Dal The Tablet
Oltre il linguaggio

di Mark Francis

La decisione di Papa Benedetto di estendere l’uso della Messa Tridentina è un cambiamento senza precedenti nella vita liturgica della Chiesa. Ma, come evidenzia questo professore di liturgia, essa ha conseguenze problematiche in termini teologici e pastorali


14 luglio 2007

Il tanto atteso motu proprio di Papa Benedetto XVI, che consente un più vasto uso del Messale di Pio V del 1962 – la cosiddetta Messa Tridentina – è stato finalmente pubblicato; contiene elementi che, siamo certi, dispiacciono sia ai tradizionalisti che ai progressisti.

Comprensibilmente, la maggioranza dei cattolici medi si domanderanno il perché di tanto trambusto visto che solo una minoranza ha manifestato l’ardente desiderio di ritornare al vecchio rito.  E’ poco credibile che grandi orde di cattolici andranno in massa nelle loro parrocchie per chiedere che gli altari tornino ad essere rivolti al muro o che le loro raccolte delle offerte vengano destinate alla fattura di casule barocche con stole in pendant, o re-installazione di guide per una perfetta fila per la comunione.

Tuttavia, la pubblicazione "Summorum Pontificum" rimane problematica. Data la reazione negativa di molti vescovi, che la sola possibilità che questo motu proprio venisse promulgato – specialmente in Francia – e nonostante Benedetto XVI abbia confermato le sue dichiarazioni a supporto della collegialità, è sconvolgete come sembri aver dato più peso ad uno sparuto gruppo di seguaci (e forse a propria personale discrezione) che ai vescovi che sono maggiormente in contatto con la vita pastorale della chiesa.  

Fino ad ora, il papa, che non è un dotto liturgista, ha mostrato interesse e sensibilità in materia liturgica. Il motu proprio, quindi, sembra tradire un reale fraintendimento del ruolo della liturgia nella vita della chiesa. E’ ironico che, vista l’antipatia del papa, spesso ribadita, verso il relativismo sia come rovina dell’epoca moderna che come pericolo per l’integrità della fede, egli stesso sembri essere caduto nel relativismo stesso che spesso denuncia. E’ legittimo chiedersi, vista la storia della liturgia, della teologia, del diritto canonico e delle pratiche pastorali, se  la liturgia sia presa sul serio in questo motu proprio o venga ridotta a un’altra scelta disponibile nella “caffetteria cattolica”.

La base logica su cui fondare ogni discussione è la definizione, nella lettera apostolica, del Rito Tridentino come “straordinario esempio di Rito romano”. Una tale definizione non ha precedenti nella storia della liturgia nella Chiesa ed è basata sulla discutibile assunzione di fatto che l’uso del Rito Tridentino non fosse mai stato abrogato da una pubblicazione ufficiale dei messali liturgici prevista dal Vaticano II.

Dal 1970, quando il Messale di Paolo VI fu promulgato, al 1984 quando la Congregazione per il Culto Divino promulgò un indulto che autorizzava i vescovi a permettere le celebrazioni col vecchio rito, l’abrogazione della Messale Tridentino era data per certa. Nel 1988, nella lettera apostolica Ecclesia Dei adflicta, Papa Giovanni Paolo II richiamò ad una “generosa applicazione delle direttive” stipulate nell’indulto del 1984. Ribadiva di nuovo che l’autorizzazione ad utilizzare il vecchio rito fosse solo una autorizzazione pastorale a coloro che non fossero in grado di adattarsi al nuovo rito, e non implicava il rigetto del Vaticano II o della validità della riforma liturgica. L’utilizzo del vecchio rito non fu presentato in nessun documento come “normativo”.

Nel contesto di questa situazione disciplinare ambigua, è utile riflettere sulla natura di “rito” secondo la Chiesa. Il Rito Romano è uno dei 23 “riti” riconosciuti dalla chiesa cattolica. Il termine “rito” non comprende soltanto l’ordine della Messa e – almeno tradizionalmente parlando – non è un modo di descrivere il modo in cui un dato gruppo di cristiani esprime la propria fede nella vita e nel culto. Va molto oltre la tematica del linguaggio, delle direttive cerimoniali della Messa nel designare il tempo liturgico, l’assegnazione della liturgia del Santo del giorno, lo stile particolare impiegato in tutti i riti sacramentali, insieme ai gesti distintivi e movimenti utilizzati nella celebrazione liturgica.

L’adozione di un nuovo calendario che ha cambiato l’anno liturgico e modificato la relativa importanza di certe feste e memoriali, la rimozione di Santi dal ciclo perché ritenuti anti-storici, la revisione della celebrazione dei funerali, la re-introduzione del catecumenato degli adulti, tutti cambiamenti che hanno modificato la liturgia in modo significativo, a prescindere da quanto il papa possa battersi per la continuità tra il vecchio rito e quello romano.

I precedenti storici hanno anche dimostrato che il Rito Tridentino doveva essere abrogato nel 1970. Non si può dimostrare invece che dopo il XVI sec. ci fossero due modalità ufficialmente riconosciute di celebrare il Rito Romano. Stabilendo di utilizzare alcuni usi del nuovo e del vecchio rito, all’interno dello stesso rito, è una prova di destrezza canonica e non risolve il problema. Mentre è vero che il Messale di Pio V fu promulgato, esistevano usanze locali medievali in Francia, come il rito della Città di Lione, che erano autorizzate per concessione come abitudine secolare locale. E neanche si può affermare ragionevolmente che il Rito Tridentino dovesse essere insignito dello stesso status di un rito orientale, dato che gli antichi riti della chiesa orientale sono una espressione di cristianità sopravvissuta nei secoli in un determinato paese o gruppo etnico in un territorio geografico delimitato.

Sembra inoltre chiaro che Papa Paolo VI volesse sostituire il precedente Messale e volesse restaurare la liturgia tornando “alle norme originarie dei Padri della Chiesa” (introduzione generale del Messale Romano del 1970). Gli ideatori del Messale di Pio V nel XVI sec. non furono capaci di tale prodezza dato che non possedevano adeguate risorse storiche, non era loro possibile fare riferimento ai manoscritti antecedenti al pontificato di Innocenzo III, intorno al 1216. Ne deriva che molta parte del Rito Tridentino sia un ibrido di elementi medievali franco-germanici fusi insieme ad una base romana degli ultimi sei secoli.

Ecco perché il novus ordo di Paolo VI è più vicino alle “norme originali dei Santi Padri” rispetto al Rito Tridentino. L’art. 6 del Preambolo alle Istruzioni Generali del Messale di Paolo VI suggerisce e determina che c’era qualcosa di incompleto nel vecchio messale affermando che “il vecchio Messale Romano (quello di Pio V) è portato a compimento nel nuovo” (quello di Paolo VI).

Come prodotto del XVI sec., redatto durante la riforma, il Messale di Pio V riflette la relazione conflittuale della chiesa col vasto mondo che si riteneva in opposizione alla sua autorità e alle sue tradizioni. Questo può essere facilmente riscontrato in alcune formule della Messa Ad Diversa che mantengono testi medievali – ad esempio la Messa “Contro i Pagani”.

Forse l’aspetto più problematico del Rito Tridentino è la sua posizione verso il giudaismo. Mentre l’aggettivo “perfido” rivolto agli ebrei fu cancellato nell’edizione del 1962, ci sono ancora preghiere che invocano la loro conversione in diretta contraddizione con la dichiarazione del Vaticano II “dichiarazione sul rapporto della chiesa verso le religioni non-cristiane”. Nello stesso modo, il Messale si riferisce ai cristiani di altre chiese definendoli eretici e scismatici – descrizione di seguaci cristiani che non sembrano voler promuovere un dialogo ecumenico. E mentre il lezionario allegato a questo Messale praticamente non incoraggia la lettura del Vecchio Testamento, esso presenta alcune lacune liturgiche nel presentare la Parola di Dio – un problema che i Padri Conciliari hanno tentato di risolvere (vedi Costituzione della Sacra Liturgia, 51).

L’ecclesiologia espressa dal vecchio rito riflette la scarsa attenzione alla liturgia che la Chiesa Riformatrice ha riservato ai fedeli battezzati. Era solo il ruolo del ”prete ordinato” che aveva preminenza, e la comunità assembleare non veniva nemmeno menzionata nel manuale introduttivo  del Messale di Pio V, riducendo quindi il suo ruolo a mera spettatrice.

Oltre ai problemi ecclesiologici, un altro limite del Rito Tridentino è la sua visione di limitatissimo respiro dello Spirito Santo. Mentre la fede della Chiesa esprime nella liturgia il Dio Trino – noi preghiamo il Padre, con il Figlio e con lo spirito Santo – provate per credere, è difficile discernere nell’epiclesi (invocazione allo Spirito Santo per i doni e per il popolo) nel canone romano; un elemento su cui tutti convergono sia in oriente che in occidente è l’importanza teologica di questo elemento nella Preghiera Eucaristica.

Tutte le nuove Preghiere Eucaristiche composte per il Messale di Paolo VI prevedono tale invocazione. Tornare indietro ad una formulazione impropria durante l’atto centrale del culto della Chiesa (il Canone Romano quale sola Preghiera Eucaristica nel Messale di Pio V) chiaramente impoverirà il culto di coloro che useranno esclusivamente questo Messale.

Mentre i problemi teologici del Rito Tridentino sono in contrasto con gli insegnamenti del Concilio, le difficoltà pastorali che accompagnano l’implementazione di questo motu proprio implicano un problema ancora maggiore, a cominciare dagli stessi preti. Di dove saranno i preti contenti di celebrare secondo il vecchio rito? Dobbiamo prevedere  corsi di latino e di liturgia nei seminari per insegnare ai nuovi preti anche come celebrare i sacramenti col rito medievale su richiesta, insieme alle modalità previste dal Vaticano II?

La proclamazione ufficiale che questo rito medievale è “straordinario”: compromette la coerenza con gli stessi intenti della chiesa e con il pericolo di ridurre la liturgia a qualcosa di semplice “gusto” individuale piuttosto che ciò che realmente rappresenta: una riflessione accurata su ciò che dovrebbe essere un cattolico cristiano del XXI secolo.  Sebbene citato molte volte in questo documento, l’assioma patristico lex orandi, lex credendi (come preghiamo, così crediamo) è stato seriamente ignorato in questo motu proprio.

In breve, "Summorum Pontificum" mina l’unità della Chiesa, venendo a mancare l’adesione ai fondamenti del Vaticano II.



Martedì, 17 luglio 2007