presente domina l’obnubilamento di una ragione moderna ormai incapace di radicarsi nella prima certezza divina.
Il fattore dominante nel discorso pubblico di Ratzinger è l’assolutizzazione non già della fede cristiana, consapevolmente situata in un contesto pluralista, ma di una ragione (o meglio della ragione) assunta come organo unico preposto alla conoscenza della verità. Si compie, però, un ulteriore passo, riassumibile pressappoco nel modo seguente: siccome la verità per definizione è una e siccome il messaggio cristiano è vero, i due hanno contratto, in linea di principio, un matrimonio indissolubile. Il risvolto più inquietante di questa impostazione non tocca i laici (il quale dal messaggio ricevono solo un’ennesima immagine parziale della fede), bensì i credenti cattolici a cui è prospettata una fede necessariamente agganciata a una concezione della ragione incapace di reggere alla critica del pensiero moderno. In definitiva, la volontà di assegnare a un’esausta apologia di una determinata concezione della ragione un ruolo strategico consegna l’attuale magistero all’incomprensione degli apporti più qualificanti della cultura moderna e all’estraneità dal mondo reale.
Quello scritto per la Sapienza è un discorso articolato e complesso, in gran parte dedicato a una ricostruzione delle linee guida dell’università medievale, ma anche capace di un confronto con un paio di pensatori contemporanei (Rawls, Habermas). Seguirlo e discuterlo passo a passo richiederebbe tempo. Pare però non arbitrario (per quanto inevitabilmente parziale) riassumerlo ricorrendo a qualche citazione. La prima si riferisce alla legittimità che il papa possa intervenire in un discorso pubblico come pastore di una determinata tradizione religiosa. Si legge: «il papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienze storiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica». Passaggio ineccepibile e pienamente condivisibile, se non fosse per il fatto che, nel resto del discorso, l’articolo indeterminativo è sostituito da quello determinativo: «così il papa come pastore della sua comunità, è divenuto sempre più anche una voce della ragione etica dell’umanità». Tra i due tipi di articoli la differenza non è minore di quella che separa il giorno dalla notte.
Da buon professore, Ratzinger ama le ricapitolazioni. Il sunto finale ci è perciò offerto dalle stesse parole conclusive: «Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare e da dire il papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritativo la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di pastore della chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino sollecitare a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro».
Ci si può domandare: la ragione ha davvero bisogno di un papa per essere invitata a mettere in moto la propria ricerca? E ancor di più, ha bisogno del vescovo di Roma per sapere quando cammina sulla strada maestra della verità e quando invece erra lungo i viottoli sdrucciolevoli del relativismo? L’annuncio dell’evangelo è compito peculiare del credente. Dal canto suo, l’annuncio di una ragione aperta al vero, al bene e a Dio sarebbe una contraddizione in termini, e non consentito farlo neppure al papa (la ricerca razionale per sua natura non è legata a nessuna ’buona novella’ che le giunge dall’esterno); ma, francamente, non si ricava un granché neppure ricorrendo alla variante più gentile dell’invito.


Piero Stefani

Articolo tratto da:

FORUM (81) Koinonia

http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/



Martedì, 22 gennaio 2008