Anche la seconda enciclica di papa Benedetto XVI è una riflessione teologica, ricca di richiami non formali alle Scritture, su un aspetto centrale della fede cristiana. Questo è un bel segno, in un tempo in cui la presenza delle gerarchie cattoliche, in Italia come nel mondo, appare sempre più legata a questioni morali, con interventi tesi ad influenzare le decisioni in materia di etica pubblica, a tutelare condizioni privilegiarie, a controbattere le voci che, nella chiesa romana, intendono il Concilio Vaticano II come lavvio di un processo di rinnovamento. Fa bene il papa a rispiegare lessenziale del messaggio evangelico; il ritorno alle fonti, cioè un rinnovato ascolto della testimonianza delle Scritture è lunica cosa che può impedire alla chiesa di scambiare qualcosaltro (mondano o religioso che sia) per la speranza di Cristo. Così questa enciclica non manca di affermazioni che si possono condividere e fare proprie, come richiamo alla Parola di Dio, convinti come siamo che il compito ecumenico più urgente sia tornare insieme a scuola di cristianesimo, mettendoci a nudo davanti a Dio e alla sua Parola. E tuttavia non posso tacere alcuni interrogativi e critiche di fondo. Non mi riferisco a punti di ovvia divergenza dottrinale: ai n. 47 e 48 il papa ripropone, certo in maniera moderata, la dottrina del purgatorio e la pratica del suffragio per i defunti, che a nostro avviso non hanno alcun fondamento biblico e quindi neppure alcuna legittimità teologica. Qui le chiese protestanti non possono che ripetere con Lutero: “Il purgatorio è contro larticolo fondamentale, secondo cui solo Cristo, e non alcuna opera umana, può aiutare le anime” (WA 40, 205). Ai nn. 49 e 50 il papa chiude la sua enciclica con una preghiera a Maria, “stella del mare”, alla quale ovviamente non possiamo associare la nostra richiesta di guida sul cammino della speranza, cosa che avremmo fatto toto corde se essa fosse stata indirizzata a chi solo può accoglierla, cioè a Dio in Cristo. Mi riferisco invece ad alcuni temi sui quali sarebbe necessaria una testimonianza ecumenica che sia al tempo stesso un “render ragione della speranza che è in noi” e un responsabile fare i conti con ciò che di questa speranza abbiamo fatto nella storia. E qui cè il primo problema. Come di consueto, per il papa le cose sono andate bene da Gesù (addirittura dalla cacciata dal paradiso terrestre, n. 17) fino ai tempi moderni. In essi, la fede è stata ridotta a fatto privato ed è così divenuta “in qualche modo irrilevante per il mondo”; Lutero ha ridotto la speranza da “sostanza” ad “atteggiamento interiore”; Bacone ha diffuso la fede in un regno delluomo basato sulla scienza, che però non può redimere, e di lì si è sviluppato il mito del progresso; Kant ha opposto la “fede razionale” alla “fede ecclesiastica”; Marx ha voluto sviluppare una politica “pensata scientificamente”, tesa al “cambiamento di tutte le cose”, ma “in modo unilaterale” e, soprattutto, “materialistico”. Anziché liquidare tutto questo travaglio moderno con la frase “è necessaria unautocritica delletà moderna”, il teologo cristiano dovrebbe chiedersi se le correnti di pensiero appena menzionate non abbiano contribuito a mettere in luce linfedeltà della cristianità trionfante, che ha pensato più al potere (in primo luogo spirituale ed ideologico) della chiesa e degli ecclesiastici che a diffondere la speranza e alimentare la formazione di coscienze liberate; che si è poco occupata di giustizia nel mondo, come invece esige la Scrittura, Antico e Nuovo Testamento; che ha tacitato lesigenza legittima di un “mondo migliore” in nome di un al di là; che ha combattuto la scienza che invece, biblicamente, può essere vista come vocazione che Dio rivolge allumanità creata “a sua immagine” ed incaricata del dominium terrae. Il papa parla, vero, anche di una autocritica “del cristianesimo” (n. 22), ma si tratta di quello “moderno”! Cioè, di quel cristianesimo che ha ripensato se stesso prendendo sul serio gli interrogativi di cui sopra. Questo cristianesimo, che nella chiesa del papa vuol dire una certa teologia ”conciliare”, deve fare autocritica. Chi ha alle spalle il secolo XX, e non ha né rimosso né idealizza il regime di cristianità, le “auto-critiche” richieste ad altri da chi sta in alto non possono che apparire sospette. Al n. 37 il papa ricorda la speranza incrollabile del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Tin (+ 1857), “prigioniero per il nome di Cristo” e ci propone una autentica testimonianza. LEuropa, però, è imbevuta del sangue di martiri, per lo più cristiani, morti non per Bacone o Kant o Marx, né torturati ed uccisi da adepti delle idee moderne di un regno di dio secolarizzato sulla terra, ma vittime di una cristianità vincente nella sua pretesa di organizzare il mondo con la Verità che essa detiene. La sfida della speranza implica che si rilegga noi per primi, senza sconti, la nostra storia alla luce del giudizio di Dio. Il problema, invece, sembra essere solo che i moderni non credono più al giudizio universale. Che cosa ha fatto di disperante lo stalinismo che non si fosse già visto nellEuropa cristiana, in nome del crocifisso però? Inoltre non credo proprio che la tentazione più diffusa oggi tra i cristiani e tra gli uomini e le donne del nostro tempo, siano i miti del progresso e lillusione di un regno di Dio qui ed ora. Vedo piuttosto scoraggiamento, confusione, solitudine, rassegnazione, dubbi, evasione, assenza di prospettive, stanchezza. Qual è la parola che noi riceviamo dallEvangelo in questa situazione? Questa mi sembra la domanda che attanaglia il testimone cristiano. Per non parlare poi del fatto che la protesta contro linfeudamento del moderno cristianesimo ai miti del progresso è già risuonata forte e chiara a partire dagli anni 20 del secolo scorso, ad opera di uno sparuto gruppo di cristiani protestanti (Karl Barth), nellindifferenza della loro chiesa asservita al nazionalsocialismo e mentre il papa di Roma firmava concordati con Mussolini e Hitler. Eppure per Benedetto XVI il vero problema è la modernità. Lobiettivo polemico (la modernità e il cristianesimo moderno) ha guidato Benedetto XVI in tutta lenciclica, e così non appaiono valorizzati testi e contesti biblici che avrebbero dato unaltra impronta al discorso e avrebbero permesso di accogliere serenamente gli interrogativi che attraversano la coscienza attuale, anche cristiana. Secondo il papa, “lateismo moderno è … un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale” (n. 42). Ma la protesta, coram Deo!, contro lingiustizia è una dimensione fondamentale nelle Scritture, da Giobbe allApocalisse, passando per molti salmi e profeti. Se Gesù riprende in croce il grido di Israele (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”, Salmo 22), il discorso cristiano sulla sofferenza non può risolversi nellinvito a trovare un senso anche in essa. Se nel Nuovo Testamento i discorsi sul Regno di Dio e sul “frattempo” tra la prima venuta di Cristo e il suo ritorno sono, come sono, articolati e per certi versi contraddittori, ciò andrebbe messo alla base di una riflessione sulla speranza, mostrando che la speranza è una scoperta nelle contraddizioni. Infine una parola su Lutero. In una bella formulazione, al n. 2, il papa afferma: “il messaggio cristiano non era solo «informativo», ma «performativo». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita.” Non siamo lontani dalla scoperta di Lutero: lEvangelo come parola di Dio che promette, dona, salva. La Riforma, dal XVI secolo, in fondo, non ha voluto dire altro che questo: la Parola è “efficace”, dona realmente la realtà che annuncia. Poche pagine dopo, però, Lutero viene liquidato come qualcuno che avrebbe ridotto la speranza ad atteggiamento interiore anziché riconoscerla come “realtà presente in noi”. Peccato, un(altra) occasione mancata per ascoltare oggi chi si è respinto allora, per non prenderlo sul serio come testimone cristiano e farne solo uno dei primi “moderni”, che oggi devono fare autocritica.
Giovedì, 06 dicembre 2007
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