Per amore di libertà

di Dino d’Aloia

Pubblichiamo i documenti con i quali Dino D’Aloia ha comunicato al vescovo di San Severo la sua autosospensione da prete cattolico.


Ringraziamo Dino D’Aloia per averci inviato i documenti che seguono e che testimoniano un percorso di fede che, secondo noi, si muove nel solco del Vangelo.
I due documenti sono nell’ordine:
1) la comunicazione al vescovo di San Severo Lucio Angelo Renna della mia autosospensione dal servizio di prete cattolico;
2) la lettera con la comunicazione del mio percorso teologico e spirituale.

Ci auguriamo che queste riflessioni possano essere di aiuto a quanti nella chiesa cattolica hanno maturato idee simili a quelle di Dino d’Aloia.



La comunicazione al vescovo di San Severo Lucio Angelo Renna della autosospensione dal servizio di prete cattolico;

Per amore di libertà


Ho atteso sette anni prima di prendere questa decisione, ho sofferto molto e continuo a farlo, ma sento ora che è arrivato il tempo di compiere un passo, importante e dolorosissimo, ma che sia al contempo una scelta chiara che mi liberi dalla indeterminatezza in cui sono vissuto in questi ultimi tempi. Sento che sto vivendo le doglie per la nascita di qualcosa di nuovo nella mia vita.
Con la presente lettera comunico la mia decisione di sospendere il mio servizio di prete nella Chiesa Cattolica. Lo faccio perché voglio bene a lei e perchè voglio bene a me stesso. Non mi sentirei più onesto nel celebrare messa insieme all’assemblea recitando frasi e compiendo gesti in cui non credo più, o meglio, in cui credo in modo diverso da come il catechismo ufficiale della Chiesa li propone. Ad oggi non ci sono quindi le condizioni perché io continui ad esercitare il ministero. Non so cosa possa avvenire domani.
Per diversi anni ho approfondito la mia ricerca teologica e spirituale. Ora ho raggiunto delle convinzioni robuste che in diversi ambiti teologici ritenuti centrali dissentono dall’insegnamento ufficiale della Chiesa. Io sarei felice di continuare a fare il prete dicendo e vivendo ciò che ho maturato dentro, ma questo non è possibile perchè la chiesa cattolica non transige sui dogmi e su alcuni “pilastri teologici” cui io non riesco più ad aderire e che invece per lei sono fondamentali da professare. La crisi di coscienza che ho vissuto in questi anni è presente anche in molti altri cattolici, preti compresi. Diversi preferiscono non esternarle, pochi altri decidono di parlarne e a volte di abbandonare, perché può succedere, come nel mio caso, che la crisi si è fatta troppo lacerante.
In una recente lettera ho comunicato per iscritto il mio pensiero e le mie evoluzioni. Mi è stato consigliato di tenere per me, in silenzio, le mie convinzioni personali e di non comunicarle ai fedeli. A loro va trasmessa solo la verità professata dalla Chiesa Cattolica. Ho meditato a lungo su questo consiglio e ho deciso di non attuarlo, malgrado fosse motivato da tanto amore nei miei confronti e dal desiderio di vedermi comunque inserito nella Chiesa. Ritengo invece che sia mio dovere esprimere apertamente ciò che la coscienza mi suggerisce, anche se questo va a pregiudicare l’esercizio del sacerdozio nella Chiesa cattolica. Non voglio vivere nascondendo le mie convinzioni e quello che sono. Sento invece dentro di me un irrefrenabile impulso alla libertà, pur nel rigoroso rispetto del cammino degli altri.
Non sospendo l’esercizio del ministero perché disprezzo la Chiesa Cattolica, anzi la amo e continuerò a servirla così come potrò, ma sempre senza compromettere la mia libertà e il rispetto della mia coscienza. Sento invece che continuando a starci dentro come prete la userei soprattutto per il ruolo sociale e la posizione sicura che mi garantisce.
Continuo il mio servizio alla causa del vangelo nell’ottica ecumenica nella quale mi sento a mio agio. Svolgerò il mio impegno spirituale e sociale presso la Casa Ecumenica Eirene ed altri spazi ecumenici in cui riesco ad operare nella serenità e nella libertà. Il mio impegno dunque continua con la grinta e l’entusiasmo di sempre. Cambia solo la forma.

San Severo, 18 luglio 2007 Dino d’Aloia


Lettera al vescovo di San Severo Lucio Angelo Renna con la comunicazione del mio percorso teologico e spirituale.


Un’esigenza di coerenza


Caro vescovo Lucio,
con trepidazione le scrivo questa lettera che è il frutto di tanta meditazione, preghiera e lacrime di questi ultimi anni.
La consegno volentieri nelle sue mani perché mi fido di lei, la stimo, la sento una persona buona, sensibile, sincera. Questo mio scritto nella prima parte racconterà il mio percorso interiore ed ecclesiale e nella seconda esprimerà con chiarezza dove sono arrivato oggi e la mia attuale professione di fede.
Sono entrato in seminario dopo il liceo, a 19 anni, con il grande desiderio di vivere la mia vita sulle orme di Gesù che era e rimane il mio luminoso modello di vita. Quell’entusiasmo per il Vangelo è vivo in me, come allora, e anzi è persino cresciuto. Oggi, però, dopo dodici anni di presbiterato, tanti miei modi di pensare sono cambiati, si sono evoluti in modo nuovo. Non voglio dire che ora conosco “la verità”oggettivamente e che prima ero in errore; dico solo che a causa di questo cambiamento sto vivendo da qualche anno ormai una sofferta lacerazione esistenziale: da una parte c’è il mio ruolo di prete cattolico che mi chiede di credere, di predicare e di testimoniare determinate cose, dall’altra c’è ormai ciò che ho acquisito profondamente e che ormai mi appartiene. Mi sento come in una condizione di tradimento costante, o verso la chiesa cattolica perché non dico tutto ciò che mi chiede di professare, o verso le persone con cui entro in contatto perché anche a loro dico solo alcune cose che sento mentre taccio le altre che non posso dire. Questa sofferta crisi è cominciata nell’anno 2000, ed è scaturita da conversazioni, letture, riflessioni ed esperienze personali.
In seminario avevo ricevuto tanti insegnamenti che avevo favorevolmente accolto, ma quando mi sono lanciato nell’esperienza dell’insegnamento della religione a scuola e più in generale nell’azione pastorale diretta, ho continuato a confrontarmi, ad approfondire e ad elaborare. In questi anni di rielaborazione ho fatto un cammino di dialogo con il vescovo Michele Seccia; abbiamo cercato di rispettarci a vicenda o almeno l’abbiamo desiderato. Nonostante questo confronto io non ho modificato alcune mie visioni dogmatiche che non venivano considerate confacenti al credo cattolico. Il 5 luglio del 2004 inviai per iscritto un documento al vescovo nel quale facevo una mia professione di fede, e quando qualche giorno dopo il vescovo mi disse che stava per essere avviato il percorso della mia sospensione a divinis, allora, per non prendere decisioni affrettate, congelai ogni mia iniziativa definitiva a riguardo e feci mia l’interpretazione cattolica del credo niceno costantinopolitano nell’attesa di ulteriori approfondimenti. Così impedimmo, il vescovo ed io, la sospensione a divinis; intanto venni privato dell’insegnamento della religione cattolica presso il Liceo Tondi di San Severo, cosa che amavo moltissimo. Da allora ebbi dal vescovo il compito di vivere un anno “sabatico” presso comunità cristiane di fiducia del vescovo Seccia, tra cui Camaldoli e Bose. Lo feci. Fu un anno ricco di ulteriori scoperte ed incontri. Siccome non rivedevo ancora alcune mie posizioni dottrinali nel settembre 2005 il vescovo mi chiese di andare ancora a vivere un altro anno sabatico. Io non accettai, perché mi sembrava che quella non fosse la strada più utile da percorrere, e così da allora sono rimasto in diocesi senza incarichi pastorali di alcun tipo, esclusa la cappellania in carcere. Presiedo la messa a Santa Maria di Ripalta in Lesina la domenica e ogni giorno da poco tempo al santuario del Soccorso.
Oggi, dopo questi anni di riflessione, studio e meditazione, posso dire che le mie convinzioni hanno preso forma e consistenza dentro di me, cioè non sono più ipotesi peregrine e oscillanti. Sono entrate a far parte di me, profondamente. Io non so se e come mi evolverò domani. So solo che non posso negare che oggi sono così.
Oggi che la fase più convulsa della mia crisi è terminata mi sento un uomo sereno, felice, amante della vita. Non porto rancore né disprezzo per alcuno. Ritengo la Chiesa Cattolica una istituzione ricca di uomini e donne grandi e straordinari che mi hanno dato tanto e verso la quale provo molta riconoscenza. Non ho alcuna intenzione e velleità di dare lezioni di morale ad altri o alla gerarchia della Chiesa cattolica. La mia è solo una divergenza, profodamente sedimentata, su alcune questioni di dogmatica e di disciplina ecclesiale. Non mi soffermo su tutto ciò che condivido della tradizione cattolica perché non è l’obiettivo di questa professione di fede, dico solo che in tante cose mi ritrovo perfettamente.
Ora sono qui a dirle la mia attuale professione di fede per essere chiaro con lei fino in fondo. E’ per me un’esigenza di coerenza. Attendo da lei consigli per il mio cammino che certamente valuterò con attenzione.

Innanzitutto la mia nuova visione delle cose oggi poggia su una intuizione molto semplice, persino ovvia e banale, che appartiene addirittura al frasario comune delle conversazioni tra i non addetti ai lavori, e cioè che noi siamo cristiani perché siamo nati in una nazione cristiana, da genitori cristiani. Se fossimo nati altrove confesseremmo di sicuro altre fedi. Io sono molto contento di appartenere alla mia tradizione di fede, ma ritengo che la nostra costituisca uno dei diversi modi esistenti, ricco come altri, di immaginare Dio, di fare esperienza di Lui e di vivere nella sua pace. Oggi sono molto curioso di conoscere da vicino le altre confessioni cristiane e le altre religioni perché voglio confrontarmi con loro per offrire i tesori della mia tradizione e per imparare e accogliere le intuizioni che possono venire dalla loro. Le altre religioni storiche sono per me tutte ricche di valore e capaci ognuna di dire qualcosa di unico e di irripetibile della bellezza di Dio e della saggezza umana. Nessuna riesce ad esaurirle e nessuna è migliore di un’altra. Non concordo con il nostro Magistero ufficiale quando dice che noi, in quanto Chiesa Cattolica, abbiamo maggiore pienezza di verità o di strumenti di salvezza rispetto alle altre religioni. Ogni via religiosa può favorire la salvezza, cioè la pienezza di vita dei suoi fedeli, attraverso la sua intrinseca rispondenza ai bisogni fondamentali e vitali dell’uomo e cioè a quelli di amore, giustizia, bellezza e pace. Ogni via religiosa rispondente alle esigenze fondamentali dell’uomo è in sé salvifica. Le verità profonde incarnate in Gesù, Budda, Confucio e altri, non si escludono a vicenda, bensì si integrano e si completano l’un l’altra. Dire che solo in Cristo c’è salvezza e che solo nel suo nome possiamo essere salvati, significa per me che solo nell’amore e nella giustizia c’è vita piena. L’agape è dunque l’unica mediazione per la nostra salvezza ed evangelizzazione per me significa camminare insieme, cristiani e non, per crescere tutti nel vivere l’amore e nel praticare la giustizia.

Da questo bisogno di apertura che sento imperante dentro di me è nata una ricerca di respiro ecumenico (soprattutto sulla linea dell’Istituto di Ricerca Teologica di Tubinga di H. Kung e J. Moltmann) che mi ha portato ad accogliere diversi aspetti dottrinali che mi erano nuovi e, che ho trovato davvero liberanti:
- 1) una concezione della Sacra Scrittura non come l’unico testo ispirato da Dio, ma come uno dei diversi e nobili condensati di esperienza religiosa e di saggezza di un popolo. La bibbia è per me parola di uomini appartenenti ad un popolo ben preciso il quale vi ha raccolto la sua esperienza del Dio che libera. Io credo che tale esperienza di Dio sia stata davvero grande ed autentica e che davvero la Sacra scrittura raccolga una esperienza forte di rivelazione divina, nelle categorie culturali di quel tempo. Proprio perché quegli uomini hanno fatto una vera esperienza di Dio, la bibbia è anche parola alta e, in questo senso, divina e ispirata. Allo stesso modo io ritengo parola divina il condensato della esperienza autentica di Dio compiuta da altri popoli in modi diversi e in condizioni storiche e culturali diverse da quelle del popolo ebraico. La bellezza e la verità della bibbia e delle altre scritture sacre di altre religioni, a mio avviso, si basa sulla bellezza e sulla verità dell’esperienza religiosa autentica da cui sono nate.
- 2) una concezione del Magistero della Chiesa come di un tentativo, spesso davvero generoso, all’interno della nostra visione di Dio, di chiarire i contorni della nostra esperienza di fede e delle sue implicazioni di carattere dogmatico, liturgico, morale, giuridico. Ne sono conseguiti dei risultati davvero belli, frutto della riflessione e della esperienza spirituale dei cristiani che nei secoli ci hanno preceduto. Ma le definizioni e i dogmi che si sono costruiti con tanto sforzo nei secoli, sono pur sempre degli approdi provvisori e precari, frutto dell’epoca in cui sono stati elaborati, e non verità concettuali infallibili o immutabili. Anzi, io credo che nessuna autorità, neanche quella papale, sia infallibile in materia di fede e di morale o di altro, in quanto la comprensione umana, e quindi anche quella dei papi, è sempre limitata e in cammino. Oggi ci si deve sentire in dovere di reinterpretare in modo nuovo e creativo quegli stessi dogmi, riaggiornandoli alla luce delle nuove conoscenze, dei cambiamenti culturali odierni e dei nostri linguaggi. Io oggi vedo la Trinità non come una triade di Figure divine personali, ma come il movimento storico della presenza del nostro unico Dio, che da Padre si rende visibile nella figura e nell’opera dell’uomo Gesù e abita la nostra storia e le nostre vite come Spirito consolatore. Aderisco dunque a questa visione storica della identità trinitaria e non a quella metafisica e personalistica. Questa visione, tra l’altro, darebbe ragione molto di più della nostra radice comune con gli ebrei e i musulmani, per i quali il nostro Dio Uno e Trino risulta del tutto inaccettabile. Gesù Cristo quindi io oggi lo vedo come un uomo, il più vero e significativo degli uomini che io conosco, il più alto e puro modello di umanità che posso apprezzare e imitare, e in questo senso come persona divina. Riconosco quindi che Gesù ha vissuto nella radicalità più estrema le potenzialità grandi e divine che sono sepolte in ogni uomo e che gli uomini attuano in misura diversa a seconda della propria libertà e grandezza interiore. In questo consiste la sua divinità. Questa manifestazione ed attuazione del divino che è in noi tutti e che è realmente accaduta in Gesù, non escludo per principio possa essere accaduta anche in altri grandi uomini del passato o che non possa accadere in altri uomini del presente e del futuro. Gesù come dio preesistente e poi incarnato sulla terra è una bella immagine simbolica e poetica ma che non ritengo vada presa come affermazione descrittiva di fatti così accaduti. In Gesù invece, come in ogni grande uomo autentico, vedo farsi reale, cioè farsi “carne”, la preesistente Sapienza di Dio. L’immagine dell’incarnazione del Verbo per me significa che Gesù nella sua vita è stato come la bontà e la immagine di Dio in persona.
- 3) La figura di Gesù è arrivata a noi attraverso la visione di fede delle prime comunità cristiane, che, con una pluralità di forme e di teologie lo hanno consegnato a noi nella Scrittura. Vanno compresi dunque nel linguaggio mitico e leggendario della Palestina del tempo gli episodi raccontati ad esempio rispetto alla sua infanzia, in modo particolare al concepimento verginale da parte di sua madre Maria. Infatti non si può ignorare che Gesù fu solo uno dei grandi personaggi del passato considerati eroici e divini, la cui nascita è stata raccontata in tal modo per evidenziare una derivazione diretta da Dio. Ci sono ormai studi molto seri e documentati a proposito (ad es. Il Vangelo del Natale, Ortensio da Spinetoli, Borla, 1996). Allo stesso modo io credo che occorra inquadrare nella cultura e nella letteratura di quel tempo gli episodi dei racconti di miracoli, la Resurrezione, l’Ascensione, la discesa agli inferi. A mio avviso se questi episodi li leggiamo come fatti di cronaca, avvenuti esattamente come descritti, allora ci allontaniamo dall’intenzione della Sacra Scrittura. La conoscenza della mitologia comparata delle religioni getta molta luce in questo campo e ci mostra che quelli che ci sembrano episodi unici nel mondo biblico hanno forti paralleli con i miti ricorrenti dell’Antico Vicino Oriente. Anche la figura di Maria, a mio avviso, va riportata interamente a ciò che il Vangelo dice di lei e i dogmi mariani dell’Immacolata Concezione e della sua Assunzione storica in cielo in corpo e anima, la sua maternità unica (il fatto cioè che Gesù non abbia avuto fratelli e sorelle), non possono essere considerati parte integrante di ciò che siamo tenuti a credere, in quanto esulano dal nucleo originario del Vangelo.
- 4) una concezione dei sacramenti come segni della comunità cristiana che vogliono fare memoria e celebrare nell’oggi la forza dell’amore di Dio e come momenti liturgici in cui confermiamo e rafforziamo la nostra scelta di seguire Gesù. Tutti i gesti sacramentali vanno visti dunque come gesti simbolici pregnanti e significativi per chi ha fede, non come atti magici. La mia attuale visione dell’eucaristia mi porta a credere che il pane, dopo la benedizione eucaristica, rimane pane, anche se, come avviene in ogni risignificazione simbolica viene a rappresentare in modo reale la realtà simboleggiata, e in questo caso la vita di Gesù donata come testimonianza dei valori supremi della libertà e della giustizia. Oggi insomma mi sento distante dalla identificazione quasi materiale esistente tra il pane e la carne di Cristo che ci è stata trasmessa ad esempio attraverso il riferimento agli episodi eucaristici di Lanciano e di Bolsena. Per me il pane benedetto o consacrato sono il corpo di Cristo così come la bandiera italiana è l’Italia o un fiore donato ad una persona amata è il simbolo reale di quell’amore stesso. Nella celebrazione eucaristica insomma il pane viene ri-significato attraverso il nostro memoriale della morte di Gesù e giunge a rappresentare la sua vita donata per amore. In questo senso riacquista una nuova “sostanza”.

La mia ricerca non si è estesa soltanto al campo concettuale e dottrinale, ma anche e soprattutto ad ambiti di tipo più strettamente disciplinari o pastorali. La vita della chiesa antica ci mostra che prassi diverse possono convivere in comunione.
In concreto:
- a) Sono aperto alla prassi delle seconde nozze, di antica origine, fatta propria sia dagli ortodossi che dai protestanti. Ci sono a mio avviso sufficienti fondamenti tratti sia dallo studio della bibbia che da quello della storia della Chiesa, per dire che Gesù non ha mai chiesto una indissolubilità assoluta del matrimonio così come la concepiamo noi e che in caso di “porneia” ammetteva la possibilità del ripudio, che era l’atto con cui ci si considerava liberi entrambi di accedere a nuove nozze. Anche Paolo si sentì autorizzato ad individuare una situazione in cui secondo lui si poteva essere liberi di passare a nuove nozze. In ogni caso oggi non riesco più a giustificare e difendere l’esistenza dei nostri processi canonici per ottenere la dichiarazione di nullità matrimoniale con le relative possibilità di errore umano con conseguenze così gravi per le vite delle persone. E’ lodevole l’impegno che la Chiesa mette per sottolineare l’importanza della fedeltà vista come grave impegno morale dei coniugi, e tutti dovrebbero muoversi nella stessa direzione. Tuttavia io credo che nel caso si venga abbandonati dall’altro non ci si debba sentire obbligati a solitudine sentimentale e sessuale, o impediti a vita a passare a nuove nozze. Inoltre credo che va data la possibilità di sanare la situazione e di” riparare” anche a chi ha colpevolmente causato il divorzio e ormai non è più in grado di ripristinare la prima unione. Anche se il suo errore è stato grande, la misericordia è sempre più grande.
- b) E’ evidente nel Nuovo Testamento che Gesù non ha mai obbligato nessuno a rimanere celibe e che anche la prima comunità cristiana non chiedeva ai presbiteri e ai vescovi di rinunciare al matrimonio. Il celibato nella Bibbia è visto indubbiamente come una grande vocazione alla quale tuttavia il sacerdozio non è legato né in modo obbligatorio né in modo preferenziale. La Bibbia ne parla come due vocazioni diverse, che Dio può donare anche distintamente e la comunità cristiana, che è serva e non sovrana della Parola, non può vietare ciò che la Bibbia chiaramente approva. Quindi non si dovrebbe negare il sacerdozio ad un uomo (o una donna) sposato. Nella 1Tm 3 si vede chiaramente che anticamente la nomina di qualcuno come vescovo avveniva dopo averne saggiate le qualità di buon padre di famiglia; solo così il candidato si mostrava degno di ricevere la responsabilità di guidare una comunità più grande. Il prete a mio avviso, oggi come allora, dovrebbe essere celibe o sposato: è una scelta da affidare al proprio discernimento vocazionale. D’altra parte questa è prassi antichissima accettata anche nelle comunità cattoliche di rito orientale, oltre che nelle altre chiese cristiane.
- c) Sono convinto che il ministero di guida e di presidenza della comunità cristiana spetti di diritto agli uomini quanto alle donne. Mi pare che da nessun passo del vangelo si possa evincere la volontà di Gesù di escludere delle persone in quanto donne dalla piena responsabilità nell’impegno di evangelizzazione, e che neanche si possa pensare che Gesù abbia voluto intenzionalmente istituire il sacerdozio nell’ultima cena e che in quella occasione abbia affidato agli apostoli, in quanto maschi, il compito di celebrare con lo spezzare del pane il gesto del suo donare la vita.. Mi pare più sensato pensare che glielo abbia affidato in quanto persone di fede disposte a seguirlo, e in questo senso quel compito può essere svolto benissimo anche dalle donne. Questo riconoscimento oggi è giustamente percepito come ancora più urgente visto che le donne di oggi sono preparate a svolgere con grande preparazione qualunque ruolo sociale.
- d) Sono convinto inoltre che la sessualità in genere vada vista ancora di più in tutta la sua potenzialità di esperienza liberante ed umanizzante. Certamente è giusto e lodevolissimo tutto l’impegno che la Chiesa cattolica mette affinché venga vissuta nell’amore e nella responsabilità. Anzi, purtroppo è rimasta quasi sola a proteggere la sessualità da tanta superficialità e mercificazione. Poste queste coordinate da offrire alla coscienza individuale, occorre, a mio avviso, liberare il campo dalle regole etiche che vogliono dire troppo in dettaglio ciò che le coppie possono o non possono fare: mi riferisco ai rapporti prematrimoniali, alla contraccezione. Ci possono essere situazioni in cui sono lecite e altre in cui possono essere illecite, senza che la illiceità possa essere decretata dalla regola morale generale in modo univoco. Non è sulle regole che bisogna insistere, per quanto esse siano animate da una sana intenzione di offrire orientamento, ma sulla formazione di coscienze adulte capaci di discernere secondo coscienza autonoma e responsabilità. Riguardo alle persone omosessuali penso che la comunità cattolica abbia nei loro confronti un grave debito di ascolto e di simpatia che finora non gli ha dato. Quanto a me, sto convincendomi che l’amore omosessuale meriti rispetto e un doveroso riconoscimeno sia ecclesiale che civile.

Ho esposto le convinzioni a cui sono giunto nel mio cammino di ricerca sottolineando solo i punti in cui mi sembra di divergere dall’attuale insegnamento ufficiale del Magistero della Chiesa cattolica, ma, come ho detto sopra, sento completamente miei tanti aneliti che il Magistero Cattolico sostiene, in particolare l’amore vicendevole, il primato del perdono, l’opzione preferenziale per gli ultimi, l’impegno per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato, l’amicizia ecumenica ed interreligiosa. Sarebbe auspicabile che nella Chiesa si ripristinasse interamente il pluralismo che caratterizzava i tempi dei suoi primi secoli, prima che, attraverso innanzitutto gli antichi concili, si cominciasse ad affermare il pensiero unico nella teologia e nella prassi ecclesiale. Io credo che anche oggi, come allora, si dovrebbe ridurre il nucleo di ciò che è essenziale e “obbligatorio” per dirsi cristiani cattolici, e riconoscere molto più spazio di libertà alle differenti teologie e alle differenti prassi o semplicemente all’opinabile. Sembra quasi che nel tempo ci si sia lasciati prendere dalla mania di allargare l’ambito del dogma obbligante, andando, a mio parere, sicuramente oltre il dovuto. La comunione dei cristiani si dovrebbe fondare sull’amore di Cristo più che sulla “verità ortodossa”, poiché solo la carità unisce mentre la verità, almeno quella concettuale, può dividere.

Voglio ancora ribadire che con questa lettera ho voluto essere onesto e chiaro con lei rispetto a quello che sono e che vivo adesso e non ho voluto presentare le mie attuali convinzioni come delle alternative verità assolute. Non voglio negare l’infallibilità del papa per affermare la mia. Vivere la comunione, per me, vuol dire anche condividere il proprio percorso interiore perché serva allo scambio e all’arricchimento comunitario. Intanto le confesso anche che non è l’elaborazione concettuale o dogmatica ad assorbire la gran parte delle mie energie e risorse vitali. Al contrario, i problemi e le dinamiche di vita più concrete mi occupano di più, e mi pare che stessero più a cuore anche a Gesù. L’intellettualismo fine a sé stesso non mi appartiene. Ciò che conta davvero nel vangelo non mi sembra l’ortodossia, ma l’ortoprassi, o la santità di vita, e in questo riconosco che sono appena un “principiante”.
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Questo è quanto ho maturato fino ad ora. Era giusto che, dopo anni di cammino lento e sofferto facessi i conti con il vescovo come rappresentante della Chiesa Cattolica istituzionale. Io sono, come tutti, una persona in cammino. A queste conclusioni sono arrivato fin qui. In futuro non so. Camminando s’apre cammino. Per ora mi sento molto a mio agio negli spazi ecumenici ed interreligiosi (di cui Eirene è una piccola testimonianza) perché sono ambienti in cui posso essere me stesso liberamente, senza imporre il mio punto di vista, ma mettendolo in gioco con quello degli altri, nella ricerca comune di ciò che ci unisce e possa servire la causa suprema della pace.



4 aprile 2007, mercoledì santo in amicitia Jesu Christi
Dino d’Aloia



Martedì, 07 agosto 2007