RELATIVISMO, DOGMATISMO, PLURALISMO

di Elio Rindone

La campagna mediatica di Benedetto XVI per far trionfare nel campo dell’etica il punto di vista del Vaticano sembra davvero inarrestabile. Non passa settimana che i mezzi d’informazione non riecheggino ossessivamente le sue parole in difesa della famiglia fondata sul matrimonio o della sacralità della vita dal concepimento al suo termine naturale.


Ringraziamo l’amico Elio Rindone per averci messo a disposizione questa sua riflessione già pubblicata sul sito www.italialaica.it


Chiedendo che i parlamenti legiferino secondo questi principi, il Vaticano sostiene di compiere la propria missione a servizio dell’umanità, dato che i valori morali proposti dalla chiesa non sarebbero espressione di una determinata fede ma sarebbero universalmente validi in quanto iscritti nella natura stessa.

E chi la pensa diversamente? Evidentemente si trova nell’errore! E secondo il papa bisogna avere il coraggio di denunciare l’errore come tale, combattendo il relativismo oggi di moda, cioè l’idea - pericolosa al punto da costituire un’autentica minaccia per le fondamenta stesse della nostra civiltà - che si debba rinunciare a distinguere il vero dal falso e quindi il bene dal male.

Che la battaglia contro il relativismo costituisca il tema centrale del pontificato risulta già da quello che se ne può considerare il discorso programmatico, e cioè l’omelia pronunciata dall’allora cardinale Ratzinger in qualità di decano del collegio cardinalizio nel corso della messa ‘pro eligendo romano pontifice’: “il relativismo, cioè il lasciarsi portare ‘qua e là da qualsiasi vento di dottrina’, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”(18/4/2005).

E infatti sul tema il papa è tornato con straordinaria frequenza. Nel discorso tenuto a conclusione del 4° Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, per esempio, ha ribadito che oggi “l’etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso”(19/10/2006).

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È innegabile che quella del papa sia un’abile mossa. Presentare coloro che dissentono dalle posizioni vaticane come ‘relativisti’ consente, infatti, di bollarli come persone prive di valori, che si lasciano trasportare da ‘qualsiasi vento di dottrina’, insensibili a qualunque ‘principio morale’ e quindi incapaci di resistere alle proprie ‘voglie’. Per converso, la gerarchia cattolica, custode di una fede in sintonia con la ragione, appare impegnata a difendere la dignità dell’uomo, ribadendo l’oggettività dei valori morali e offrendo quelle certezze immutabili che sono a fondamento dell’attualmente pericolante identità europea.

Ma è vero che tutti i sostenitori del ‘relativismo’ hanno le caratteristiche che Benedetto XVI attribuisce loro? Io credo che con quel termine si possano designare almeno due posizioni, che non vanno affatto confuse. Accanto a quella descritta dal papa, che è effettivamente diffusa e che si caratterizza per l’indifferenza di fronte a qualsiasi morale, ce n’è un’altra, che non rinnega affatto i valori ma ha coscienza che non è per nulla facile individuarli e farli convivere armonicamente. È, questa, la posizione di chi è capace di non assolutizzare le proprie certezze, di chi è consapevole non solo dell’altrui ma anche della propria fallibilità, di chi considera legittima l’esistenza di punti di vista differenti ed è pronto a rivedere il proprio in presenza di valide ragioni. È, in una parola, la posizione di chi sa di vivere in una società pluralistica, una società in cui le soluzioni legislative non possono perciò che essere approvate a maggioranza, nel rispetto della libertà di coscienza delle minoranze.

La valorizzazione del pluralismo è quindi il presupposto della democrazia, quel regime che favorisce la libera espressione di tutte le posizioni politiche, morali e religiose senza privilegiarne nessuna, nella convinzione che dal libero confronto possa scaturire un arricchimento reciproco. Una società democratica, laica e pluralista, infatti, rifiuta sia l’assenza di principi morali che la loro imposizione: essa teme da una parte il disimpegno e l’insensibilità per i valori di chi non crede in nulla e dall’altra l’arroganza di chi pretende di avere il monopolio della verità.

Il quadro, allora, è abbastanza diverso da quello prospettato dal papa: la scelta possibile non è tra un relativismo che nega ogni valore e la difesa dei principi morali ma tra uno scetticismo privo di valori, un dogmatismo che assolutizza i propri e un pluralismo rispettoso delle differenti concezioni morali. La battaglia di Benedetto XVI contro il relativismo, basata sulla confusione tra scetticismo e pluralismo, appare dunque in quest’ottica non come difesa della morale in una società smarrita e disorientata ma come dogmatica riaffermazione di una morale, quella cattolica, a cui tutti dovrebbero adeguarsi perché universalmente valida e assolutamente immutabile. Bandire apertamente una crociata contro il pluralismo in nome della propria verità sarebbe stato oggi troppo impopolare: delegittimare le altre prospettive culturali presentandole come relativistica negazione di ogni valore permette, invece, di mascherare il proprio dogmatismo.

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Il rifiuto del pluralismo da parte delle gerarchie ecclesiastiche appare francamente incomprensibile per chi è convinto che la prospettiva pluralistica sia quella più coerente con la condizione di soggetti la cui ragione è uno strumento prezioso ma fallibile. Non è difficile riconoscere, infatti, che la conoscenza umana è sottoposta a mille condizionamenti – limiti individuali, influenze culturali, esperienze storiche – sicché è inevitabile che le diverse società siano sensibili più a uno che a un altro valore, che le idee si evolvano e che i giudizi morali possano variare anche radicalmente.

La cultura contemporanea ha acuito la coscienza di tali condizionamenti ma anche nei secoli passati i pensatori più avvertiti erano consapevoli dell’influenza che il contesto ambientale ha persino sulle scelte umane più decisive, come l’adesione a una determinata fede. Nel XII secolo, per esempio, Abelardo fa esprimere a un immaginario filosofo musulmano rilievi di grande buon senso: “L’affetto per la propria stirpe e per coloro con i quali si cresce è così insito in tutti gli uomini, che essi respingono con orrore tutto ciò che si dice contro la loro fede. L’abitudine diventa in loro natura e così da adulti conservano con ostinazione ciò che impararono da bambini e, prima ancora di essere in grado di capire ciò che viene insegnato loro, affermano di crederlo” (Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, Milano 2001, p 41).

Non c’è da stupirsi dunque che, specialmente in un ambiente culturalmente omogeneo, le idee correnti appaiano verità assolute: ma… se si fosse nati in un’altra epoca o in un’altra regione? Si può avere la certezza che persino l’attuale pontefice, se fosse nato non nella Baviera cattolica ma in Arabia Saudita, sarebbe stato un intransigente sostenitore delle radici cristiane dell’Europa e non un altrettanto intransigente difensore dell’islam?

Del resto, nell’ambito della stessa storia cristiana è innegabile che ci sia stata una progressiva maturazione della coscienza morale, che ha portato a modificare anche profondamente punti di vista consolidati. A metà del XIII secolo, per esempio, Innocenzo IV autorizzava l’uso della tortura nei tribunali dell’Inquisizione mentre è difficile credere che oggi il Vaticano ritenga lecita una simile pratica, anche se non si può certo dire che esso abbia levata alta la sua voce per condannare le torture praticate su presunti terroristi, con grave scandalo del mondo civile, dai militari statunitensi e recentemente avallate dalla legislazione antiterrorismo approvata dal Congresso americano.

A ben vedere quindi – e fatta salva l’ostinata rivendicazione, con qualche rarissima eccezione, della sua autorità, perché su questo punto l’insegnamento pontificio è di una costanza davvero ammirevole – anche la chiesa romana potrebbe essere accusata di relativismo etico per la sperimentata capacità di mutare i propri giudizi, adeguandosi allo spirito dei tempi, e di accogliere, magari con un certo ritardo, nuove prospettive.

Perciò, se oggi si può considerare universalmente acquisita, pure negli ambienti ecclesiastici, l’idea che la promozione dei diritti umani, il rifiuto della schiavitù e la pari dignità tra uomo e donna sono frutto non della decadenza dei costumi ma della maturazione della coscienza morale dell’umanità, come escludere che in futuro possa apparire ovvio anche il riconoscimento del diritto degli omosessuali a non subire discriminazioni o di quello dei malati terminali a porre fine a sofferenze indicibili?

Chi non condivide la morale cattolica, in realtà, non è necessariamente un uomo senza valori: non lo era, per esempio, Piergiorgio Welby quando si batteva perché gli fosse riconosciuto il diritto, che come scrive il cardinal Martini compete al malato, “di valutare se le cure che gli vengono proposte […] sono effettivamente proporzionate”(Il Sole 24 ore 21/1/07). Anzi spesso si tratta di uomini e donne sensibili a valori diversi da quelli maggioritari in un contesto tradizionale ma che in ogni caso meritano quel rispetto che non può non concretizzarsi in un confronto aperto alle ragioni dell’altro e animato dal desiderio di trovare soluzioni che tengano conto dei diversi punti di vista.

Del resto, i moralisti cattolici sanno bene che valori differenti possono essere in contrasto tra loro e che lo stesso atto può essere valutato diversamente a seconda dei fini che si perseguono e delle circostanze in cui si opera. Persino un atto di evidente gravità come uccidere un uomo non costituisce sempre un omicidio moralmente condannabile: si pensi al caso della legittima difesa. E chi non considererebbe un atto di pietà quello del soldato che desse il colpo di grazia al commilitone moribondo? Ancora, per chi ritiene lecita la pena di morte l’esecuzione del condannato è un atto di giustizia. Chi sostiene la teoria della guerra giusta, poi, legittima uccisioni senza numero.

Difficile, quindi, capire perché solo nel caso dei malati terminali il carattere sacro della vita debba essere affermato senza riserve e debba essere imposta per legge l’accettazione della sofferenza sino alla fine naturale, ammesso che si possa chiamare ‘naturale’ il prolungamento delle funzioni vitali reso possibile da strumenti artificiali sofisticatissimi. Una simile posizione non può certo rifarsi a un’etica matura, che valuta un’azione tenendo conto del contesto in cui viene compiuta, ma sembra piuttosto regredire all’etica del tabù, per cui un’azione è malvagia di per sé, a prescindere dall’intenzione di chi agisce e dai fini che si propone.

L’insistenza, poi, sul carattere non negoziabile del rispetto della vita solo a proposito dell’aborto o dell’eutanasia, e non in riferimento alla guerra - nell’era atomica considerata da Giovanni XXIII pura follia (“alienum a ratione” si legge nella Pacem in terris n 67) - o alla pena di morte, può ingenerare il sospetto che si tratti di una scelta dettata da motivazioni più politiche che dottrinali: così facendo, il Vaticano per esempio non entra in rotta di collisione con l’amministrazione Bush, impegnata in una guerra di cui non si prevede la fine e favorevole alla pena di morte, e si rende gradito, in Italia, ai partiti che sostengono quei principi e che ricambiano concedendo scandalosi privilegi come l’esenzione dell’ICI.

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Un pontificato connotato dalla polemica contro il pluralismo sembra riesumare quello stile arcigno e severo nei confronti della modernità che pareva superato nel periodo conciliare. Non si riscontra facilmente, infatti, nelle parole di Benedetto XVI quell’atteggiamento di cordiale apertura al mondo contemporaneo che si respirava per esempio in documenti come la Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”(n 1).

Né paiono al centro delle preoccupazioni del papa le crescenti disparità economiche, per cui “mentre folle immense mancano dello stretto necessario, alcuni […] vivono nell’opulenza o dissipano i beni” (Gaudium et spes n 63), constatazione che spingeva Paolo VI a lanciare un grido d’allarme: “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza”(Populorum progressio n 3), e a mettere in discussione i principi del liberismo: “i prezzi che si formano «liberamente» sul mercato possono, allora, condurre a risultati iniqui. Giova riconoscerlo: è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa”(ivi n 58).

Accantonati il sereno confronto con la modernità e l’opzione preferenziale per i poveri, Benedetto XVI intende in effetti proseguire l’opera iniziata come collaboratore di Giovanni Paolo II, riaffermando il ruolo della chiesa romana quale unica custode della verità in tutta la sua pienezza. Da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, infatti, nel 2000 egli aveva firmato, e il papa ratificato, la Dichiarazione Dominus Jesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, le cui posizioni verranno ribadite in un documento della stessa Congregazione del giugno 2007.

Se il dialogo presuppone che gli interlocutori si riconoscano su un piano di parità, la Dominus Jesus esclude in radice ogni possibilità di dialogo, dato che pone non solo il pensiero laico, inficiato dal suo relativismo, ma anche le altre religioni e persino le altre confessioni cristiane in condizione di assoluta inferiorità. Essa, infatti, afferma esplicitamente che la parità vale per le persone ma non per le convinzioni, che non stanno affatto sullo stesso piano: “La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali”(n 22).

Ciò posto, si può ribadire senza esitazione che “Deve essere, fermamente ritenuta la distinzione tra la fede teologale e la credenza nelle altre religioni. Se la fede è l’accoglienza nella grazia della verità rivelata, […] la credenza nelle altre religioni è quell’insieme di esperienza e di pensiero, che costituiscono i tesori umani di saggezza e di religiosità, che l’uomo nella sua ricerca della verità ha ideato e messo in atto nel suo riferimento al Divino e all’Assoluto”(n 7), sicché i seguaci di quelle religioni “oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici.”(n 22).

Declassate le altre religioni a semplici credenze che posseggono ‘tesori umani di saggezza’ ma non verità rivelate, si dà un’interpretazione restrittiva del testo - ambiguo perché, come tanti altri passi conciliari, frutto di compromessi tra l’ala conservatrice e quella progressista - della Lumen Gentium, affermando come verità indiscutibile che “Esiste un’unica Chiesa di Cristo, che sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui”(n 17). Le altre confessioni cristiane si possono dire quindi ‘chiese particolari’ solo nella misura in cui restano unite a quella cattolica, ma in esse non sussiste l’unica chiesa di Cristo. Difficile, con questi presupposti, che il processo di riconciliazione con i cristiani che non riconoscono il ministero petrino possa fare molti passi avanti.

Ma se c’è una sola rivelazione sovrannaturale e questa è custodita nella sua interezza solo dalla chiesa romana, è logico che il magistero debba denunciare le possibili interpretazioni erronee del messaggio proposte dagli stessi teologi cattolici. E infatti l’ultimo quarto di secolo è stato caratterizzato da una costante repressione nei confronti di centinaia e centinaia di teologi – censurati, privati della cattedra, ridotti al silenzio – al punto che la libera ricerca teologica nel mondo cattolico è ormai quasi inesistente e gli studiosi appaiono spesso semplici ripetitori del verbo vaticano.

E tutto questo è avvenuto proprio ad opera dell’ex Sant’Uffizio guidato dall’attuale pontefice e nel silenzio dei media affascinati dal carisma di Giovanni Paolo II, presentato all’opinione pubblica come un grande innovatore mentre in realtà stava solo ripetendo l’operazione compiuta quasi un secolo prima da Pio X. Proprio nel 1907 veniva infatti pubblicata la Pascendi dominici gregis con cui si dava vita a una vera e propria caccia alle streghe nei confronti dei teologi che avevano proposto un rinnovamento della teologia tradizionale e che venivano bollati come ‘modernisti’: in tale enciclica, riferendosi ai maestri dei Seminari e delle Università cattoliche, il papa ordinava che “Chiunque in alcun modo sia infetto di modernismo, senza riguardi di sorta si tenga lontano dall’ufficio così di reggere e così d’insegnare: se già si trovi con tale incarico, ne sia rimosso. Parimente si faccia con chiunque o in segreto o apertamente favorisce il modernismo, sia lodando modernisti, sia attenuando la loro colpa, sia criticando la Scolastica, i Padri, il Magistero ecclesiastico, sia ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica”.

Chi legge l’enciclica di Pio X resta stupito della sua attualità, perché le formule usate dagli ultimi due papi sono diverse da quelle della Pascendi solo per lo stile ma identiche quanto alla sostanza. Sarebbe imperdonabile ingenuità, infatti, vedere in Benedetto XVI un difensore della ragione: egli non ne rivendica certo l’autonomia quando sostiene che “Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza”(Lectio magistralis tenuta a Regensburg il 12 settembre 2006).

Con queste parole garbate, in realtà il papa sta riaffermando la necessità di subordinare la ragione alla fede, anche se non può permettersi, come ancora poteva fare Pio X accusando gli studiosi del primo Novecento di sottoporre la tradizione teologica alla critica razionale, di citare le espressioni poco diplomatiche di un pontefice medievale: ai modernisti “può applicarsi ciò che l’altro Nostro Predecessore Gregorio IX scriveva di taluni teologi del suo tempo: "Alcuni fra voi, gonfi come otri dello spirito di vanità, si sforzano con novità profana di valicare i termini segnati dai Padri; piegando alla dottrina filosofica dei razionali l’intelligenza delle pagine Celesti, non per profitto degli uditori ma per far pompa di scienza... Questi sedotti da dottrine diverse e peregrine, tramutano in coda il capo e costringono la regina a servire all’ancella"(Lettera ai maestri di Teologia di Parigi, 7 luglio 1223)”(Pascendi).

E la Dominus Jesus usa un tono pacato per ribadire la convinzione che la chiesa cattolica custodisce e ha “il compito di proclamare il Vangelo, come pienezza della verità”(n 5), certezza espressa con più evidente arroganza da Pio X: “il Nostro Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. "Singulari Nos", 25 giugno 1834): <È grandemente da piangere nel vedere fin dove si profondino i deliramenti dell’umana ragione, quando taluno corra dietro alle novità, e, contro l’avviso dell’Apostolo, si adoperi di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso, pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui, senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova>”(Pascendi).

Benedetto XVI, poi, chiede che i laici siano totalmente sottomessi alle direttive pontificie, privandoli di quell’autonomia che il Concilio aveva riconosciuto loro per quanto riguarda l’applicazione dei principi morali al campo delle concrete scelte politiche. Nella Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici del 1988, anche Giovanni Paolo II aveva ribadito che “E’ diritto e dovere dei pastori proporre i principi morali anche sull’ordine sociale”(n 60), che “nessun carisma dispensa dal riferimento e dalla sottomissione ai Pastori della Chiesa.”(n 24) e che “Educatrice è, anzi tutto, la Chiesa universale, nella quale il Papa svolge il ruolo di primo formatore dei fedeli laici. A lui, come successore di Pietro, spetta il ministero di «confermare nella fede i fratelli», insegnando a tutti i credenti i contenuti essenziali della vocazione e missione cristiana ed ecclesiale. Non solo la sua parola diretta, ma anche la sua parola veicolata dai documenti dei vari Dicasteri della Santa Sede chiede l’ascolto docile e amoroso dei fedeli laici”(n 61).

Anche in questo caso solo lo stile differisce da quello di Pio X, che negava nel modo più risoluto la pretesa di autonomia del laicato, condannando l’opinione secondo la quale “il cattolico, perché insieme cittadino, ha diritto e dovere, non curandosi dell’autorità della Chiesa, dei suoi desiderî, consigli e comandi, sprezzate altres^ le sue riprensioni, di far quello che giudicherà espediente al bene della patria. Voler imporre al cittadino una linea di condotta sotto qualsiasi pretesto [sarebbe perciò] un vero abuso di potere ecclesiastico da respingersi con ogni sforzo”(Pascendi).

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Chiusa la parentesi conciliare, la chiesa del 2007 sembra dunque attestata sulle posizioni di quella del 1907, con grave sconcerto degli specialisti di esegesi biblica, di storia dei dogmi, di storia della chiesa… che vedono ancora ignorate dal magistero tesi ormai da tempo acquisite a livello scientifico. La lotta contro il relativismo, in effetti, non è che la vecchia battaglia contro la modernità, il pluralismo e la laicità dello stato. Nel breve periodo, almeno in Italia, la strategia vaticana sembra coronata dal successo: la chiesa romana ha una grande influenza sulla società italiana, non perché sia in atto una rinascita dello spirito religioso ma perché i partiti conservatori, come già in passato, anche oggi ricercano il suo appoggio, presentandosi come difensori della tradizione, mentre le forze progressiste esitano a respingere con fermezza le ingerenze vaticane nella speranza di raccattare qualche voto.

E la gerarchia si vanta del prestigio di cui gode come se ciò risultasse vantaggioso per la causa del vangelo, respingendo come già Pio X le critiche di coloro che “vogliono ammonita la Chiesa che, poiché il fine della potestà ecclesiastica è tutto spirituale, disdice ogni esterno apparato di magnificenza con che essa si circonda agli occhi delle moltitudini. Nel che non riflettono che se la religione è essenzialmente spirituale non è tuttavia ristretta al solo spirito; e che l’onore tributato all’autorità ridonda su Gesù Cristo che ne fu istitutore”(Pascendi).

Per la verità, Gesù non ha ottenuto un grande consenso nel corso della sua vita, specialmente da parte delle classi dirigenti, sicché gli onori tributati alla chiesa dovrebbero piuttosto insospettire, come ricordava il cardinale Newman: “quando in un dato Paese e in un dato momento della storia gli applausi piovono, la religione è onorata da tutti e Dio come la Chiesa hanno un grande successo, ogni spirito prudente e veramente ispirato dalla fede sarà non già tranquillo ma inquieto, temendo che sia qualche specie di idolo che si adora al posto del vero Dio e che sia qualche deformazione della religione ad avere un tale successo”(John Henry Newman, Pensées sur l’Église, Editions du cerf, Paris 1956, p 26).

Forse sarebbe bene chiedersi se queste parole, dopo circa un secolo e mezzo, non siano ancora attuali e se la chiesa romana, pur così visibile sulla scena pubblica grazie all’abilità con cui si inserisce nel gioco politico, non stia compromettendo la trasparenza e l’efficacia della propria testimonianza evangelica.

www.italialaica.it
(20-9-2007)



Sabato, 22 settembre 2007