L’enciclica «SPE SALVI» di Benedetto XVI

Una prima lettura


di Rosario Amico Roxas

L’enciclica “SPE SALVI” di Benedetto XVI (Clicca qui per il testo) si dibatte in un dedalo di involuzioni che nulla aggiunge alle domande che crescono dal mondo cristiano. Emerge, in prima lettura, la grande erudizione del pontefice, la sua documentata conoscenza filosofica, l’attenta analisi teologica.
E’ un itinerario frammentato, discontinuo, mancante di omogeneità che si dibatte tra filosofia e teologia, riferimenti storico-filosofici che spaziano da Sant’Agostino a Bacone, per citare poi Marx, Engels, Horkheimer, in una confusione di idee che non rende giustizia alla chiarezza.
La “Speranza” è l’elemento catalizzante del cristiano, insieme alla “Fede” e alla “Carità”, che dovrebbe contrapporsi al crollo delle ideologie, alle pretese della scienza, al fallimento dell’Illuminismo e alle limitazioni del relativismo.
Tutto ciò rientra più nella sfera delle ovvietà che nello slancio di comprensione dei fenomeni che caratterizzano questo pianeta, in questa epoca, in questa storia. Appare piuttosto come un invito al regresso, chiudendo le porte al fascino del nuovo e dell’attuale, sottraedosi alla sfida.
Non basta leggere questa enciclica se la si estranea dall’intera storia culturale di Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi. Il panorama, nella sua interezza, mostra i segni inequivocabili della contraddizione che emerge dagli scritti.
La condanna del progresso che ha portato l’uomo “dalla fionda alla megabomba” implicita la condanna della violenza e delle guerre, ma non fa rima con il Nuovo Catechismo del 1994, redatto da Ratzinger come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, che finisce con l’accettare l’ipotesi di “violenze giuste” e di “guerre giuste” .
La speranza che deve animare gli esclusi, che deve indirizzare i poveri del pianeta, gli esclusi, i discriminati, alla ricerca del divino per riceverne conforto, non combacia con il dispositivo di condanna emesso da Ratzinger nei confronti della teologia della Liberazione e del suo massimo rappresentante P. Jon Sobrino. Leggiamo , infatti, in quel dispositivo la motivazione di base che condiziona l’intero processo:
“Egli non nega il carattere normativo delle formulazioni dogmatiche ma, complessivamente, non riconosce ad esse un valore al di fuori dell’ambito culturale in cui sorsero”.
E’ il relativismo culturale che ha proposto in quel Salvador martoriato e in tutta l’America Latina un Cristo vero, genuino, aderente alle attese del popolo dei credenti, un Cristo lacero, mendico, affamato, assetato, negro, discriminato, ma colmo d’Amore per i suoi simili; il Cristo di Sobrino non si circonda di armigeri in abiti cinquecenteschi, non sviluppa la sua esistenza tra gli affreschi di Michelangelo, non dispone di tesori più o meno nascosti, ma partecipa alla vita sofferta, portando la Sua Croce, insegnando ai suoi “figli diletti” la vera Speranza, quella che sta “dopo” le sofferenze e che si attualizza nelle Beatitudini della Montagna.
Emerge ancora, in questa ultima enciclica, una condanna rivolta alla giustizia terrena, quella che premia il più forte, quella che redige le pagine della storia scritta dai vincitori; affermazione giusta, comprensibile, e vera, ma che si colloca fuori dalla storia della Chiesa se non viene rinnovata nello spirito; quella Chiesa che ha scritto la Sua storia, giustificandola nei contenuti, anche quando è stata fautrice dell’Inquisizione, delle crociate, del potere temporale, dei tribunali che comminavano il rogo; quella storia che ha negato la speranza, privilegiando il rogo.
L’invito al “mea culpa” che dovrebbe recitare il cristianesimo moderno per l’inadeguatezza di fronte al progresso della tecnologia, è piuttosto il “mea culpa” delle gerarchie vaticane che non riescono a seguire le disordinate evoluzioni dei tempi e dare loro un senso compiuto, comprendendone le esigenze mutate; con l’invito ad un radicalismo medievale la Chiesa si allontana dal popolo dei credenti che non trova risposte adeguate alle domande nuove.
L’invito che si può rivolgere è quello di rileggere l’enciclica “Spe Salvi” alla luce di una rilettura del volumetto “Senza radici” di Pera- Ratzinger , dove l’intervento dell’allora cardinale, fece da avallo alle affermazioni razziste del prof. Pera; la richiesta di imporre le “radici cristiane” all’Europa, trasformava il cristianesimo da religione universale a fenomeno antropologico, caratterizzante la cultura occidentale, che pretenderebbe accaparrarsi il primato culturale a fronte delle altre religioni e delle altre cultura, all’insegna della negazione del relativismo culturale che impone il rispetto per tutte le culture e ne promuove l’incontro e il dialogo.
E ancora di rileggere il volume “Spe Salvi” in contemporanea a “Gesù di Nazaret” di Ratzinger-Benedetto XVI, quando, già dalla preemessa dice:
“Se dunque la storia, la fatticità, in questo senso appartiene essenzialmentre alla fede cristiana, quest’ultima deve esporsi al metodo storico. E’ la fede stessa che lo esige”
Quindi la fede diventa “metodo storico”, diventerebbe epistemologia dello spirito, quindi scienza anch’essa.
Ma la scienza è un dono dell’intelletto, mentre la fede è un dono di Dio; così affermando Dio stesso non diventa un dono dell’intelletto ?


Rosario Amico Roxas



Sabato, 01 dicembre 2007