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30491. ROMA-ADISTA.
Una mazzata ai teologi, soprattutto indiani e del Sud Est
asiatico, impegnati nella difficile ricerca del "ripensamento"
del cristianesimo in rapporto alle antiche religioni
asiatiche; ed una mazzata a tutti gli ecumenisti
cattolici abituati ormai a chiamare "Chiese sorelle"
le Chiese cristiane non legate al papato romano. Così
appariranno a molti osservatori e studiosi due distinti
ma idealmente collegati documenti emanati
dalla Congregazione per la Dottrina della Fede,
presieduta dal card. Joseph Ratzinger, testi non
ancora pubblici, ma di cui Adista e il National
Catholic Reporter, negli Stati Uniti, sono venuti in
possesso (ma unanticipazione era stata data dal Catholic
News Service). Il primo documento, datato 6 agosto
2000, intitolato in latino Dominus Jesus
una dichiarazione "sulla unicità e universalità
salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa"
afferma infatti che non si possono affatto equiparare,
come vie di salvezza, quella portata da Cristo (lunica
vera) con quelle proposte da altre religioni del mondo: e
dunque il pluralismo religioso non può essere
giustificato "in linea di principio", ma "solo
in linea di fatto". Perciò, precisa il testo
ratzingeriano, "se è vero che i seguaci delle altre
religioni possono ricevere la divina grazia, è
altrettanto certo che, obiettivamente parlando, essi si
trovano in una situazione gravemente deficitaria a
confronto di quanti, nella Chiesa, hanno la pienezza dei
mezzi di salvezza". Dunque, prosegue Ratzinger,
"è evidente che sarebbe contrario alla fede
considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto
a quelle rappresentate dalle altre religioni".
In conclusione: "La teoria del carattere
limitato, incompleto o imperfetto della rivelazione di
Gesù Cristo, che sarebbe complementare a quella che si
trova in altre religioni, è contraria alla fede della
Chiesa" e con essa "in radicale contraddizione".
Eppure teologi come Tissa Balasuriya (Sri Lanka),
Jacques Dupuis (gesuita belga, per decenni professore
in India, e quindi docente allUniversità
gregoriana di Roma), Raimundo Pannikkar spagnolo-indiano),
Aloysius Pieris (India), e Carlo Molari (già
docente alle Pontificie Università Urbaniana e
Lateranense di Roma) sostengono sia pure con
approcci diversificati che se il Verbo di Dio è
perfetto, Gesù Cristo era limitato dal suo tempo e dalla
sua cultura; e, dunque, in qualche modo era "incompleto".
Le religioni non cristiane, aggiungono questi teologi,
possono perciò esprimere meglio alcuni valori che nel
cristianesimo sono stati invece sottaciuti.
Per tesi simili Balasuriya è stato addirittura
scomunicato, da Ratzinger, nel 97 (pena toltagli lanno
successivo, dopo una sua parziale ritrattazione), e
Dupuis ha di fatto perso linsegnamento alla
Gregoriana. Ma molti teologi hanno protestato, a suo
tempo, per la scomunica al loro confratello cingalese, e
poi per la punizione inflitta a Dupuis.
Per quanto poi riguarda le altre Chiese, Ratzinger
ricorda che questa parola, "Chiesa", può
essere applicata alle Chiese ortodosse, ma non alle
Chiese (il riferimento è a quelle nate dalla Riforma del
secolo XVI) "che non hanno preservato lepiscopato
valido ed una genuina ed integrale sostanza del mistero
eucaristico". Dunque, nota il testo, queste ultime
"non sono Chiese in senso proprio".
Dominus Jesus viene ufficialmente presentato in
Vaticano martedì 5 settembre; nella stessa occasione non
sarà invece presentato il secondo documento cui
abbiamo fatto cenno, e cioè la "Nota sulla
espressione Chiese sorelle", datato 30 giugno
2000 (v. Adista n. 59/00), ed inviato ai presidenti delle
Conferenze episcopali (e, in Italia almeno, finora
mantenuto segreto dal presidente della Conferenza
episcopale, card. Camillo Ruini), ed accompagnato
da una lettera di Ratzinger agli stessi presuli. Nella
lettera riservata, ma che Adista pubblica
qui di seguito il cardinale sostiene che il
crescente uso, anche in ambito cattolico, della
espressione "Chiese sorelle" rivolta alle altre
Chiese, si presta a preoccupanti "ambiguità",
per cui il suo dicastero ha deciso di intervenire. Ma losservazione
più interessante della lettera è nella precisazione che
il documento in questione, approvato da Giovanni Paolo
II il 9 giugno 2000, è sì un testo "autoritativo",
però esso "non sarà pubblicato in forma ufficiale
negli Acta Apostolicae Sedis [AAS], dato lo scopo
limitato della Nota, quello di specificare la
corretta terminologia teologica a proposito dellargomento
(le Chiese sorelle)".
Ora è sicuramente una procedura del tutto inconsueta
quella di attribuire "autorevolezza"
magisteriale ad un documento vaticano che però non viene
pubblicato sugli AAS, la pubblicazione ufficiale della
Santa Sede. Come mai, dunque, questa scelta inconsueta?
Si entra, qui, nel campo delle ipotesi. Forse il
Pontificio Consiglio per la promozione dellunità
dei cristiani non era daccordo con la Nota ratzingeriana?
Di fatto appare ben strano che un tema di tale rilevanza
ecumenica sia stato trattato senza un esplicito raccordo
tra lex SantOffizio e lorganismo
vaticano che presiede appunto alla problematica ecumenica.
Oppure Roma temeva che laffermazione portante del
testo la Chiesa cattolica romana, e solo essa, è
"Chiesa madre"; non può dunque davvero
considerare "sorelle" le Chiese ortodosse, o
peggio ancora quelle protestanti avrebbe provocato
un vespaio?
Infine, resta difficile da capire e da spiegare il
netto distacco tra il documento ratzingeriano e le
aperture non solo formali e celebrative ma anche
sostanziali dei gesti e delle dichiarazioni di Giovanni
Paolo II verso le religioni non cristiane e le Chiese
non cattoliche.
Erano quarantanni dai tempi del Concilio
Vaticano II che teologi ed ecumenisti cattolici
usavano tranquillamente lespressione "Chiese
sorelle", rivolta sia a quelle ortodosse che a
quelle anglicane, riformate ed evangeliche. Saranno pure
quarantanni, replica Ratzinger, ma è ora di
chiarire i malintesi, e di mettere in riga ecumenisti
forse volenterosi, ma per Roma sprovveduti.
Di seguito, in una nostra traduzione dai testi inglesi
approntati dal Vaticano, la lettera di Ratzinger ai
presidenti delle Conferenze episcopali e la "Nota
sullespressione Chiese sorelle" che la
lettera accompagna.
La lettera del cardinal Ratzinger ai
presidenti delle Conferenze episcopali: la Chiesa
cattolica è "madre", non "sorella"
Eccellenza,
negli ultimi anni,
l'attenzione di questa Congregazione è stata rivolta a
problemi derivanti dall'uso dell'espressione "Chiese
sorelle", espressione che appare in documenti
importanti del Magistero, ma che è stata anche impiegata
in altri scritti e nelle discussioni connesse al dialogo
tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse. È
un'espressione che è divenuta parte del vocabolario
comune per indicare il legame oggettivo esistente tra la
Chiesa di Roma e le Chiese ortodosse.
Purtroppo, in alcune
pubblicazioni e negli scritti di alcuni teologi coinvolti
nel dialogo ecumenico è recentemente invalso l'uso di
utilizzare quest'espressione per indicare la Chiesa
cattolica da un lato e la Chiesa ortodossa dall'altro,
portando le persone a pensare che in realtà l'unica
Chiesa di Cristo non esiste, ma può essere ristabilita
tramite la riconciliazione delle due Chiese sorelle.
Inoltre, la stessa espressione è stata applicata
impropriamente da alcuni alla relazione tra la Chiesa
cattolica da un lato e la Comunione anglicana e le
comunità ecclesiali non cattoliche dall'altra. In questo
senso, si parla di una "teologia delle Chiese
sorelle" o di un'"ecclesiologia delle Chiese
sorelle", caratterizzate da ambiguità e
discontinuità rispetto al significato originario
corretto dell'espressione che si rileva nei documenti del
Magistero.
Allo scopo di superare
questi equivoci ed ambiguità nell'uso e
nell'applicazione dell'espressione "Chiese sorelle",
la Congregazione per la Dottrina della Fede ha giudicato
necessario preparare l'acclusa "Nota
sull'espressione "Chiese sorelle""
approvata da papa Giovanni Paolo II nel-l'udienza del 9
giugno 2000. Le indicazioni contenute in questa nota
devono, perciò, essere considerate autorevoli e
vincolanti, anche se la "Nota" non sarà
pubblicata in forma ufficiale negli Acta Apostolicae
Sedis, dato il suo obiettivo circoscritto di
specificare la corretta terminologia teologica su questo
tema.
Nel fornirLe una copia di
questo documento, la Congregazione Le chiede cortesemente
di comunicare preoccupazioni ed indicazioni specifiche
ivi espresse alla Sua Conferenza episcopale e in
particolare alla Commissione o all'Ufficio incaricato del
dialogo ecumenico, in modo che le pubblicazioni ed altri
testi della Conferenza episcopale e dei suoi diversi
uffici si attengano scrupolosamente a ciò che è
stabilito nella Nota.
Con gratitudine per la sua
assistenza e con i migliori voti, resto Suo in Cristo
card. Joseph
Ratzinger
Congregazione per la Dottrina della
Fede
"NOTA SULL'ESPRESSIONE "CHIESE SORELLE""
1. L'espressione Chiese
sorelle ricorre spesso nel dialogo ecumenico,
soprattutto nel dialogo fra cattolici e ortodossi, ed è
oggetto di un continuo studio da entrambe le parti.
Mentre vi è certamente un uso legittimo di questa
espressione, ve ne è altresì uno ambiguo che è
divenuto predominante negli scritti contemporanei
sull'ecumenismo. In conformità con l'insegnamento del
Concilio Vaticano II e con il Magistero papale
postconciliare, è dunque opportuno ricordare l'uso
corretto ed appropriato di que-st'espressione. Giova
iniziare con un breve profilo storico.
I. Origine e sviluppo
dell'espressione
2. L'espressione Chiese
sorelle non appare come tale nel Nuovo Testamento,
tuttavia vi sono numerose attestazioni delle relazioni
sororali che esistevano tra le Chiese locali
dell'antichità cristiana. Il passaggio del Nuovo
Testamento che più esplicitamente riflette questa
consapevolezza è la frase finale della seconda lettera
di Giovanni: "Ti salutano i figli della eletta tua
sorella" (2 Gv 13). Si tratta di saluti inviati da
una comunità ecclesiale ad un'altra; la comunità che
invia i saluti si definisce sorella dell'altra.
3. Nella letteratura
cristiana, l'espressione comincia ad essere usata in
Oriente quando, a partire dal quinto secolo, comincia a
guadagnare terreno l'idea della Pentarchia,
secondo la quale a capo della Chiesa vi sono cinque
Patriarchi, e la Chiesa di Roma ha il primo posto tra
queste Chiese sorelle patriarcali. A questo
proposito, tuttavia, occorre notare che nessun romano
pontefice ha mai riconosciuto questa equiparazione di
sedi né ha accettato che solo un primato d'onore fosse
accordato alla Chiesa di Roma. Bisogna sottolineare anche
che questa struttura patriarcale tipica dell'Oriente non
si è mai sviluppata in Occidente.
Come è ben noto, le
divergenze tra Roma e Costantinopoli portarono, nei
secoli successivi, alla scomunica reciproca con "conseguenze
che, da quanto possiamo giudicare, andarono oltre ciò
che avevano inteso e previsto i suoi realizzatori, le cui
censure colpivano le persone menzionate e non le Chiese,
e i quali non avevano intenzione di rompere la comunione
ecclesiale tra le sedi di Roma e Costantinopoli"
4. L'espressione appare
nuovamente in due lettere del metropolita Niceta di
Nicodemia (nel 1136), e del patriarca Giovanni X
Camaterus (in carica dal 1198 al 1206), nelle quali
contestavano il fatto che Roma, presentandosi come madre
e maestra, avrebbe annullato la loro autorità. A
loro avviso, Roma era solo la prima tra sorelle di
pari dignità.
5. In tempi recenti, il
Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Atenagora I, è
stato il primo ad usare nuovamente l'espressione Chiese
sorelle. Nell'accogliere i gesti fraterni e l'appello
all'unità rivoltogli da Giovanni XXIII, spesso ha
espresso nelle sue lettere la speranza di vedere l'unità
tra le Chiese sorelle ristabilita nel prossimo
futuro.
6. Il Concilio Vaticano II
ha adottato l'espressione Chiese sorelle per
descrivere la relazione tra chiese particolari: "In
Oriente prosperano molte Chiese particolari o locali, tra
le quali tengono il primo posto le Chiese patriarcali, e
non poche di queste si gloriano d'essere state fondate
dagli stessi apostoli. Perciò, presso gli orientali
grande fu ed è ancora la preoccupazione e la cura di
conservare, in una comunione di fede e di carità, quelle
fraterne relazioni che, come tra sorelle, devono esistere
tra le Chiese locali".
7. Il primo documento
pontificio in cui il termine sorelle è applicato
alle Chiese è il documento apostolico Anno ineunte
di Paolo VI al patriarca Atenagora I. Dopo aver
manifestato la propria volontà di fare tutto il
possibile per "ristabilire la piena comunione tra la
Chiesa dell'Occidente e quella d'Oriente", il papa
chiedeva: "Dal momento che questo mistero di amore
divino è all'opera in ogni Chiesa locale, non è questo
il motivo della tradizionale espressione "Chiese
sorelle" che le Chiese di vari luoghi utilizzavano
l'una rispetto all'altra? Per secoli le nostre Chiese
hanno vissuto in questo modo come sorelle, celebrando
insieme i concili ecumenici che difendevano il deposito
della fede contro ogni corruzione. Ora, dopo un lungo
periodo di divisione e di reciproca incomprensione, il
Signore, nonostante gli ostacoli sorti tra noi nel
passato, ci dà la possibilità di riscoprirci come
Chiese sorelle".
8. L'espressione è stata
usata spesso da Giovanni Paolo II in numerosi discorsi e
documenti; ecco i principali, in ordine cronologico.
Nell'enciclica Slavorum
Apostoli: "Per noi essi (Cirillo e Metodio) sono
i campioni ed anche i patroni dell'impegno ecumenico
delle Chiese sorelle dell'Oriente e dell'Occidente per la
riscoperta, attraverso la preghiera e il dialogo,
dell'unità visibile in perfetta e totale comunione".
In una lettera del 1991 ai
vescovi d'Europa: "Quindi, con queste Chiese (le
Chiese ortodosse) devono essere promosse relazioni come
fra Chiese sorelle, per usare l'espressione di Paolo VI
nel suo documento al Patriarca di Costantinopoli,
Atenagora I".
Nell'enciclica Ut unum
sint, il tema è sviluppato soprattutto al numero 56
che inizia in questo modo: "Seguendo il Concilio
Vaticano II e alla luce della precedente tradizione, è
nuovamente tornato d'uso il riferimento alle Chiese
particolari o locali riunite intorno al loro vescovo come
"Chiese sorelle". Inoltre, il ritiro della
scomunica reciproca, eliminando un ostacolo canonico e
psicologico doloroso, ha costituito un passo
significativo sulla strada verso la comunione piena".
Questa sezione si conclude esprimendo l'augurio che
"la tradizionale designazione di "Chiese
sorelle" ci accompagni sempre in questo cammino".
Il tema è ripreso nuovamente al numero 60 dell'Enciclica:
"Più recentemente, la commissione internazionale
congiunta ha compiuto un passo significativo riguardo
alla delicatissima questione del metodo da seguire nel
ristabilimento della comunione piena tra la Chiesa
cattolica e la Chiesa ortodossa, tema che ha spesso
inasprito le relazioni tra cattolici e ortodossi. La
Commissione ha posto le basi dottrinali per una soluzione
positiva a questo problema sul fondamento della dottrina
delle Chiese sorelle".
II. Direttive sull'uso
dell'espressione
9. I riferimenti storici
presentati nei paragrafi precedenti illustrano la
rilevanza che l'espressione Chiese sorelle ha
assunto nel dialogo ecumenico. Ciò rende ancora più
importante il corretto uso teologico del termine.
10. In effetti, in senso
proprio, Chiese sorelle sono esclusivamente le
Chiese particolari (o raggruppamenti di Chiese
particolari; per esempio i patriarcati o province
metropolitane) tra di loro. Deve essere sempre chiaro,
quando l'espressione Chiese sorelle viene usata in
questo senso proprio, che l'una, santa, cattolica e
apostolica Chiesa universale non è sorella ma madre
di tutte le Chiese particolari.
11. Si può anche parlare
in senso proprio di Chiese sorelle in riferimento
a Chiese particolari cattoliche e non cattoliche; così
la Chiesa particolare di Roma può anche essere chiamata sorella
di tutte le altre Chiese particolari. Tuttavia, come
ricordato più sopra, non si può affermare correttamente
che la Chiesa cattolica è sorella di una Chiesa
particolare o di un gruppo di Chiese. Non è
semplicemente una questione terminologica, ma soprattutto
una questione di rispetto di una verità fondamentale
della fede cattolica: quella dell'unicità della Chiesa
di Gesù Cristo. Infatti, c'è un'unica Chiesa, e perciò
il termine plurale Chiese può solo riferirsi alle
Chiese particolari.
Di conseguenza, si deve
evitare, in quanto fonte di fraintendimento e di
confusione teologica, l'uso di formulazioni quali "le
nostre due Chiese" che, se applicate alla Chiesa
cattolica e alla totalità delle Chiese ortodosse (o ad
una singola Chiesa ortodossa), implicano una pluralità
non semplicemente a livello di Chiese particolari, ma
anche a livello dell'una, santa, cattolica e apostolica
Chiesa confessata nel Credo, la cui esistenza reale viene
in questo modo oscurata.
Infine, si deve anche
tenere in mente che l'espressione Chiese sorelle
in senso proprio, come attestato dalla tradizione comune
di Oriente e Occidente, può essere usata solo per quelle
comunità ecclesiali che hanno conservato un episcopato
ed un'eucaristia validi.
Roma, dagli Uffici della
Congregazione per la Dottrina della Fede, 30 giugno 2000,
Solennità del Sacro Cuore di Gesù.
Note
1) Paolo VI e Atenagora I,
Dichiarazione congiunta Penetrés de reconnaissance,
(7-12-65), 3; AAS 58 (1966), 20. Le scomuniche sono state
ritirate reciprocamente nel 1965; "Papa Paolo VI e
il patriarca Atenagora I in questo Sinodo... dichiarano
con reciproco consenso... di rammaricarsi e di eliminare
dalla memoria e dalla Chiesa le espressioni di scomunica"
(ibid., 4); cfr. anche Paolo VI, Lettera
apostolica Ambulate in dilectione (7/12/65); AAS
58 (1966), 40-41; Atenagora I, T_µo_ patriarcale (7/12/65):
_____ ______ Vaticano - Phonar (1958-1970), 129 (Tipografia
Poliglotta Vaticana; Roma - Istanbul, 1971), 290-294.
2) Concilio Ecumenico
Vaticano II, Decreto Unitatis Redintegratio, 14.
3) Paolo VI, documento
apostolico Anno ineunte (25/7/67); AAS 59 (1967),
852, 853.
4) Giovanni Paolo II,
Lettera enciclica Slavorum Apostoli, (2/6/85), 27;
AAS 77 (1985), 807.
5) Giovanni Paolo II,
Lettera ai vescovi d'Europa su Relazioni tra cattolici
e ortodossi nella nuova situazione nell'Europa Centrale e
orientale (31/5/91), 4; AAS 84 (1992), 167.
6) Giovanni Paolo II,
Lettera enciclica Ut unum sint (25/5/95), 56 e 60;
AAS 87 (1995), 954, 955, 957.
7) Cfr. i testi del
decreto Unitatis Redintegratio, 14 e il documento
apostolico di Paolo VI ad Atenagora I Anno Ineunte,
citati sopra nelle note 2 e 3.
8) Cfr. Congregazione per
la Dottrina della Fede, lettera Communionis notio
(28/5/92), 9; AAS 85 (1993), 843-844.
9) Cfr. Concilio ecumenico
Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium,
8; Congregazione per la Dottrina della Fede,
dichiarazione Mysterium Ecclesiae (24/6/73), 1;
AAS 65 (1973), 396-398.
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