E solo un rilievo di fatto: se si scorrono le note della Enciclica “Spe salvi”, che sono 40, ben 7 sono del Catechismo della Chiesa cattolica, mentre non figura nessun riferimento, non dico allevento di speranza che è stato il Vaticano II per la storia intera, ma almeno ai suoi documenti. Se questo è un semplice indizio, non mancano motivi per pensare che il Concilio è chiamato in causa - anzi non è affatto chiamato in causa - proprio quando sarebbe stato necessario e inevitabile: proprio quando lenciclica mette di nuovo in discussione - e non solo in discussione - il rapporto della Chiesa con la “modernità” o col “mondo moderno”, fino a mettere in mora un cosiddetto “cristianesimo moderno”. La domanda che nasce è questa: il Concilio era “chiesa” e può essere ancora considerato espressione e insegnamento della chiesa, dal momento che viene così tranquillamente by-passato dal Magistero solenne? E una domanda tendenziosa, o cè motivo di farla? Il rilievo e linterrogativo sono plausibili, se si passa alla lettura del testo, sia pure attraverso alcune citazioni e non ancora nel suo impianto generale. Al n.4 si legge: “Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggiù non hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20), ciò è tuttaltro che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene riconosciuta dai cristiani come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata”. Quindi presenza sì nella storia, ma in quanto questa è depotenziata e svuotata, per fare posto ad una “società nuova” che forse potrebbe essere la Chiesa. Una conferma labbiamo al n.7: “La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una «prova» delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che questultimo non è più il puro «non-ancora». Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future”. Ne nasce un confronto tra “vita” ed “eternità”, e al n.11 ci si chiede: “Che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo allimprovviso: sì, sarebbe propriamente questo - la «vita» vera - così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è”. Parlando di speranza senza un soggetto portante (speranza di Israele, popolo messianico…) diventa necessario precisare “il carattere comunitario della speranza” (n.14), per poi dire al n.15: “Questa visione della «vita beata» orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo - in forme molto diverse, secondo il contesto storico e le possibilità da esso offerte o escluse”. Dove la storia umana appare come un guscio provvisorio e senza significato per la storia della salvezza. Una domanda veramente cruciale e rivelativa è questa la n.16: “Come ha potuto svilupparsi lidea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo? Come si è arrivati a interpretare la «salvezza dellanima» come fuga davanti alla responsabilità per linsieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri?”. A parte il fatto che il carattere individualistico del messaggio di Gesù non è da imputare solo a fattori culturali “ad extra”, ma chiama in causa tanta spiritualità, tanta teologia e tanta ecclesiologia, come si fa a dimenticare che proprio il Concilio Vaticano II ha voluto essere nella chiesa e per la chiesa la svolta verso la collegialità, la comunione, la sinodalità, la coscienza di Popolo di Dio, in una parola la koinonia costitutiva? Si ammette e si auspica unautocritica anche da parte della chiesa, ma questa dovrebbe interessare e coinvolgere solo il “cristianesimo moderno” in parallelo all”autocritica delletà moderna”, come si dice al n.22: “Così ci troviamo nuovamente davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria unautocritica delletà moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nellautocritica delletà moderna confluisca anche unautocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici”. Viene ancora da chiedersi se la Chiesa intera non abbia inteso, col Concilio, ripartire dalle proprie radici, per recuperare la sua intrinseca capacità di farsi “giudea con i giudei e greca con i greci”. In questo senso, una lettura più meditata la meriterebbe tutto il numero 24, dove si dice che “un progresso è possibile solo in campo materiale”, mentre nellambito delle “decisioni etiche” non è possibile uno sviluppo collettivo, ma tutto è sempre da ricominciare daccapo, fino a dire quanto segue: “Il retto stato delle cose umane, il benessere morale del mondo non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la libertà delluomo. Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione allordinamento comunitario. La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente”. Si può essere daccordo, ma si potrebbe auspicare che qualcosa del genere valesse anche per la “struttura chiesa” e nelle relazioni intra-ecclesiali: o anche qui siamo in mondi del tutto diversi e separati? Nel caso ad esempio, che una Teologia della liberazione, per non dire ancora dellintero Concilio, rientri nel cosiddetto “cristianesimo moderno”, non si capisce come si possa fare questa affermazione al n. 25: “Daltra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sullindividuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto lorizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito - anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione delluomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti”.
Si può dunque dire che il Concilio viene ignorato nella lettera e nello spirito. Ma si può dire anche di più: il fatto che non venga neanche messo in discussione (come fanno ad esempio i lefebvriani) può far pensare ad una cancellazione tacita, per ridurre tutta la realtà della Chiesa al Papa di turno. E la Chiesa che vive altrove e di altro può e deve solo tacere?
Alberto Bruno Simoni op
Dallarticolo di Eugenio Scalfari
“Il Papa che rifiuta il mondo moderno” (La Repubblica 2 dicembre 2007)
- Nei mesi più recenti era emersa una tonalità critica nei confronti della grande revisione conciliare e in un certo senso modernista del Vaticano II, dove dottori e pastori della Chiesa in vesti episcopali avevano aperto alla modernità, allecumenismo e perfino ai laici non credenti mettendosi in ascolto per trasmettere il messaggio evangelico e per conciliarlo con le risposte del pensiero laico, della morale laica e della razionalità.
- Il Papa sembrava revocare in dubbio il messaggio conciliare e scavalcare a ritroso almeno due dei pontificati precedenti, quello di papa Roncalli e quello di papa Montini, tornando piuttosto alla Chiesa pacelliana e anche più indietro.
- Perciò attendevo con interesse la seconda enciclica sperando che da essa si potessero trarre maggiori lumi sul pensiero di papa Ratzinger. Così infatti è stato. Anticipo qui il mio giudizio sul documento papale: Benedetto XVI ha voltato le spalle al Concilio Vaticano
- Prima osservazione. Lenciclica porta un sottotitolo che indica i destinatari del documento: "Ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana".
- E strano che unenciclica elenchi fin dal titolo i suoi destinatari. Tra di essi non sono indicati i seguaci delle altre confessioni cristiane, per non parlare dei fedeli di altre religioni. Solo vescovi, sacerdoti, fedeli cattolici.
- Eppure si parla della speranza. Quella parola dovrebbe comunicare la massima apertura verso tutti i punti cardinali dellorizzonte spirituale. Il vertice della cattolicità si chiude invece in difesa? Parla soltanto a chi è già arruolato e a chi è già convinto? Dovè lo spirito missionario? Seconda osservazione. Le argomentazioni del documento pontificio sono certamente interessanti e comprensibili dalla cultura europea, ma abbastanza estranee ai cattolici di continenti e culture più lontane, allAfrica, allAsia, allAmerica Latina. Che Ratzinger fosse un Papa europeo lo si era capito subito. La "Spe Salvi" ce ne dà conferma.
- Ecco unaltra prova del suo voltar le spalle al messaggio ecumenico del Vaticano II.
Articolo tratto da:
FORUM (75) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
Lunedì, 03 dicembre 2007
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