Un papa inconpatibile con la ‘Sapienza’

di Elio Rindone

L’università, se è luogo di libera ricerca e di confronto rispettoso non solo delle persone ma anche delle tesi sostenute dai vari interlocutori, è incompatibile con maestri che presumono di possedere essi soli la verità. E simili maestri, oltretutto, pare che non siano apprezzati neanche da Gesù di Nazaret che, stando a Matteo 23, 6-10, criticava gli scribi e i farisei che “amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbì’ dalla gente".


La lettera dei 67 professori della ‘Sapienza’, che esprimevano al Rettore dell’Università la propria indignazione per l’invito rivolto al papa a intervenire all’inaugurazione dell’anno accademico, e le proteste annunciate per l’occasione da qualche centinaio di studenti sono state sufficienti al Vaticano per declinare l’invito, presentandosi come vittima di un’inaccettabile censura. I toni ossequiosi usati abitualmente da quasi tutti i politici e i giornalisti nei confronti della gerarchia ecclesiastica hanno evidentemente indotto Benedetto XVI a considerare intollerabile persino la contestazione di una sparuta minoranza critica. Eppure i motivi per giudicare decisamente poco opportuna l’iniziativa del Rettore non mancavano affatto.

Quell’invito, infatti, non pare giustificato dal prestigio dello studioso Joseph Ratzinger, uno dei tanti professori di teologia, forse neanche tra i più brillanti: se non fosse diventato papa, pochi si sarebbero accorti di lui al di fuori degli ambienti ecclesiastici. È la carica che riveste, dunque, che conferisce un peso rilevante alle sue parole, che del resto riecheggiano quotidianamente su tutti o quasi i mezzi d’informazione.

L’evento aveva in effetti motivazioni squisitamente politiche: un successo d’immagine per l’università romana, da un lato, e un’ulteriore occasione per la gerarchia ecclesiastica per marcare il territorio, dall’altro. Pochi dubbi, infatti, che da parte del Vaticano sia in atto, e con successo, un’opera di riconquista dell’influenza da tempo perduta sulla società europea: buoni rapporti con la tedesca Merkel, conversione al cattolicesimo dell’inglese Blair, riscoperta delle radici cristiane del francese Sarkozy. Nulla di paragonabile, tuttavia, con i risultati già conseguiti o a portata di mano in Italia: dall’obbedienza dei politici ai privilegi economici, dalla sovraesposizione mediatica all’egemonia culturale.

E il discorso inviato, letto e calorosamente applaudito il 17/1/08 all’inaugurazione dell’anno accademico, riprendendo quanto Benedetto XVI aveva già affermato più volte in altre occasioni, mirava proprio, come era facilmente prevedibile, a ribadire la pretesa pontificia che il sapere umano non si separi dalla fede cristiana ma tragga da essa ispirazione. Ecco, in estrema sintesi, i nodi dell’argomentazione:

a) il papa anzitutto presenta la chiesa cattolica come amica della ricerca intellettuale: non solo la fondazione dell’università romana è stata voluta da Bonifacio VIII ma in genere “Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università”;

b) quindi sostiene che la ricerca della verità, che si svolge “nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa”, non deve “chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino”; infatti la ragione, quando “diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita”;

c) infine conclude che per evitare un simile smarrimento della ragione non c’è che una via: ascoltare il papa, che non è soltanto portatore di un messaggio di fede per i credenti ma anche “rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità”. Da questo punto di vista, quindi, l’insegnamento del papa vale per tutti, perchè egli si muove su un piano razionale, parlando “come rappresentante di una ragione etica”, ragione animata tuttavia dalla fede cristiana, che è “una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa”.



Vietata la libera ricerca

Anzitutto conviene ricordare, anche se il papa non lo fa, che le scuole di alta cultura non sono certo una creazione cristiana. Esse esistevano - limitando l’analisi alla civiltà occidentale - già nel mondo antico: basti pensare all’Accademia platonica o al Liceo aristotelico, alla eccezionale fioritura di studi scientifici nell’età ellenistica o alla vitalità culturale che porta alla costruzione della grandiosa biblioteca di Alessandria d’Egitto. Piuttosto, è quando il cristianesimo diventa religione di stato che la libera ricerca si fa sempre più difficile. Emblematico ma non isolato, nel 415, il caso di Ipazia, una donna pagana ammirata per la sua bellezza e famosa per la sua cultura filosofica e matematica. La folla cristiana, fanaticamente istigata dal vescovo di Alessandria, san Cirillo, la fa a pezzi: questi, trasportati per le vie della città, vengono infine bruciati assieme ai suoi scritti.

Un secolo dopo, Giustiniano, sul trono da appena due anni, riterrà ormai maturo il tempo per assestare un colpo definitivo alla residua cultura pagana, ordinando la chiusura delle scuole di filosofia di Atene. Così si esprime l’imperatore cristiano nell’editto del 529: “Noi proibiamo che venga insegnata ogni dottrina da parte di coloro che sono affetti dalla pazzia degli empi pagani. Perciò nessun pagano simuli di istruire coloro che sventuratamente li frequentano, mentre in realtà egli non fa altro che corrompere le anime dei discepoli. Inoltre, che egli non riceva sovvenzioni pubbliche [...]. Se [...] non si affretterà a ritornare in seno alla nostra santa Chiesa, insieme alla sua famiglia, ossia insieme alla moglie e ai figli, cadrà sotto le suddette sanzioni, le loro proprietà verranno confiscate ed essi stessi verranno mandati in esilio”(cfr. Reale-Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, I, Brescia 1983, p 268).

Della grande produzione culturale dell’antichità è andato, ovviamente, perduto per sempre tutto ciò che i secoli cristiani hanno considerato incompatibile con la propria visione del mondo. Ma non va dimenticato il fatto che anche gli autori cristiani hanno subito una severa censura, nel caso in cui le loro idee apparissero poco ortodosse. Ben poco ci è rimasto, per esempio, della sterminata produzione di uno dei più geniali pensatori dei primi secoli cristiani, Origene (185-255): migliaia di opere, infatti, sono andate smarrite dopo che nel 543 un sinodo locale, voluto da Giustiniano e approvato da papa Vigilio, ha giudicato eretiche alcune tesi origeniane.

Nel medioevo le scuole di alta cultura sono rinate con l’innegabile contributo del papato, ma altrettanto innegabilmente esse non godevano di piena libertà ma erano strettamente assoggettate al controllo pontificio. Di fronte al pericolo di possibili deviazioni in senso puramente scientifico e naturalistico, infatti, l’autorità ecclesiastica interviene con rapidità ed energia per “subordinare questi studi a dei fini religiosi e metterli al servizio di una vera teocrazia intellettuale”(E. Gilson, La filosofia nel medioevo, Firenze 1973, p 474).

Particolare vigilanza i papi esercitano sull’università di Parigi, destinata a diventare maestra di verità religiosa per tutta l’Europa cristiana: già nel 1215 Innocenzo III, protettore di quella nascente università, si affretta a vietare che i maestri parigini insegnino la fisica e la metafisica di Aristotele. Nel 1228 Gregorio IX rimprovera aspramente i maestri di teologia che “gonfiati come otri dallo spirito di vanità” osano forzare “nel senso della filosofia pagana il significato del testo sacro la cui interpretazione, però, è stata chiusa entro confini definiti dall’opera dei Padri; confini che non solo è temerario, ma empio, trasgredire”(cfr. Gilson, cit., p 477).

Ancor più violento il tono usato nel 1290 dal cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII fondatore della ‘Sapienza’, inviato come Legato pontificio a Parigi: “Tutti codesti maestri s’immaginano di godere presso di noi di un’immensa reputazione di sapienti; noi li giudichiamo, al contrario, come sciocchi, giacché hanno infettato col veleno della loro dottrina e le loro persone e il mondo intero”(cfr. J. Le Goff, Genio del Medioevo, Milano 1959, p 120).

In sostanza, che la chiesa medievale non garantisse la libertà di ricerca è più che certo. Nel 1141, per esempio, Abelardo viene condannato come eretico dal sinodo di Sens, nel 1277 Sigieri di Brabante, preside della facoltà delle Arti, viene privato della cattedra a Parigi, nel 1327 Marsilio da Padova, rettore dell’università, deve fuggire da Parigi e rifugiarsi presso l’imperatore Ludovico il Bavaro, che nel 1328 darà ospitalità anche a Guglielmo di Occam, costretto a sua volta a fuggire da Avignone per salvare la pelle. Nel 1329 Giovanni XXII farà gettare alle fiamme il De Monarchia di Dante, morto da otto anni.

E con la fine del Medioevo la situazione non è cambiata affatto. Tralasciando i processi più famosi, come quello di Bruno e di Galilei, può essere utile ricordare due casi meno noti. Alla fine del XV secolo Pico della Mirandola pubblica Novecento Tesi perché siano oggetto di libero dibattito tra studiosi di diverse discipline e diversi orientamenti culturali, riuniti a Roma per un grande convegno. Nel 1487 Innocenzo VIII dichiara eretiche sette di quelle tesi e infondate altre sei, ne vieta la lettura e la stampa e ordina l’arresto del giovane e brillante intellettuale.

Agli inizi del XX secolo Ernesto Bonaiuti, affermato studioso del cristianesimo primitivo, invita la chiesa romana a riformarsi, tornando al messaggio evangelico originario. Nel 1926 il Sant’Uffizio emana contro di lui la più solenne delle scomuniche: lo scomunicato vitando non poteva essere avvicinato dai cattolici, perché altrimenti venivano anch’essi scomunicati e, se entrava in una chiesa, doveva esserne subito espulso e il luogo riconsacrato. Privato della cattedra universitaria perché si era rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, Bonaiuti non sarà riammesso alla docenza dopo la caduta del regime proprio perchè scomunicato.

Se, alla luce di dati storici difficilmente contestabili, la chiesa romana appare tutt’altro che amica della libera ricerca intellettuale, risulta davvero incomprensibile l’invito rivolto al massimo rappresentante di un’istituzione che ancora oggi si mostra tanto ostile nei confronti del libero pensiero. Non è possibile dimenticare, infatti, che il card. Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, per oltre un ventennio ha esercitato un ferreo controllo sui teologi cattolici, ridotti a semplici ripetitori del verbo vaticano.

Da papa, poi, ha esteso il suo raggio d’azione tentando di esercitare, grazie a politici compiacenti, un potere censorio anche sui pensatori che non dipendono dall’autorità ecclesiastica. Il 21 settembre 2007, nel corso dell’udienza ai partecipanti all’incontro promosso dall’Internazionale Democratica di Centro e Democratico-Cristiana (IDC), presieduta dall’On. Pier Ferdinando Casini, Benedetto XVI ha chiesto infatti ai presenti di adoperarsi “a far sì che non si diffondano, né si rafforzino ideologie che possono oscurare o confondere le coscienze e veicolare una illusoria visione della verità e del bene”.



Una voce privilegiata

Se entriamo, poi, nel merito dell’argomentazione, ci imbattiamo in tre affermazioni che non sono affatto equivalenti: la ricerca della verità deve svolgersi ‘nel grande dialogo della sapienza storica’; non deve ‘chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto’; essa, quando ‘diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita’. Con passaggi che possono sfuggire a una prima lettura, il papa in realtà sta operando una reductio ad unum del tutto ingiustificata. La ragione, infatti, può trovare ispirazione in diverse tradizioni sapienziali, poetiche e religiose: la mitologia greca, l’induismo, il buddismo, l’islamismo... che per tanti aspetti non sono convergenti tra loro. La tradizione cristiana è solo una fra le tante.

Ma lo stesso cristianesimo conosce diverse confessioni: ortodossa, luterana, calvinista, battista, metodista... Anche in questo caso la tradizione cattolica è solo una fra le tante. Lo stesso cattolicesimo, poi, ha offerto nel corso dei secoli una straordinaria molteplicità non solo di interpretazioni del vangelo, di esperienze spirituali, di scuole teologiche che non è possibile ridurre ad unità, ma anche di definizioni dogmatiche tra loro incompatibili, come sa chi conosce la storia dei dogmi. Questa enorme varietà di esperienze e di idee pare venga ridotta da Benedetto XVI a un solo messaggio: la ‘fede cristiana’ come è proposta oggi dalla chiesa romana.

Anche chi ritiene che la ricerca razionale faccia bene a confrontarsi con la sapienza storica e a cercare spunti di riflessione nelle tradizioni religiose, non può tuttavia non chiedersi perché, per non inaridirsi, la ragione debba ascoltare ‘in particolare la fede cristiana’? Una simile condizione privilegiata rispetto alle altre religioni andrebbe giustificata con argomenti razionali, cosa che Benedetto XVI non fa. Non solo: presentandosi come custode del patrimonio sapienziale cristiano, il papa dà l’impressione che sui punti fondamentali i cristiani siano concordi, il che non è affatto vero. Cristiani, infatti, sono anche i luterani, che, per esempio, rifiutano l’idea di legge naturale così cara all’attuale pontefice. Il docile ascolto oggi richiesto da Benedetto XVI nei confronti delle religioni e in particolare di quella cristiana dovrà forse essere riservato, quando sarà possibile parlare senza ambiguità, solo alla fede cattolica e al magistero che ne custodisce il deposito?

Ma se questo insegnamento risulta sempre meno credibile a milioni di fedeli ed è contestato dagli stessi teologi cattolici - quando non sono messi a tacere - non si vede perché invece proprio i pensatori contemporanei, anche se non credenti, dovrebbero accoglierlo ‘criticamente e insieme docilmente’. Non, si badi, vagliarlo criticamente per accettarlo o rifiutarlo: questo è ovviamente dovere di chiunque sia seriamente impegnato nella ricerca intellettuale. Accoglierlo ‘criticamente e insieme docilmente’ significa ben altro: se è possibile metterne in discussione i dettagli, il nucleo del patrimonio sapienziale della chiesa cattolica per Benedetto XVI va accettato necessariamente se non si vuole che l’albero del sapere inaridisca.

Forse è proprio questa pretesa di possedere la verità che l’istituzione universitaria – luogo che dovrebbe essere, al contrario, finalizzato alla ricerca della verità – fatica ad accettare. Una comunità universitaria, giustamente critica nei confronti di una religiosità dogmatica, credo che si confronterebbe invece volentieri con un tipo di religiosità, totalmente assente dall’orizzonte di Benedetto XVI, come quella di Gandhi. Profondamente religioso, questi era convinto che in tutte le fedi la verità fosse mescolata all’errore e che gli uomini dovessero cercare il granello di verità insito in ciascuna di esse.

Consapevole del fatto che la conoscenza progredisce a poco a poco, scriveva sul settimanale Harijan : “Le opinioni che mi sono formato e le conclusioni cui sono giunto non sono definitive. Potrei modificarle in qualsiasi momento”(28/3/1936). Appassionato ricercatore della verità, Gandhi non era affatto un relativista ma si definiva “un comune mortale che procede dall’errore verso la verità”(ivi 3/6/1939), e quindi era sempre disposto a mettere in discussione le proprie convinzioni: “Non posso dare alcuna garanzia che farò o crederò domani quello che faccio o ritengo vero oggi”(ivi 3/3/1946).

Lontano dal dogmatismo di chi considera i propri testi sacri l’unica autentica rivelazione divina, affidata alla propria infallibile interpretazione, Gandhi ritiene che nessuna autorità sia in possesso di un patrimonio di verità che i fedeli debbono accogliere docilmente. La ricerca della verità è compito di ciascuno, e perciò a chi gli chiede a chi spetti il compito di stabilire quale sia la verità, sul settimanale Young India risponde: “Tale compito spetta all’individuo stesso”(21/1/1920).

Il meno che si possa dire è che Benedetto XVI non chiarisce affatto per quali motivi proprio alla fede cristiana nella versione cattolica e non, per esempio, a una religiosità di tipo gandhiano, assolutamente rispettosa della libera ricerca, dovrebbe essere riservata dagli studiosi un’accoglienza privilegiata.



Una ragione da purificare

Il papa, infine, afferma di poter parlare anche ai non credenti ponendosi sul piano dell’argomentazione razionale: ‘come rappresentante di una ragione etica’, egli intende offrire ‘un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità’. Se il dialogo si svolge sul piano della ragione, perché gli studiosi, credenti o meno, dovrebbero rifiutarlo? Per un motivo semplicissimo: perché un vero confronto può realizzarsi solo tra soggetti che si riconoscono come ugualmente impegnati nella ricerca della verità e tutti disposti a mettere in discussione le proprie certezze. Non c’è invece alcuna possibilità di dialogo con chi ritiene che le proprie tesi siano incontestabilmente vere e che chi non le condivide attenta con ciò stesso alla dignità dell’uomo, essendo con tutta evidenza indotto in errore da una ragione non sufficientemente pura.

Purtroppo è proprio questa la posizione di Benedetto XVI. Egli infatti ha ribadito più volte quanto sosteneva nel 2002 come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e cioè che ci sono valori indiscutibili che non sono confessionali in quanto per essere riconosciuti non presuppongono la professione di fede cristiana, che la chiesa cattolica tuttavia ha il merito di confermare e tutelare sempre e dovunque. Ne consegue che le concezioni morali diverse da quella cattolica sono espressione di un pluralismo etico che testimonia la decadenza e la dissoluzione della ragione e dei principi della legge naturale (cfr. Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, nn 5 e 2).

Quindi l’intangibilità della vita umana dal concepimento al termine naturale, per esempio, per il papa non è una tesi opinabile ma una verità fondata sulla legge naturale. Ma come si fa a stabilire che si tratta di una verità e non di una semplice opinione, dal momento che, se è vero che alcuni pensatori portano argomenti a favore di questa tesi, è altrettanto vero che altri pensatori ne portano in senso contrario?

È a questo punto che Benedetto XVI getta sul piatto della bilancia il peso della sua autorità: vera è la tesi che appartiene a una lunga tradizione di saggezza morale, di cui il papa è in qualche modo il ‘rappresentante’. Questa mossa, però, sposta il livello del dibattito: non siamo più su un piano puramente razionale, in cui una tesi vale quanto valgono gli argomenti che la supportano. Siamo su un altro piano: infatti, per vedere proprio nel vescovo di Roma il custode di ‘un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche’ è necessario un atto di fede, e non una fede qualunque ma specificamente cattolica, e per giunta di tipo tradizionale.

Né sembra sufficiente a giustificare la fiducia nel papa quale garante della verità etica l’argomento per cui protagonisti del dibattito pubblico sono prevalentemente i partiti politici che, mirando a conseguire la maggioranza in parlamento, tendono a preoccuparsi più di interessi particolari da soddisfare che del bene oggettivo da salvaguardare, sicché “La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi”. Per riconoscere che i partiti sono mossi spesso dalla leva dell’interesse basta infatti l’uso della ragione, ma per credere che il Vaticano sia sempre mosso dalla sensibilità per la verità occorre una fede addirittura cieca!

In effetti, sebbene Benedetto XVI voglia far mostra di parlare in nome della ragione, la sua impostazione implica indubbiamente delle premesse che esulano dal piano razionale. Essa, infatti, presuppone una tesi che il papa dà per scontata ma che scontata non è: la fede cristiana, è ‘una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa’. Dietro quest’affermazione c’è evidentemente la dottrina del peccato originale, che avrebbe ferito la natura umana, sicché oggi l’uomo, facile preda dell’errore, può trovare soccorso, anche per quanto riguarda le verità naturali, nella rivelazione divina custodita dalla chiesa.

Ora, che la ragione umana sia fallibile è assolutamente certo: la tesi, invece, che la fede risani i guasti di un’umanità segnata dal peccato originale - la cui storicità si basa del resto su una discutibilissima interpretazione della Bibbia - è tutta da dimostrare, e non pare che la storia della chiesa possa confermarla. Basti pensare a grandi teologi cattolici, come Tommaso d’Aquino, per i quali l’inferiorità della donna e la schiavitù sono realtà iscritte nella natura, o a papi come Innocenzo IV, che autorizzano nei tribunali dell’Inquisizione l’uso della tortura. Tali idee non sono certo sostenute oggi dal magistero ma non possono essere giustificate ricordando che i loro autori, la cui ragione era certamente purificata dalla fede, subivano i condizionamenti del loro tempo: bisognerebbe altrimenti riconoscere che simili condizionamenti potrebbero esserci anche oggi, con conseguenze devastanti per chi pretende di purificare la ragione altrui.

È evidente, in ogni caso, che l’idea che una ragione non animata dalla fede cattolica sia particolarmente esposta all’errore rende impossibile un confronto paritetico, e non solo con il pensiero laico, irrimediabilmente inficiato dal suo relativismo, ma anche con le altre religioni e persino con le altre confessioni cristiane. Del resto, la Dichiarazione Dominus Jesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, firmata nel 2000 dal card. Ratzinger come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, afferma ciò esplicitamente. La parità vale per le persone ma non per le convinzioni, che non stanno affatto sullo stesso piano: “La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali”(n 22).

Alla luce di queste considerazioni, pare del tutto comprensibile l’inopportunità di offrire, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, una nuova tribuna per affermare le sue posizioni dogmatiche a un’autorità che ancora oggi, come scriveva Gilson riferendosi al medioevo, mira a instaurare ‘una vera teocrazia intellettuale’ e che, con sovrano sprezzo del ridicolo, nel corso dell’Angelus del 20 gennaio a piazza S. Pietro, ha avuto il coraggio di invitare i «cari universitari ad essere sempre rispettosi delle opinioni altrui e a ricercare [...] la verità e il bene».

L’università, se è luogo di libera ricerca e di confronto rispettoso non solo delle persone ma anche delle tesi sostenute dai vari interlocutori, è incompatibile con maestri che presumono di possedere essi soli la verità. E simili maestri, oltretutto, pare che non siano apprezzati neanche da Gesù di Nazaret che, stando a Matteo 23, 6-10, criticava gli scribi e i farisei che “amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbì’ dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ‘maestri’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo”.

www.italialaica.it(15-5-2008)



Giovedì, 22 maggio 2008