Il dibatttto sulla messa in latino
DA PIO V A PAOLO VI:ANDATA E RITORNO.

di Ernesto Miragoli - Como

La notizia circolava da tempo: torna la messa in latino con i canti gregoriani.
E la messa in latino è arrivata. Il papa Benedetto XVI, con motu proprio ha ricordato che il messale di Pio V, riformato da Giovanni XXIII, non è mai stato abolito da Paolo VI.
E’ vero.
E’ anche vero che il latino non è mai stato abolito dal linguaggio ecclesiale (per fortuna, dico io, amante di questa lingua).
A completamento del discorso dirò anche che il Papa si è sprecato nell’accompagnare il motu proprio con una lettera esplicativa ai confratelli nell’espiscopato che illustra le ragioni per cui ha ritenuto opportuno questo passo.
Benedetto XVI scuserà una pecora del gregge, quale io sono, se emetterà qualche strano belato.
E vado belando.
Anzitutto vorrei ricordare (la storia della liturgia ce lo insegna) che il messale del 1962, fu pubblicato in fretta ed in furia dall’ala curiale più retrograda e retriva che paventava chissà quale fumo di Satana (l’espressione è di Paolo VI) con l’annunciato Concilio Vaticano II. Detto messale era un qualcosa di riveduto e corretto del messale di Pio V nato dal Tridentino. Tale messale si è rivelato subito inadeguato alle esigenze liturgiche espresse dal Vaticano II non solo a causa della Sacrosantum Concilium, ma soprattutto a cagione delle svariate espressioni che la liturgia (con diversi casi un po’ stupefacenti) andava assumendo. Tale messale è "POVERO" e "CATTIVO".
Povero perchè presenta quattro brani in croce della Parola di Dio, quattro orazioni e una serie di anodine manifestazioni della pietas liturgica che non dicono più nulla a nessuno, quali le quattro Tempora, le Rogazioni e via dicendo.
Cattivo perchè al Venerdì Santo prega ancora per i "cattivi giudei" che hanno messo in croce Gesù, ma soprattutto per quelle manifestazioni di pietà popolare che sanno molto di superstizione.
Benedetto XVI si spiega: parecchi fedeli trovano in queste espressioni esterne una fede che non trovano nella liturgia scaturita dal Vaticano II. Mi spiace che cada in contraddizione con se stesso. Nel suo magnifico libro "Introduzione al cristianesimo", quando tocca l’argomento della fede cristiana delle origini, sostiene che le espressioni di fede nascono dal cuore dell’uomo e non solo da liturgie esteriori. Anzi, rincara la dose dicendo che l’attaccamento a forme di pietà spesso è segno di (cito a memoria) "sacralità taumaturgica" e non di reale vita interiore.
Paolo VI (che non sarà mai valorizzato abbastanza) nella presentazione del messale romano da lui firmato, ha detto (mi pare in occasione della riforma della Congregazione del Culto Divino), che tale messale vuole essere una traccia comune di espressione della fede universale della chiesa che si ritrova a celebrare l’Eucaristia in ogni angolo del mondo. Tale dichiarazione di Paolo VI fu subito interpretata da destra e da sinistra: a destra (vi ricordate Ottaviani?) si disse che oltre lì non si poteva andare, a sinistra (in primis le comunità di base) capirono che l’importnate era non discotarsi da quella traccia, poi...poi... esisteva la libertà dei figli di Dio.
Adesso il cerchio si chiude: da Pio a Paolo a Pio.
E si chiude male.
Continuo il mio belato dicendo che non ha senso cedere a pressioni che fanno ripiegare su se stessa una chiesa che dovrebbe essere aperta al mondo anche nella sua espressione liturgica.
Non ha senso andare incontro all’ala della nobiltà nera del cattolicesimo che preferisce gli "Introibo ad altare Dei" e il sacro prete che biascica "dirigatur Domine oratio mea sicut incensum in conspectu tuo" mentre nuvoleggia misteriosi e quasi sciamanici volteggi con un turibolo fumigante.
C’è già abbastanza confusione...non era il caso di aggiungervene altra.


Ernesto Miragoli - Como




Luned́, 09 luglio 2007