IL PROBLEMA DELLE VOCAZIONI
E DELLE GUIDE DELLE COMUNITÀ CATTOLICHE
IN EUROPA E NEL MONDO

di Ottmar Fuchs
Docente di teologia pratica alla Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Tubinga

Riprendiamo dal sito della Queriniana (http://www.queriniana.it/teologia.asp) questo articolo di Ottmar Fuchs, Docente di teologia pratica alla Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Tubinga


In occasione del riordino della pastorale avvenuto in Germania in questi mesi il prof. Ottmar Fuchs dell’Università di Tubinga svolge questa riflessione incisiva, d’interesse più generale, su un problema che ritorna frequentemente nel dibattito ecclesiale e teologico nell’ambito della Chiesa cattolica.

1. Soddisfazione illusoria

Dopo che, nella maggior parte delle diocesi in Germania, il riordino della pastorale si è ora concluso, sembra che negli Ordinariati si sia abbastanza soddisfatti del lavoro fatto. E comprendo pure il desiderio che ora, finalmente, segua a questa maratona di pianificazione un periodo di maggiore tranquillità, che l’assunzione dei ruoli nelle nuove strutture pastorali vada a buon fine e che i danni collaterali siano, per quanto possibile, limitati. Non dico che queste pianificazioni e cambiamenti non fossero necessari, ma per quanto riguarda il loro esito non ci si deve scordare che essi non sarebbero stati necessari e che, con una diagnosi tempestiva, si sarebbero potuto attuare trasformazioni della pastorale più adeguate, solo che le persone preposte alla direzione ecclesiastica avessero preso maggiormente sul serio la loro responsabilità, né ci si deve scordare che le condizioni di ammissione al ministero presbiterale sono, per l’identità della chiesa cattolica, meno costitutive del legame che si può vivere tra sacramento e vita.

2. Fratture e compromessi

Che sacramento e vita siano tra loro legati è stata una delle esigenze decisive sollecitate dal concilio Vaticano II. Se ora, però, interi processi vitali, che dipendono costitutivamente da un sacramento, non sono più a questo legati, allora non abbiamo soltanto un problema pratico, bensì anche un problema dogmatico. Se dei preti devono guidare spiritualmente da tre anche fino a cinque comunità parrocchiali, ma possono esercitare il loro ministero, vivendo almeno un poco insieme con i fedeli, legati al massimo ad una parrocchia, allora rispetto alle altre parrocchie essi sono costretti a scindere il nesso tra sacramento e percorso vitale, tra ministero presbiterale e agire pastorale socialmente sperimentabile.

Viceversa, si incontra il medesimo fenomeno di spaccatura dall’altra parte, quando delle persone non ordinate, che fanno della pastorale la loro occupazione principale, esercitano di fatto la direzione spirituale della comunità, ma non possono presiedere l’eucaristia perché non vengono assunte nell’ordine. Ancora peggio è se costoro non possono neppure essere, nelle unità di origine, persone a cui fare riferimento.

Per limitare i danni si dovrebbe parlare di una opportunità di cambiamento piuttosto che di un pericolo di cambiamento: i credenti dovrebbero poter ‘scambiare’ persone non ordinate, la cui occupazione principale è il servizio pastorale, con il loro parroco, piuttosto che non avere assolutamente più una guida spirituale. E dovrebbero poter scambiare la liturgia della parola con distribuzione della comunione con la santa messa, piuttosto che dover rinunciare completamente all’esperienza di questo evento simbolico. Per non parlare della possibilità, in esso donata ai credenti, di partecipare a tale banchetto almeno con la ricezione del sacramento, mentre questo viene loro negato.

3. Autodistruttiva cecità vocazionale

Contro il cambiamento delle condizioni di ammissione all’ordine ci sono almeno due reazioni difensive, oggi sufficientemente note. La prima: Questo problema della mancanza di sacerdoti e degli attuali raggruppamenti di parrocchie sarebbe soltanto il problema di lusso delle chiese europee. Una simile affermazione è radicalmente falsa: si tratta piuttosto di un problema globalizzato della chiesa in tutte le parti della terra, che quasi dappertutto, anche se in contesti diversi, può essere di conseguenza identificato come tale: riguarda le piccole comunità cristiane in Africa proprio come le comunità quasi totalmente prive di preti nella zona dell’Amazzonia, come pure l’esperienza dell’America latina, dove le chiese pentecostali hanno tanto seguito proprio perché esse ovunque - al contrario dell’ambito cattolico – possono unire la generale visibilità sociale con la rappresentanza di ministri della liturgia. Così nelle diocesi africane, l’impegno dei responsabili della pastorale per le piccole comunità cristiane fu dovuto anche al timore che le indigenous churches potessero ottenere più seguito proprio perché esse, in comunità visibili, dispongono al tempo stesso anche di persone che guidano la pastorale e la liturgia. Ma è proprio necessario che nei superiori responsabili della pastorale si diffonda la paura, perché essi ammettano ciò che per la chiesa cattolica sarebbe necessario già in base alla sua identità?

La seconda reazione di difesa è questa: Con il cambiamento delle condizioni di ammissione non si risolvono tutti i problemi! Ciò è naturalmente vero, e anzi si danno pure dei problemi nuovi. Ma questi problemi riguardano la inadeguatezza delle persone a vivere celibi o nel matrimonio e con una famiglia. Il cambiamento delle condizioni di ammissione al ministero presbiterale pone però un problema di identità, del tutto decisivo, della chiesa stessa: cioè, che sempre meno preti sono sempre meno disponibili ad aiutare altri e sempre più oberati di incombenze.

Questa frattura, che attraversa al centro l’identità sacramentale della chiesa, è essa stessa ecclesiogena. Il lamentarsi per le vocazioni presbiterali ha una falsità di fondo (strutturale, non personale!) nel fatto che un numero abbastanza grande di giovani e anche di persone meno giovani non prende in considerazione e disdegna la vocazione presbiterale a motivo del fatto che il presbiterato è vincolato al carisma del celibato e al ‘carisma’(!) dell’essere maschio.

4. Primo appello!

L’inchiesta recente tra referenti pastorali, donne e uomini, nell’ambito di lingua tedesca (Ortssuche, ed. da P.M.Zulehner e K. Renner, Ostfildern 2006) documenta questo: più del 40% dei referenti pastorali, delle donne e degli uomini che fanno della pastorale la loro occupazione principale, a partire dall’origine della loro vocazione, dalla loro spiritualità e in parte perfino dalla loro attività, hanno una vocazione al ministero sacerdotale. La chiesa si rende strutturalmente colpevole nei confronti della grazia donata in queste vocazioni, ma anche nei confronti di tutti coloro ai quali in questo modo, in comunità visibili e nelle altre forme di cura d’anime e di pastorale, viene sottratta la grazia del servizio sacerdotale.

Eppure nulla si muove! Da decenni! Al contrario: si vuole ammettere donne al diaconato solo se questo sarà totalmente sganciato dall’ambito sacramentale dell’ordine, e sul ministero presbiterale di donne non si può più neppure parlare, a causa di una affermazione infallibile in un documento fallibile del magistero ordinario. Chi arresterà questo corso suicida per la pastorale della chiesa? Quando, finalmente, i vescovi (e chi altrimenti dovrebbe farlo nelle strutture della chiesa cattolica) prenderanno posizione non soltanto per ciò che per le diocesi è importante secondo il Vaticano, ma anche per ciò che a partire dalle diocesi deve essere importante per il ministero del papa? La promessa di obbedienza nei confronti del papa non può, però, impedire che si discuta con estremo vigore sui necessari cambiamenti di struttura! Obbedienza cristiana significa che si è obbedienti dopo un confronto, e non per impedirlo.

5. Sfrontatezza strutturale

Quando davanti a dei preti cerco di spiegare loro i testi, anche i testi del Vaticano II relativi ai sacerdoti, spesso mi si obbietta: a che servono tutti questi bei testi e le riflessioni che vengono proposte a partire da essi, se però dilaga una paralisi che trae origine dal fatto che, a causa di mutamenti strutturali preordinati, proprio questo nesso pastorale, ossia il legame tra sacramento e processi di vita e di servizio da esso dipendenti (quali, ad esempio, quelli indicati dal decreto sui sacerdoti) viene spezzato? Così che i sacerdoti né hanno tempo di radicare l’esistenza nella grazia loro donata, né ottengono la libertà di essere attivi in forme e ruoli diversi del ministero sacerdotale.

I vescovi tradiscono qui la loro responsabilità nei confronti dei presbiteri di oggi, se essi non fanno di tutto e, di conseguenza, non si attivano a livello di politica ecclesiastica perché i presbiteri non siano più costretti a privarsi di questa grazia del loro ministero. La dedizione per le persone, per i credenti e per la chiesa, radicata nella vocazione presbiterale, non può essere usata indebitamente per sanare distruzioni ecclesiogene colpevoli.

6. Liquefazione di ruoli presbiterali

Rainer Bucher parla di una necessaria ‘deregolazione’ dei ruoli presbiterali. Il decreto sui sacerdoti ha compiuto i primi passi in questa direzione, quando ha riabilitato, in PO 8,1, i preti operai. Questo ha un enorme significato per il futuro pastorale all’inizio del terzo millennio.

Si dovrà riflettere nuovamente non solo a partire ‘dal basso’ (da comunità e altre forme sociali della chiesa) sulla retribuzione degli ordinati, ma di nuovo anche sugli ordinati nel contesto del lavoro retribuito, là dove seguendo il progetto dei preti operai (diversamente dal caso del diacono che esercita una professione civile) diventerà determinante che l’esistenza presbiterale si riferisca anche e particolarmente all’ambito lavorativo, cioè nel senso di introdurre il vangelo tra gli uomini in differenti ambiti lavorativi e culturali, del tutto nella linea di una «pastorale orientata agli spazi di vita». Infatti, la responsabilità della direzione spirituale non esiste solo nelle forme di comunità compatte, ma anche nelle forme sociali disperse della pastorale.

7. Ultimo appello!

Tra le circa 3000 donne referenti pastorali, soltanto in Germania, sono state fino ad ora impedite più di 1200 vocazioni sacerdotali. Se poi si pensa anche ai teologi e alle teologhe che per questo motivo non sono entrati al servizio della chiesa, e a quelli che hanno trovato il rispettivo ministero in altre chiese cristiane, e inoltre se ci si ricorda di tutti quei sacerdoti che, per aver cambiato forma di vita scegliendo il matrimonio, hanno dovuto lasciare il servizio sacerdotale (anche se la maggior parte di essi non avrebbero voluto), diventa allora qui evidente, in un modo che spaventa anche sul piano della quantità, la strategia suicida della chiesa cattolica nel nostro paese.

Quando, finalmente, i vescovi faranno il loro ‘mestiere’ e si schiereranno solidali con le loro diocesi proprio in questo ambito nevralgico? Allora, se un papa dicesse di no, noi avremmo dalla nostra parte almeno i nostri vescovi. Ora, però, noi li vediamo persistere in questa pesante capitolazione permanente, nella terra di nessuno strutturalmente cieca tra totale disponibilità nei colloqui personali e mancanza di coraggio nei confronti del Vaticano (o anche già nei confronti della conferenza episcopale). Se anche per questo problema ci fosse almeno un documento come quello scritto tempo fa dai tre vescovi delle diocesi del Reno superiore sulla problematica pastorale dell’ammissione di credenti divorziati e risposatisi all’eucaristia! Ma, a perdita d’occhio, nulla è in vista! O forse mi inganno? Lo spero tanto! Sarebbe ora! E dappertutto! Se almeno in un prossimo futuro si facesse un primo passo: nell’ammettere uomini sposati al ministero presbiterale e donne al sacramento del diaconato! Allora la rigidità sarebbe spezzata, la paralisi potrebbe guarire e la speranza dentro la chiesa avrebbe una traccia.


Il Prof. Dr. Ottmar Fuchs detiene la cattedra di Teologia Pratica alla Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Tübingen.


© 2007 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi
Forum teologico, a cura di Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)

 



Venerdì, 27 luglio 2007