La "nuova preghiera" per gli ebrei
Il pensiero di Piero Stefani

Oremus et pro Iudaeis


di Piero Stefani

Si impone un’altra volta di cercare di chiarire qualche dato e di delucidare qualche passaggio. È l’ennesima rincorsa a fenomeni che dilagano in virtù della loro recezione imprecisa. Fatto noto a priori che non scusa chi non mette in preventivo l’eco mass-mediatica delle proprie parole e delle proprie scelte; anzi, con ciò, egli riconferma la sua estraneità alla comprensione del mondo attuale.
Ricapitoliamo i fatti. Con il motu proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007) Benedetto XVI ripristina la piena legittimità liturgica del messale romano approvato da Giovanni XXIII nel 1962 Il messale contiene, nella liturgia del Venerdì Santo, la tradizionale preghiera per gli ebrei, sia pur privata dall’espressione «perfidi giudei», soppressa da un decreto della congregazione per i Riti nel 1959. Inoltre la preghiera, precedentemente intitolata, «Pro conversione Iudaeorum» è chiamata «Oremus et pro Iudaeis». Il testo è il seguente:
«Oremus et pro Iudaeis: ut Deus et Dominus noster auferet velamen de cordibus eorum. Ut ipsi agnoscant Iesum Christum, Dominum nostrum»
«Oremus. Flectamus genua. Levate»
«Omnipotens sempiterne Deus, qui etiam iudaicam perfidiam a tua misericordia non repellis, exaudi preces nostras, quas tibi pro illius populi obcaecatione deferimus ut, cognita veritatis tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur»
Il sottotesto biblico di questa antica preghiera (risalente almeno alla prima metà dell’ VIII sec.) è chiaramente individuabile in alcuni passi della Seconda lettera ai Corinzi (cfr. 2Cor 3,14-16). In essa si chiede che cada un velo dal cuore degli ebrei affinché essi stessi riconoscano Gesù Cristo, qualificato come «Signore nostro» (vale a dire dei cristiani). Aggettivo possessivo a cui ne corrisponde, per contrasto, un altro volto a qualificare le tenebre nelle quali si trovano gli ebrei. Anche dopo la caduta del titolo, lo scopo di questa preghiera rimane la conversione degli ebrei.
Di fronte alle proteste sollevate dal ripristino di questa formula, nel luglio 2007 il Segretario di Stato card. Bertone dichiarò: «è vero che c’è questa preghiera per la conversione, e si potrebbe studiare il problema e disporre che tutti dicano la formula di Paolo VI»; in questo modo «si risolverebbero tutti i problemi». Bertone poi aggiunse che «per quanto riguarda in particolare il Triduo pasquale, il motu proprio emanato dal Papa fa esplicito riferimento al messale di Paolo VI». Dunque sarebbe stato sufficiente attenersi alla lettera del documento (cfr. Avvenire 6 febbraio 2008).
La nota, emessa dalla Segreteria di Stato in data 4 febbraio 2008, propone un’altra formulazione per l’«Oremus et pro Iudaeis». Essa perciò si presenta come smentita delle precedenti dichiarazioni del Segretario di Stato. Vale a dire Benedetto XVI ha confutato l’ipotesi avanzata dal card. Bertone: anche per il Triduo pasquale il messale di Paolo VI è normativo solo per il rito postconciliare. Perciò, a partire dal 2008, nei giorni più solenni dell’intero anno liturgico, la Chiesa cattolica prega contemporaneamente non solo con formule diverse, ma anche con contenuti divergenti. Il sedicente ripristino della tradizione ha perciò avuto come conseguenza di introdurre un pluralismo relativistico all’interno della liturgia del Venerdì santo. Il severo giudizio trova un inoppugnabile riscontro documentario. Inoltre, sia pure in un solo punto, Benedetto XVI ha dimostrato la necessità di dover accogliere in modo critico e selettivo la tradizione. Fatto che getta qualche ombra sull’idea di continuità da lui tenacemente propugnata.
Il messale di Paolo VI - universalmente in uso, tranne che nella sparuta minoranza di coloro che sfrutteranno la possibilità di celebrare nella liturgia latina preconciliare - per la preghiera «per gli Ebrei» prevede, nella versione italiana, la seguente formula:
«Preghiamo per gli Ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza»
«Dio onnipotente ed eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione. Per Cristo nostro Signore».
I punti salienti della preghiera sono tre: il riconoscimento della primogenitura del popolo ebraico, la fedeltà all’alleanza (il che afferma che essa non è stata revocata, vale a dire che la primogenitura non è stata perduta), la prospettiva di una redenzione futura della quale non si specificano le modalità di attuazione. In ogni caso, si tace completamente su ogni riconoscimento di Gesù Cristo da parte ebraica.
Ora per il rito latino preconciliare Benedetto XVI ha proposto questa formula:
«Oremus et pro Iudaeis
«Ut Deus et Dominus noster illuminet corda eourm, ut agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum»
«Oremus. Flectamus genua. Levate»
«Omnipiotens sempiterne Des, qui vis ut omnes homines salvi fiant et ad agnitionem veritatis veniant, concede propitius, ut plenitudine gentium in Ecclesiam Tuam intrante, omnis Israel salvus fiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen».
Da un’analisi del testo si possono trarre alcune conclusioni
Essa non è intitolata: «Per la conversione degli Ebrei».
Anche il contenuto della preghiera non va direttamente in questa direzione, se per «conversione» si intende l’esplicito ingresso, nel corso della storia, degli ebrei nella Chiesa cattolica.
La formula precedente chiedeva che gli ebrei «riconoscessero «Gesù Cristo Signore nostro». Ora invece si dice che «Dio e Signore nostro [riferito al Padre]» illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini. In altri termini, si prega perché gli ebrei riconoscano la verità posta al centro della fede cristiana: l’universale azione di salvezza di Gesù Cristo. Di per sé non è una pretesa molto diversa da una preghiera ebraica che chiedesse al Signore che i popoli (gojim) riconoscano l’esistenza dell’unico e vero Dio di Israele. Ogni fede dotata di pretese universali ha in sé questa esigenza di essere riconosciuta come tale.
In ogni cena pasquale ebraica, secondo il rito ortodosso tuttora in uso, prima di intonare i salmi dell’Hallel si apre la porta e si dice «Riversa la tua ira sui popoli (gojim) che non ti conoscono e sui regni che non proclamano il tuo nome» (Sal 79, 6; Ger 10,25). Non è invocazione dialogica, ma essa è transitata immutata di generazione in generazione e ciò rende possibile cercare di esorcizzarla in vari modi. Il ripristino di quanto era stato abolito e il successivo ulteriore ritocco rendono invece impossibili operazioni similari per la formulazione voluta da Benedetto XVI.
La preghiera lascia completamente cadere i riferimenti a 2 Corinzi. Nella sua seconda parte, essa si richiama in modo del tutto riconoscibile ad altri due passi testamentari: 1Timoteo 2,4 in cui si afferma che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» e soprattutto Romani 11,.25-28 che costituisce il fondamento teologico della preghiera. «Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero…: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che non sarò entrata la pienezza (pl?roma) delle genti. Allora tutto Israele sarà salvato (donec plenitudo gentium intraret, et sic omnis Israel salvus fit)».
La citazione di 1 Timoteo si riferisce all’azione universale di salvezza compiuta da Gesù Cristo espressa nella prima parte della preghiera. Il punto decisivo sta nella lettura data al passo della lettera ai Romani. Innanzitutto si lascia qui cadere il riferimento al mistero; la scelta pare spiegabile per l’imbarazzo di riproporre l’accusa di indurimento (cecità) rivolta agli ebrei. Tuttavia, così facendo, si lascia cadere anche l’annotazione imprescindibile secondo cui l’indurimento è riferito solo a una parte di Israele. Paolo qui, come sempre, scrive partendo dalla sua condizione di ebreo credente in Gesù Cristo. Per lui è fondamentale tener conto che una parte di Israele ha accolto Gesù Cristo, mentre un’altra parte (dal punto di vista quantitativo di gran lunga maggioritaria) l’ha rifiutato. Nella riformulazione del testo presente nella preghiera del Venerdì santo questa impostazione non può essere riproposta e tutto il discorso viene trascritto in modo indebito.
L’indurimento è un mistero perché esso consente che il pl?roma delle genti entri. Paolo non specifica dove (nell’alleanza? Nella fede? Nella salvezza?), ma per lui questo ingresso non poteva certo essere riferito ad una allora anacronistica Chiesa universale visibilmente costituita. Né ci sono ragioni per ritenere che pl?roma debba qui intendersi in senso quantitativo, come se tutti i popoli dovessero effettivamente entrare in massa nella Chiesa. Il riferimento a «tutto» è solo a Israele, in quanto Paolo pensa alla riconciliazione escatologica delle due parti in cui ora esso è diviso a motivo della fede in Gesù Cristo.
L’operazione compiuta da Benedetto XVI si evidenzia nell’aver introdotto il termine «tua Chiesa» nella citazione paolina. Ciò induce a ritenere che l’espressione plenitudo gentium vada intesa in senso quantitativo come conversione dei popoli alla Chiesa. Osservata attentamente la preghiera chiede perciò assai più la conversione di massa delle genti che quella degli ebrei. Constatazione non meno inquietante, ma del tutto non colta nelle proteste sollevate da parte ebraica.
L’ «Oremus et pro Iudaeis» non chiede in modo aperto che gli ebrei si convertano alla Chiesa. Nella formulazione continua a risuonare l’eco escatologico della sua matrice paolina. Si domanda che le genti entrino nella Chiesa, questo evento costituisce il prodromo della salvezza di tutto Israele, qui inteso come l’insieme di tutti gli ebrei che, proprio perché tali, sono giudicati come coloro che non riconoscono in blocco Gesù Cristo. Alla luce del Nuovo Testamento, a essere inadeguata nella formulazione della preghiera è innanzitutto l’immagine che la Chiesa ha di se stessa.
Le ferme reazioni dell’Assemblea rabbinica italiana (cfr. comunicato a firma di Rav Laras, 6 febbraio 2008) che annunciano una pausa di riflessione nel dialogo ebraico-cattolico, colgono ben poco degli snodi qui esposti; esse, in definitiva, appaiono più un sintomo di un reale e giustificato disagio che un effettivo aiuto al discernimento.


Piero Stefani

Articolo tratto da:

FORUM (85) Koinonia

http://www.koinonia-online.it



Domenica, 10 febbraio 2008