CONVERGENZE….

di Emanuele Cosmi

Riflessioni su alcuni disagi ecclesiali


Ringraziamo Emanuele Cosmi, di San Giovanni in persiceto (Bo), per averci inviato questa sua riflessione pubblicato su un bollettino parrochiale locale.


Se ci ponessero la fatidica domanda: “siete appagati dalla vostra vita di fede?”, onestamente faticheremmo a formulare una risposta esaustiva, o per lo meno impiegheremmo un certo tempo per esprimere con esattezza i nostri pensieri e sentimenti. È normale tanta titubanza? Forse, da un lato, siamo tutti afflitti da una certa fondamentale incapacità di apprezzare con semplicità e stupore ciò che ci circonda, ma è possibile che il nostro disagio sia in buona parte espressione di un’aria poco salubre che si respira tanto nelle nostre realtà sociali come in quelle ecclesiali. Tuttavia, se da un punto di vista “civile” è certamente facile individuare le stonature, le distorsioni e i problemi della società in cui viviamo, risulta non altrettanto semplice l’operazione di discernimento all’interno delle nostre parrocchie quali espressione di sensibilità ed orientamenti ecclesiali universali.
Diciamo che tale operazione di analisi critica risulta poco agevole: in primo luogo per un certo timore reverenziale che tutti più o meno abbiamo nei confronti della nostra madre chiesa che spesso, peraltro, identifichiamo in maniera imprecisa con la sola parte clericale di essa; in secondo luogo perché la chiesa sta di fatto attraversando una fase di profonda revisione - diremmo quasi “istituzionale” - in seguito alle intuizioni profetiche scaturite dal Concilio Vaticano II, e pertanto, come in ogni periodo di transizione, ogni assetto risulta in realtà poco definitivo e criticabile. Tant’è vero che all’interno dell’unica Chiesa oggi è possibile riconoscere sensibilità e modalità spesso antitetiche nel professare lo stesso Dio e nell’attuare l’unica Fede all’interno delle singole realtà diocesane e parrocchiali; ma come si può giungere ad esiti così diversi pur conservando un riferimento unico ed universale? Vedremo che ciò deriva in sostanza dalla misura in cui la Parola è creduta - dal singolo come dalla comunità - realmente viva e vivificante, e pertanto fattivamente trasformante e trasfigurante.
Se consideriamo ad esempio la Parrocchia di San Giovanni Battista in Persiceto in cui viviamo, è innegabile che ad un primo approccio emerga una comunità viva e frizzante, sia pure ovviamente al di là dei suoi propri limiti: lo si deduce innanzitutto dalle numerose iniziative che la caratterizzano e che continuano tutt’oggi a crescere, lo testimoniano poi la passione contagiosa di quanti risultano coinvolti ed impegnati in esse, lo si suppone infine da una certo fermento di riflessione teologico-intellettuale che, sulla base di alcuni stimoli diocesani, si sta promuovendo. Eppure ci sembra anche la nostra Parrocchia esprima quella intima contraddizione che contraddistingue i tempi presenti. Alcune recenti esperienze ci hanno dunque stimolato ad analizzare le cause e le modalità espressive di questo vero e proprio “travaglio” ecclesiale, giungendo a delineare tre principali problematiche, ovvero tre livelli di corto-circuito spirituali che introducono vere e proprie deviazioni costitutive all’interno delle nostre comunità cristiane.
La prima problematica potrebbe essere definita come “sindrome aziendale”: si tratta di un’interferenza nella dimensione spirituale da parte di un modello gestionale che si ispira, nelle sue linee fondamentali, a principi squisitamente capitalistici: l’esperienza di fede della persona, che fiorisce necessariamente in una precisa realtà comunitaria (parrocchia) e locale (diocesi) e che fondamentalmente è un rapporto di relazione e di conoscenza con Dio e con i fratelli, viene fagocitata da un apparato di fatto a struttura verticale, preorganizzato su assiomi e criteri che intendono garantirne un funzionamento fluido e tranquillo, e assicurarne un certo livello di “profitto spirituale”: la distorsione risulta dal fatto che un modello gestionale, sia pure utile in una certa misura, diventa a tutti gli effetti criterio di riferimento e di valutazione dell’efficacia di una pastorale: "Sono cristiano, ma non sono per tutte le stagioni. Sono prete, ma non professionista del sacro. Sono credente, ma non difensore d’ufficio di Dio, né della mia ditta, la chiesa..." [1]; Sono convinto che l’umanità esiste solo al plurale: quando pretendiamo di possedere la verità cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione. Io sono credente: credo che c’è un Dio ma non ho la pretesa di possederlo, né attraverso Gesù, né attraverso i dogmi della mia fede. Dio non si possiede, la verità non si possiede ed io ho bisogno della verità degli altri [2]. Fenomeno frequente e sintomatico di questo tipo di distorsione è il proliferare, spesso per iniziativa del singolo o di un gruppo comunque ristretto (siamo quindi ancora lontani da un sentire realmente comunitario che scaturisce da un cammino armonico e unitario) di iniziative e attività sempre più numerose e diversificate, le quali vengono automaticamente istituzionalizzate dall’apparato traducendosi spesso in problemi e appesantimenti gestionali per il singolo e per la comunità. Ne deriva pertanto che l’aspetto caratterizzante l’esperienza di fede - che è la relazione - viene di fatto sacrificata all’altare dell’azione. Termometro indicatore della problematica in oggetto è la risposta che daremmo alle seguenti domande: “Quali e quante attività potrebbero venire congelate, magari temporaneamente, senza tradire la natura della Parrocchia e le sue espressioni vitali?”. “Quante sere settimanali ci vedono impegnati in iniziative direttamente o indirettamente legate alla parrocchia-diocesi?”. “A quale livello di profondità conosciamo le situazioni che ci circondano, facendocene carico come comunità?”. “Quanto tempo dedichiamo al rapporto, al dialogo, al confronto?”. Già da un primo livello di analisi emerge quindi la sostanziale necessità di riscoprire all’interno delle nostre parrocchie una dimensione più umana e meno manageriale, forse meno appariscente ed entusiasmante ma senz’altro più profonda e genuina, di coltivare rapporti interpersonali nella pazienza e nel rispetto assoluto delle reciproche coscienze, di sviluppare quella
tolleranza e quell’apertura mentale che, tra l’altro, stanno alla base delle grandi sfide culturali e sociali del nostro tempo. Allargando il campo d’indagine all’intera chiesa ecumenica può essere risconosciuta la stessa tendenza a verticalizzare le strutture in modo aziendale: alcuni “addetti ai lavori” non esitano infatti a percepire un centralismo piuttosto marcato nella gestione delle giovani chiese d’Africa e d’America Latina da parte della Chiesa madre d’Italia. Ciò tradisce di fatto di quella “inculturazione della fede”, cioè la possibilità per ogni chiesa locale di esprimere la fede in profonda assonanza con la propria cultura, che lo stesso Concilio Vaticano II propone e promuove come strumento efficace di missione. Ma perché l’inculturazione è un’intuizione ecclesiale tanto importante? Lo si percepisce in tutta la sua evidenza proprio in rapporto al confronto tra le grandi religioni, in quanto: “se la Chiesa dimostra di poter davvero inculturare il Vangelo e la gente può riesprimerlo sentendosi in profonda sintonia con gli aspetti belli della propria cultura, questa è la miglior risposta all’islam, che fa piazza pulita della cultura africana imponendo l’arabo e i costumi arabi.” [3]; un approccio di inculturazione potrebbe d’altronde ispirare anche le pastorali di cosiddetta “Nuova Evangelizzazione” che la C.E.I. sta promuovendo nelle Diocesi come nuovo impulso missionario nelle terre di casa nostra.
La seconda problematica che affatica le nostre comunità è un equivoco di fondo, un fraintendimento sostanziale che sta alla base dell’immagine stessa di Chiesa e che potremmo chiamare “squilibrio vocazionale”: esiste infatti un forte sbilanciamento all’interno di tutta la pastorale e la vita parrocchiale verso il modello monastico-sacerdotale a scapito di quello laicale o, più propriamente, familiare. Se infatti il sacerdote è colui che solo può celebrare l’Eucaristia (cioè Cristo cibo che si incarna nella Messa e si comunica ai fedeli), gli sposi sono coloro che soli possono celebrare l’Amore (cioè Cristo amore che si incarna nel contesto quotidiano e si diffonde attorno a loro). Del resto le attività per le famiglie che spesso già si svolgono nelle parrocchie non sono in grado di incidere profondamente nella realtà costitutiva delle nostre comunità, le quali “sono chiamate a una grande conversione pastorale, che non va confusa con una semplice riorganizzazione operativa: quanto siamo convinti infatti che dalla “rivelazione” nuziale può nascere davvero una nuova pastorale?” [4]. Si tratta di una vera e propria deviazione del paradigma originario della comunione trinitaria e della sua nuzialità - come tratto fondamentale del rapporto tra Dio e umanità, tra Cristo e Chiesa - che in realtà risulta profondamente correlata alla distorsione precedentemente analizzata: se infatti “chiesa” è troppo spesso sinonimo di “clero”, un modello aziendale verticale è certo più consono a tale tipo di struttura. Frutto e termometro indicatore di questa seconda problematica è l’impronta pastorale che tendono ad avere più o meno tutte le attività proposte alle nostre comunità: la copiosità delle iniziative parrocchiali porta ad una separazione di fatto della coppia perché non è materialmente possibile parteciparvi insieme; le attività vengono organizzate per lo più senza confronto con i ritmi e le esigenze domestiche; le risorse che vengono chieste alle famiglie in termini di tempo ed energie dimostrano spesso una profonda ignoranza delle necessità fisiologiche e delle fasi evolutive di crescita della coppia; la messa domenicale non permette in genere una partecipazione serena della coppia che ha bimbi piccoli, anche perché risulta pressochè inesistente ogni tipo di catechesi dei bimbi 0-6 anni [5]; anche l’istituzione dei ministeri istituiti risulta essere piuttosto conformata ad un modello celibe-sacerdotale (si pensi ad esempio al percorso di formazione teologica in Seminario che si richiede al candidato). Tuttavia l’aspetto curioso ed in certo qual modo inquietante di questa tendenza è il fatto che essa risulta alimentata dallo stesso laicato, come se la comunità percepisse come pericolosa quella libertà e quella creatività dello Spirito che le sono donate nella Fede trasmessa e nei Sacramenti, preferendo piuttosto trovare sicurezza e conforto in talune strutture e categorie comportamentali già costituite e, per così dire, garantite da un imprimatur sicuro. La tesi di fondo di alcune esperienze [11] che invece accettano la sfida affascinante di un Popolo di Dio che vive e che cresce è fondamentalmente questa: una Chiesa che s’interroga sul livello di risposta al disegno originario di Dio è una chiesa che porta frutto spirituale a tutti, ministri e laici, sacerdoti e famiglie. La famiglia può infatti aiutare la parrocchia ad essere meno “agenzia specializzata” in servizi religiosi e più comunità viva, calda, accogliente; del resto se l’azione educativa e formativa del pastore è più concettuale, parlata, intellettuale, quella familiare può essere più vissuta ed incarnata. La famiglia inoltre ha più possibilità di arricchire la chiesa con i doni dell’impegno sociale e politico e dell’incontro e dell’accoglienza dei “lontani”; la chiesa a sua volta può imparare dalla famiglia una maggiore disponibilità a mettersi in discussione nei propri stili di vita e di comunicazione, assieme ad una più attenta capacità di cogliere e valorizzare i semi di cristianità presenti in alcune realtà extra ecclesiali. Ancora, freddezza e individualismo rischiano di affaticare spesso anche i nostri preti: il vivere più a contatto con le famiglie può aiutarli a rilucidare la loro vocazione di pastori capaci di paternità e maternità, pienamente umani anche nei sentimenti e capaci di comunicazione non solo intellettiva ma anche affettiva: …ho la sensazione che noi preti abbiamo abbandonato uno dei nostri compiti fondamentali, che è l’incontro con l’altro, l’ascolto, la capacità di accoglierlo così com’è, di perdonarlo; abbiamo lasciato questo agli psichiatri, agli psicologi…[3]. Dal secondo livello di analisi emerge quindi la necessità di una revisione profonda e sostanziale degli attuali assetti ed equilibri ecclesiali: da una pastorale PER la famiglia ad una pastorale DELLA famiglia, intendendo con questo slogan che ci è chiesta una conversione culturale profonda e ontologica, passando dal riferirsi alla famiglia come problema da gestire, a pensarla e desiderarla come risorsa, soggetto e criterio.
La terza problematica, connessa evidentemente con le prime due, potrebbe essere chiamata “schizofrenia sociale”. Qui si tocca davvero l’essenza propria della Chiesa, la cui vocazione è operare con Cristo nella
trasformazione dell’umanità. Questa trasformazione ha tuttavia due dimensioni: quella personale e quella sociale; nella storia della Chiesa fino ad oggi si è prestata molta attenzione alla dimensione personale: sembra giunto il momento di dedicarsi ora con le stesse energie e risorse alla trasformazione sociale. È evidente la frattura interiore che ereditiamo da un modello ecclesiale affetto da una profonda dissociazione, che oggi manifesta tutto il suo limite tanto nel nostro contesto sociale, quanto più nel sud del mondo vittima dei forti squilibri planetari. E così siamo ormai abituati a riferirci all’insegnamento della Chiesa come a quella teologia morale, per lo più sessuale, che è stata elaborata con estremo rigore nel corso dei secoli, ma nulla o quasi sappiamo - né siamo interessati ad approfondire e tanto meno a mettere in prassi - su quale sia l’etica cristiana dell’economia, o della giustizia sociale, oppure dell’ambiente, o ancora della politica! Non si può annunciare la Buona Novella rimanendo dentro situazioni assurde come Korogocho (bidonville all’interno della discarica di Nairobi n.d.r.) senza porre il problema del sistema politico, economico, strutturale entro cui ipoveri sono costretti a vivere; annunciare la Parola e scardinare il sistema è tutt’uno [3]. Restano purtroppo pochi dubbi: dietro alla preoccupazione che la Chiesa si conservi libera e pura da ogni strumentalizzazione terrena per rivolgersi incondizionata alle “cose di lassù”, si nasconde una profonda e ancestrale paura della radicalità e della potenzialità che il messaggio evangelico possiede. Con quale armonia ci preoccupiamo del risveglio della fede [12] o di comunicare il Vangelo in un mondo che cambia [13], quando un sostanziale scetticismo nei confronti del Vangelo ci impedisce di ricucire dentro di noi quello strappo ontologico tra fede e vita? Quali ambiti della nostra giornata, della nostra settimana sono realmente trasformati e illuminati dall’Eucaristia che celebriamo? Domande pesanti come macigni, perché sappiamo bene che prendere sul serio il messaggio evangelico significa incamminarsi su un sentiero scomodo e disagevole, significa prendere coscienza della propria complicità all’interno del “sistema” che è quel “mondo” e quelle “tenebre” di cui parla l’Evangelista Giovanni, significa arginare la tendenza naturale delle società umane a strutturarsi nella disuguaglianza e nel consumismo, significa giungere alla conclusione che la Chiesa, oltre ad essere per i poveri, deve essere lei stessa povera.
E così ci accorgeremmo che già oggi molti lavorano - fuori e dentro l’ovile del regno - per una proposta sociale alternativa e possibile, dove:
· l’economia è ispirata a criteri di “decrescita conviviale pacifica e sostenibile” [6] ed è fondata “sulla
famiglia anziché sul profitto” [7];
· la politica ritorna ad essere patrimonio di una “società civile organizzata e orientata” [8] capace di
coordinarsi autonomamente in una rete d’informazione capillare [9];
· l’esperienza di fede e la coscienza civile riscoprono obiettivi comuni [10];
· l’Amministrazione della cosa pubblica diventa partecipata e condivisa dall’uomo-cittadino [7].
E ci accorgeremmo anche che le esperienze di quanti stanno costruendo silenziosamente questo modello alternativo presentano tutte similitudini che appaiono perfino impressionanti: tutte cioè mostrano - in merito a motivazioni, obiettivi e metodologie - profonde e rassicuranti convergenze.

Note
[I] d. Paolo Farinella in “Siamo sempre isolati...”.
[2] da un discorso a Marsiglia del Vescovo di Orano.
[3] Alessandro Zanotelli in “Korogocho alla scuola dei poveri”.
[4] da: Progetto Parrocchia-Famiglia, atti del convegno, Cagliari 2000.
[5] si veda al proposito: catechesi sperimentale del “Buon Pastore”.
[6] si veda al proposito: Mauro Bonaiuti in “Sobrietà e Decrescita”, convegno, Bologna 26/11/2004; si veda anche:
http://www.sbilanciamoci.org, rivista “Altraeconomia”.
[7] si veda al proposito: S. Zamagni in “Quale cittadinanza per la famiglia, Bologna 20/11/2004.
[8] si veda al proposito: S. Zamagni in “I Cristiani e la Politica”, Parrocchia della Dozza, 20/01/2005.
[9] vedi http://www.retelilliput.org.
[10] vedi “I Cristiani e la Politica, riflessioni ed esperienze, parrocchia della Dozza”.
[II] come il “Progetto Parrocchia-Famiglia”, oppure l’esperienza della Comunità di Caresto.
[12] vedi la Nota Pastorale CEI “ Orientamenti per il risveglio della fede e il completamento dell’iniziazione cristiana in età adulta”. [13] vedi la Nota Pastorale CEI “ Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”.



Giovedì, 19 luglio 2007