“ORA BASTA. QUESTA GERARCHIA È NICHILISTA”:
La filosofa Roberta de Monticelli lascia la chiesa

di Agenzia ADISTA

34627. ROMA-ADISTA. “Questo è un addio. A molti cari amici – in quanto cattolici”. Così la filosofa - e cristiana laica - Roberta De Monticelli ha dato l’annuncio di voler porre fine a “qualunque collaborazione che abbia diretta o indiretta relazione alla Chiesa cattolica italiana”. Lo ha fatto con un articolo pubblicato lo scorso 2 ottobre sul Foglio di Giuliano Ferrara, dopo aver letto le dichiarazioni rilasciate dal segretario della Cei uscente, mons. Giuseppe Betori, nel corso della conferenza stampa conclusiva del Consiglio permanente della Cei.

Rispondendo alle domande dei giornalisti sulle posizioni della Chiesa in merito ad una legge sul testamento biologico, Betori aveva affermato: “Preferisco non parlare di testamento biologico, ma di legislazione di fine vita, in quanto la parola ‘testamento biologico’ si colloca all’interno di quella comprensione che ritiene l’autodeterminazione in ordine alla propria morte a disposizione della persona umana”. Al contrario, per la Chiesa, “la vita e la morte non sono a disposizione di nessuno, neanche di sé stessi: noi preferiamo proteggere la vita e rendere degno il momento della fine della propria esistenza”. Betori aveva riconosciuto l’“opportunità”di una legislazione sul “fine vita”, nella direzione però – aveva specificato – “del ‘favor vitae’, della salvaguardia della vita, non della disponibilità della persona a mettere fine alla propria esistenza, secondo quel principio di autodeterminazione che alcuni vorrebbero prevalente rispetto al principio di indisponibilità della vita”.

Secondo De Monticelli, la posizione espressa da Betori “è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà”. “È possibile essere complici di questo nichilismo?”, domanda De Monticelli in chiusura del suo intervento. “Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia”. Di seguito il testo integrale dell’articolo pubblicato dal Foglio.

Questo è un addio. A molti cari amici - in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. È un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla Chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri - la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O, diciamo meglio, del nostro cristianesimo.

L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono “contenti nei pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici, l’eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d’Avila.

Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser detto in pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il gesto o la sua autrice abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai doloroso e bruciante. Basta.

La dichiarazione, riportata oggi su “Repubblica”, di mons. Betori, segretario uscente della Cei, e “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”, secondo la quale, per quanto riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata attenzione, ma “la decisione non deve spettare alla persona”, è davvero di quelle che non possono più essere né ignorate né, purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.
E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l’umiliazione del non esser più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con fierezza la propria dignità, anche per quando non si potrà più farlo. È la possibilità di questa scelta che carica di valore la scelta contraria, quella dell’umiltà e dell’abbandono in altre mani.
Ma siamo più chiari: quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant’Ago-stino ci insegna, è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita. Fallibile, e moralmente fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo rischio, ultimo giudice in materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa?

Attenzione: non stiamo parlando di diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per sostituirsi alla coscienza morale della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo di altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che garantiscono la libertà religiosa, politica, di opinione e di espressione.

Oppure ci sono questioni morali che non sono “di competenza” della coscienza di ciascuna persona? Quale autorità ultima è dunque “più ultima” di quella della coscienza? Quella dei medici? Quella di mons. Betori? Quella del papa?

E su cosa si fonda ogni autorità, se non sulla sua coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età morale, cioè al principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un’autorità morale sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti?
C’è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? “Non siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della Chiesa italiana. Ma si rende conto, monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? È possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia.

Roberta De Monticelli




L’AMAREZZA DEL MONSIGNORE, L’INVETTIVA DEL TEOLOGO: LE POLEMICHE SULL’ADDIO DI DE MONTICELLI



34628. ROMA-ADISTA. Il giorno dopo l’articolo pubblicato dal Foglio con cui Roberta De Monticelli ha dato il proprio “addio” alla Chiesa cattolica (v. notizia precedente), mons. Betori – le cui dichiarazioni erano state più volte citate nell’articolo come esempio di un “nichilismo” del quale non era più possibile essere complici – ha affidato la propria replica alle colonne del quotidiano della Cei Avvenire (3/10).

Sono “sinceramente amareggiato”, ha scritto il neovescovo di Firenze, “che la mia dichiarazione sia stata letta come ‘la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale’”. “Qui si sta costruendo un grande malinteso, legato a cosa significhi in questo contesto il ‘principio di autodeterminazione’: non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare. Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna”.

“Non possiamo confondere, insomma”, ha aggiunto mons. Betori, “la libertà della nostra coscienza con la legittimità delle nostre azioni. Il ‘principio di autodeterminazione’ non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa”. “La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta. Il criterio non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, che è Amore, ed è percepibile ad ogni indagine razionale come il fondamento della nostra stessa identità o natura”.

Ha domandato infine Betori: la passione della Chiesa per l’uomo - ispirata dal principio dell’amore - “sarebbe davvero ‘nichilismo’ come conclude l’articolo su Il Foglio? O forse nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine?”.

Dalle colonne del Corriere della Sera (6/10) ha risposto a mons. Betori il teologo Vito Mancuso (autore del recente bestseller “L’anima e il suo destino”). Betori, ha scritto Mancuso, distingue “la libertà di coscienza (che approva) dal principio di autodeterminazione (che deplora). Non riuscendo a cogliere la pertinenza di tale distinzione, io chiedo in che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di autodeterminazione. Che cosa se ne fa un uomo di una coscienza libera a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando su se stesso? Di se stessi infatti si tratta quando si parla di testamento biologico, della propria vita e della propria morte, non di quella di altri”.  Il riconoscimento del “primato oggettivo della verità”, di cui la Chiesa si fa paladina, non può sopprimere – ha spiegato Mancuso - “la libertà di coscienza, la quale può persino giungere a rifiutare la verità”.  Da ciò ne deriva che “l’affermazione del primato della vita come dono non può esercitarsi a scapito di chi, tale dono, non lo riconosce o non lo vuole più. Se è un dono, dono deve rimanere, e non trasformarsi in un giogo. Nel Vangelo è lampante la libertà di cui si gode: i figli se ne possono andare da casa, le pecore allontanarsi dal gregge, persino le monete si possono perdere. Dio rispetta l’autodeterminazione dei singoli. Se così non fosse, non sarebbe la fede ciò che ci lega a lui, ma l’evidenza che non ammette deviazioni”. “Insomma - ha aggiunto il teologo - a me pare che sia molto più evangelica (oltre che molto più moderna) l’identifica-zione tra libertà di coscienza e principio di autodeterminazione sostenuta da Roberta de Monticelli, che non la loro distinzione sostenuta da monsignor Betori”. (e. c.)

Articolo tratto da
ADISTA

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Martedì, 14 ottobre 2008