Un dibattito fra persone che amano il dialogo
Le chiese lavorino per riconoscersi e non per escludersi
da Riforma n. 31 del 3 agosto 2007
Un incontro organizzato dalla redazione a Torino per discutere sulle conseguenze del Documento vaticano sulla natura della Chiesa e sui rapporti ecumenici
Un dibattito fra persone che amano il dialogo Quindici persone intorno a tavolo della redazione di Riforma – L’Eco delle valli valdesi. Una parte di loro cattolici: don Toni Revelli, suor Chiara Corbella, Enrico Peyretti, Ezio Susella della Rocca. Gli altri evangelici, valdesi e battisti: Didi Saccomani, Enrico Paschetto, Marco Piovano, Eugenia Ferreri, Alga Barbacini, Giuseppe Molinari, Marco Bouchard, Piero Imazio, Angelo Brunero, Stefano D’Amore. Ogni membro del gruppo condivide l’interesse, che a volte si trasforma in passione, per l’ecumenismo, il dialogo interreligioso. Siamo di fronte a persone profondamente impegnate nella vita della propria chiesa. Mentre ci disponiamo intorno al tavolo aleggia una doppia bolla di calore: la prima per il caldo umido e afoso di fine luglio che opprime Torino, la seconda per le recenti prese di posizione vaticana sulla questione ecclesiologica. Questa seconda «bolla» sta alla base del nostro incontro. «Alcuni di noi s’erano illusi – noto nell’introduzione al dibattito che modero – che l’espressione cattolica tesa ad affermare l’unicità della chiesa di Cristo rilanciata dalla Do-minus Jesus scritta nel 2000 dal cardinale Joseph Ratzinger fosse nel frattempo impallidita, o comunque non avesse un carattere così esclusivo, centrale. Ma oggi, di fronte alle nette precisazioni del documento della Congregazione per la Dottrina della fede dello scorso mese, intitolato Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla chiesa, ogni possibilità di dubbio è fugata. La vera chiesa di Cristo sussiste esclusivamente nella chiesa cattolica romana. E, dulcis in fundo, alla domanda: «Perché i testi del Concilio e del Magistero non attribuiscono il titolo di “Chiesa” alle Comunità cristiane nate dalla Riforma del XVI secolo?», la risposta ufficiale sottolinea i motivi per i quali esse non possono, secondo la dottrina cattolica, essere chiamate «Chiese» in senso proprio. La chiesa cattolica basta quindi a se stessa. Non si accontenta di definirsi come depositaria esclusiva della verità. Ma vuole definire, e quindi giudicare, in relazione a se stessa, le altre realtà ecclesiologiche presenti nell’ecumene cristiana. Di fronte a una così netta chiusura non sarebbe il caso di esprimere, in sede ecumenica, una protesta che esprima la forte delusione di tanti credenti che non accettano più questa invasione di campo? Non è forse arrivata l’ora d’inaugurare, in modo netto, una moratoria delle attività ecumeniche? A un mese esatto che ci separa dall’appuntamento ecumenico di Sibiu per la Terza Assemblea ecumenica europea questo documento vaticano spegne l’entusiasmo residuo dei precedenti appuntamenti ecumenici europei di Basilea (1989) e Graz (1997). Oppure no, paradossalmente, il documento vaticano con la sua rigidità potrebbe rilanciare il lavoro ecumenico? Su questi aspetti i pareri si dividono tra quelli che vogliono manifestare il loro sconcerto attraverso una radicale azione di protesta e quelli che, proprio perché tutto è diventato più difficile, sostengono che non bisogna abdicare dal compito del dialogo e del confronto ecumenico anche a livello ufficiale, perché solo insistendo nel dialogo la situazione potrà modificarsi. Ritirarsi sull’Aventino non servirebbe a sciogliere i nodi. E tra questi ultimi il nodo più consistente, una volta di più, è quello ecclesiologico. Ripercorriamo alcuni passaggi degli interventi che Riforma ha registrato nel corso del dibattito che ha promosso, aggiungendovi inoltre un commento personale a pag. 9. Abbiamo volutamente mantenuto l’immediatezza del linguaggio parlato. (g.p.) Un incontro organizzato dalla redazione a Torino per discutere sulle conseguenze del Documento vaticano sulla natura della Chiesa e sui rapporti ecumenici Le chiese lavorino per riconoscersi e non per escludersi Si affiancano trasversalmente atteggiamenti diversi in un singolare drappello di evangelici e cattolici da sempre disponibili al confronto: brucia l’atteggiamento esclusivista, ed è possibile anche ipotizzare dei gesti «di rottura» nei confronti di un ecumenismo di maniera; ma resta la volontà di dialogare con franchezza con fratelli e sorelle animati dalla fede in Gesù Cristo E. PASCHETTO: Nelle varie reazioni che ho ascoltato in questi giorni, segnalo quella di Georges Lemopoulos, vicesegretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese con sede a Ginevra, che affer-ma:«Ogni chiesa è la chiesa cattolica (universale) e non semplicemente una parte di essa. Ogni chiesa è la chiesa cattolica, ma non nella sua interezza. Ogni chiesa realizza la propria cattolicità quando è in comunione con le altre chiese»; e segnalo anche la reazione del decano della Chiesa luterana in Italia, pastore Holger Milkau, che ha chiaramente detto: «L’auto-consapevolezza di essere chiesa per fortuna non dipende dal placet del papa, ma solo dallo Spirito Santo, dalla grazia di Dio e dall’amore di Cristo, che ha detto: “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro”». Quest’ultimo è il punto dal quale noi evangelici partiamo. La stessa successione apostolica è qualcosa che viene dopo, la si scoprirà nel terzo, quarto secolo dopo Cristo. D. SACCOMANI: Io non escludo che ci sia qualche protestante contento di questa nuova situazione; che oggi possa dire: «Avete visto, voi che amate l’ecumenismo, dove si va a finire?». E. PASCHETTO: Mi sembra che in qualche modo eravamo arrivati faticosamente, tra cattolici e protestanti, all’idea di riconoscersi reciprocamente. A noi il papa non sta bene, ma se a voi cattolici sta bene..., per carità tenetevelo pure, ma almeno consideriamoci in modo paritario. L’ambiguità del termine utilizzato – che la chiesa di Cristo «sussiste» nella sola chiesa cattolica – mi fa venire in mente un po’ la discussione tra Lutero e Zwingli sulla Santa cena, sul termine est che andrebbe tra dotto con significat. Ma nel caso cattolico, il subsistit, viene oggi precisato che la chiesa di Cristo sussiste esclusivamente (così nel testo!) nella E. PEYRETTI: Il verbo «sussiste» non è escludente. Come dire: qui c’è la chiesa di Cristo. Ma con l’ulteriore recente precisazione rafforzata dall’avverbio «esclusivamente» la situazione si è definitivamente chiarita. Occorre prendere atto di questa chiarezza. E. FERRERI: Sono poco interessata al giudizio del papa. Non credo che noi dobbiamo far dipendere dal pontefice quello che noi ci sentiamo di essere. Noi sappiamo di essere una chiesa perché da noi si predica l’evangelo, si amministrano i sacramenti. È vero che siamo pochi, ma quei pochi che frequentano sono credenti autentici. Sono più interessata a conoscere quale sia oggi l’orientamento degli altri cattolici, in particolare di quelli che fanno ecumenismo da tanto tempo, vorrei chiedere loro: vi sentite di portare avanti il discorso ecumenico oppure, in forza di questo decreto, vi sentite bloccati nei nostri confronti? Per noi la dichiarazione su chi sia la vera e unica chiesa non è bloccante. Del resto tutta questa importanza al papa siamo soprattutto noi in Italia a darla. Già in Inghilterra del papa non si parla quasi mai. Per non dire della vicina Francia. Mi chiedo a volte: perché qui in Italia dobbiamo vivere questa sindrome di dipendenza dal papa? Egli non è padrone dei nostri destini e tantomeno può dirci: voi non siete una vera chiesa! Non riuscirei mai pensare al papa come rappresentante di Cristo. Soprattutto quando lo vedo, e tutti volenti o nolenti lo vediamo spesso, sfilare con pizzi, gemme, il camauro e tutti gli altri paramenti con al seguito la sua corte maschile. M. PIOVANO: Questo documento rappresenta un ritorno all’antico. Quasi a voler dire: voi protestanti, se volete essere veramente chiesa, dovete ritornare nell’ovile romano. Posso capire che il papa dica che la sua chiesa è l’unica vera chiesa di Cristo. Una sorta di autocertificazione. Ma ciò che è inaccettabile da parte sua è la squalifica nei confronti di chi sta dialogando con te. Con quale credibilità la chiesa cattolica con una mano firma la Carta ecumenica e con l’altra firma un atto di squalifica dei suoi interlocutori? Mi sembra un atteggiamento antievangelico. D. SACCOMANI: Se facciamo dell’ecumenismo non è per essere pro o contro il papa, ma è perché siamo stati invitati a farlo da Dio stesso. I rapporti profondi che intratteniamo con fratelli e sorelle cattoliche nell’ambito ecumenico a volte sono più forti di quelli che intratteniamo con i nostri stessi membri di chiesa. Il giudizio del papa non mi riguarda. Al proposito mi è tornato alla mente quel passo di Matteo (20, 20 sgg.) dove la madre di Giacomo e Giovanni chiede a Gesù di far sedere nel regno i suoi figli alla destra e alla sinistra del Signore. Voleva accaparrare per loro il posto migliore. È la logica della raccomandazione. Meno male che il regno di Dio è così grande che ci sarà posto per tutti e non solo per i primi della classe. Pretendere il primato qui su questa terra stabilendolo in forza di un preteso potere spirituale sacro superiore, come il trasformare il pane nel corpo mistico di Cristo, non mi convince. E. PASCHETTO: Sarei tentato di dire: non partecipiamo alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani perché questa è organizzata dai vertici delle chiese. Abbiamo sempre insistito sull’unità dei cristiani, non abbiamo mai parlato di unità delle chiese, anche se spesso si sente dire: «che bello, adesso facciamo l’unione delle chiese!». L’equivoco è duro a morire. Tocca a noi chiarire che un conto sono le chiese, un altro sono i cristiani. Sul piano invece dei rapporti ecumenici locali, in particolare là dove chiese evangeliche e cattoliche organizzano, nel corso dell’anno, studi biblici, occorre continuare a lavorare. Penso in particolare agli incontri, sovente molto ben preparati e partecipati, intorno alla Parola di Dio scavata e pregata. Questo tipo di ecumenismo di base va certamente proseguito anche perché racchiude una serie importante di rapporti umani spesso splendidi. Il coinvolgimento delle gerarchie, anche alla luce del recente documento vaticano che afferma che la chiesa di Cristo sussiste esclusivamente nella chiesa romana, rende tutto terribilmente difficile. Io penso che almeno la Settimana di preghiera ecumenica occorrerà disertarla. Oggi come oggi non mi sento più di parteciparvi, a meno che si chiariscano alcune questioni centrali di ordine ecclesiologico. E. PEYRETTI: Vivo in una piccola comunità cattolica con due preti operai, non è una vera comunità di base. Vivo in modo marginale, critico tante cose dell’istituzione ecclesiale, ma non ho motivo di rinnegare la chiesa cattolica nella quale sono nato. Ci sto dentro con questa libertà. Con una sincerità critica. Esiste un popolo ecumenico, esiste una chiesa ecumenica. Se le cose stanno così insistiamo su questo aspetto. Anche nella dimensione cattolica, ovvero universale. La chiesa di tutti i seguaci di Cristo sussiste al di là di tutte le definizioni dei concili, papi. Tuttavia il problema esiste, nel senso che se io non mi sento preso sul serio dal mio interlocutore c’è qualcosa che non funziona. La mia prima reazione al documento vaticano è stata quella di sentirmi turbato e umiliato. Chiedo perdono ai miei fratelli e sorelle protestanti per questa offesa che è stata espressa dalla mia chiesa nei confronti del loro senso di vivere la chiesa. Sono persuaso che come cattolici dobbiamo chiedervi scusa perché è come se vi fosse stato detto: tu esci dalla stanza! Ma Gesù ha detto che dove due o tre sono riuniti nel suo nome e cercano di vivere la loro fede secondo le sue proposte, tutti quelli sono la chiesa. Mi piace quello che a questo proposito scrive Raniero la Valle sul prossimo numero del periodico Rocca (rocca@cittadel-la.org), in particolare là dove afferma che per far coincidere l’«è» con il «sussiste» la Congregazione per la dottrina della fede si appella al Concilio, ma non all’aula, bensì al Segretariato per l’unità dei cristiani che esaminava gli emendamenti, il quale cercava di tranquillizzare i Padri che volevano riaffermare l’identità pura e semplice tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, ma nello stesso tempo ne respingeva fermamente gli emendamenti. Paradossalmente la Congregazione per la Dottrina della fede indebolisce il termine «sussiste», perché lo storicizza, dice che la sussistenza sarebbe la «perenne continuità storica della Chiesa», mentre il Concilio la intendeva in modo sostanziale, di una pienezza di essere sebbene non esclusiva. Io credo che dobbiamo lavorare nella direzione di riconoscersi tra chiese e non disconoscersi, non escludere ma includere. Dobbiamo passare dal micro al macroecumenismo. Ragionare in termini di una chiesa di chiese non escludente; non solo, ma dobbiamo anche porci il problema del dialogo con le altre religioni. Dobbiamo riconoscere lo spirito di Dio nella ricerca umana. Nella quarta risposta del documento c’è una particolare insistenza sul sacerdozio. Io sono stato prete per dieci anni e quando sono tornato allo stato laico ho precisato che intendevo lasciare quella situazione di celibato che avevo accettato come condizione e non come vocazione, anche perché non intendevo riconoscere il carattere sacro del sacerdozio. Il Nuovo Testamento utilizza la parola sacerdote per Gesù e per l’intero popolo dei credenti: per i ministri utilizza termini presi a prestito dall’amministrazione civile, laica: diacono, presbitero, episcopo… La risposta del documento afferma che la chiesa vera è la dove c’è il potere sacro. E qui sta il nocciolo della questione. Il potere che alcuni hanno, in forza del quale vengono appunto chiamati sacerdoti; ma il Concilio aveva lasciato da parte il termine sacerdote e aveva ripescato la parola presbitero («prete» è contrazione del termine presbitero, che è l’anziano della comunità che ha una funzione a termine): ora invece assistiamo al ritorno del termine sacerdote. Io credo che dobbiamo impegnarci insieme in questo servizio di vita all’umanità: la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Il programma delle assemblee ecumeniche europee di Basilea e Graz rimane attuale. Bisogna praticare l’intercomunione. Mi riprometto di venire, ogni tanto, al tempio valdese per condividere la prima domenica del mese la santa cena. Per dire: qui c’è Gesù Cristo, la sua Parola; bisogna offrire delle dimostrazioni concrete. Bisogna pregare insieme e operare per la giustizia. E queste cose si fanno. Non dobbiamo aspettare delle autorizzazioni ufficiali. E. SUSELLA DELLA ROCCA: Come cattolico sono imbarazzato perché debbo riconoscere nel pontefice romano il capo della chiesa. E come cattolico non posso mettere in discussione ciò che il papa afferma in un documento ufficiale. Se condivido attività ecumeniche di comunità ecclesiali (non chiesa!) allora automaticamente mi pongo fuori della chiesa cattolica. Questo mio imbarazzo è l’ultimo di una lunga serie e raggiunge ormai l’apice. Penso alla presa di posizione contraria alle coppie di fatto, o a quelle sulla fecondazione artificiale. In Italia il cristiano è sinonimo di cattolico, le posizioni di altre realtà cristiane non hanno spazio. Io dico che chi è cattolico apostolico romano, se è onesto con se stesso, deve accettare le direttive del papa. E chi non si riconosce in certe posizioni deve riflettere se possa ancora definirsi cattolico nel senso ufficiale del termine. Oggi avverto un doppio disagio: nei confronti di alcune prese di posizione ufficiale della mia chiesa e nei confronti degli altri cristiani che non vengono considerati sullo stesso piano. Sono in contatto con cattolici che oggi sono contenti che il papa abbia, in qualche modo, ripristinato la messa in latino e abbia posto dei paletti per condizionare le espressioni ecumeniche. Oggi io mi sento cristiano, battezzato nel nome di Cristo. E questo mi basta. T. REVELLI: Parto dall’affermazione del patriarca Smolensk di Leningrado che dice: «finalmente la smettiamo con la diplomazia vaticana che nasconde sempre dei retropensieri. Il documento della Congregazione per la dottrina della fede manifesta chiaramente quanto siamo vicini e quanto siamo lontani. Perché il Concilio adoperò l’espressione «sussiste» e non semplicemente «è»? Quell’addolcimento, che ha un contenuto però teologico, era un cambio di prospettiva teologica, indica la piena identità della chiesa di Cristo con la chiesa cattolica, non cambia la dottrina sulla chiesa che trova qui la sua vera motivazione. Come dire: «Noi abbiamo tutto, voi avete perso dei pezzi per la strada». In sintesi: voi protestanti avete perso il sacerdozio, avete perso l’eucarestia, cosa che invece hanno conservato le antiche chiese ortodosse. Che infatti continuano a essere chiamate, in sede cattolica, «chiesa», anche se non hanno la pienezza della vera chiesa… Capisco il disagio che tutto ciò provoca. Il mio disagio ha anche un altra radice perchè io prego in comunione con il papa. E personalmente quando celebro la messa aggiungo «in unione con tutte le chiese anglicane, ortodosse e protestanti perché insieme ci convertiamo al Vangelo». Questo documento ci provoca ma non è un aut-aut. Nel disagio che è reale alla luce di cin-quant’anni di ministero, oggi vi dico: continuiamo con gli incontri ecumenici. Continuiamo a preparare i matrimoni interconfessionali che sono atti ufficiali tra chiese, continuiamo a lavorare sui battesimi interconfessionali. Quanto tempo ci è voluto per il reciproco riconoscimento reciproco dei nostri battesimi. Non possiamo tornare indietro. P. IMAZIO: Questo documento sembra una ripicca del papa verso i protestanti. Ma per noi il papa non è un’autorità che riconosciamo. Riconosciamo di più l’arcivescovo di Canterbury o un patriarca ortodosso, ma il papa è solo una voce tra le voci. Per me l’ecumenismo è solo incontro del popolo di Dio. Le gerarchie hanno distrutto in un minuto anni di lavoro ecumenico. D. SACCOMANI: Noi non rinunceremo mai alla libertà. I cristiani non possono essere incolonnati tutti nella stessa truppa. Le differenze le ha volute Dio stesso e quindi vanno valorizzate. Uniti sì ma nel rispetto delle sacrosante differenze. Uniti per ché diversi. E. FERRERI: Io sono favorevole a continuare gli incontri ecumenici di base, ma non quelli ufficiali. Un segnale E. PEYRETTI: L’occasione della Settimana di preghiera può essere un occasione in cui compaiono dei cattolici che dicano agli evangelici: «Noi vi riconosciamo come chiesa». E. SUSELLA DELLA ROCCA: Io non credo che i protestanti abbiano bisogno del nostro riconoscimento. Sarebbe come promuovere una loro sudditanza psicologica nei nostri confronti. M. BOUCHARD: Perché in questo momento la chiesa cattolica, attraverso le sue massime autorità, compie un gesto così provocatorio? Mi sembra evidente che la chiesa cattolica, al pari di altre chiese storiche, affronta oggi una crisi di identità. Il problema è che la risposta a questa crisi da parte di questo papa è una risposta che finisce per favorire la parte più conservatrice. Questa gerarchia ecclesiastica ha messo serenamente in conto come la ricostruzione dell’identità comporti una rottura con l’ecumenismo. Così come penso che sia stata messa in conto la crisi che può derivarne per la base della chiesa. Condivido quello che afferma Riforma (n. 29), dove sostiene la necessità, in sede ecumenica, di uno strappo, che evidenzi la crisi in atto. L’attuale presa di posizione vaticana rappresenta la fine del dialogo. Rifondare un ecumenismo di base significa che tutti si mettano seriamente in discussione. Ma non è possibile proseguire così come si è fatto sinora, se improvvisamente l’interlocutore viene meno. Anche le intese già raggiunte tra le confessioni devono essere rimesse in discussione. G. MOLINARI: La mia intima preoccupazione e dolore che ho provato alla lettura di questa nota vaticana è verso i fratelli e le sorelle cattoliche. Chi è veramente colpito da questo Documento, che tra l’altro non presenta neppure una sintassi chiara ed è un testo che si autocontrad-dice, è il mondo cattolico. Non potendo smentire le aperture del Concilio, il documento rovescia l’intendimento iniziale: dall’equiparazione che la chiesa di Cristo è la chiesa cattolica (la copula che l’unisce al predicato), il Concilio non escludeva che la chiesa di Cristo sussista anche in altre chiese. Adesso è arrivata la vera interpretazione. E quest’ultima, insieme ad altri elementi, tende a limitare tutto ciò che è dissenso interno alla chiesa di Roma. Si è operato un rovesciamento del Concilio. Il papa smentisce il Concilio. Certo che dobbiamo esprimere un segnale forte non solo verso le chiese ma per la società. Ma non lasciamoci prendere dall’impulso a deciderlo qui intorno a questo tavolo. Non dobbiamo agire da soli. Facciamolo insieme agli ortodossi. A proposito qual è la loro reazione qui in Italia? Penso al prossimo Sinodo valdese e all’Assemblea battista congiunti come sede per dire una parola forte. Dobbiamo ridefinire il nostro atteggiamento verso l’istituzione romana alla luce del sole. A. BARBACINI: Avverto come l’imbarazzo del mondo cattolico cresca e sia direttamente proporzionale alle tante richieste che riceviamo di conoscere gli evangelici. Il papa paradossalmente ci sta dando una mano. Noi dobbiamo stare vicini ai cattolici in crisi, non certo per «catturarli» ma, se ce lo chiedono, per accompagnare la loro crisi . In Italia pochi sanno cosa sia il protestantesimo. Pochi sanno che ci sono anche altri modi di vivere il cristianesimo. Il cristianesimo non si esaurisce nel papa. Quando io predico, molti si stupiscono che una donna possa presiedere un culto. A: BRUNERO: Il papa parla di noi. Non possiamo far finta di niente. Anche perché se noi non siamo chiesa, non vale neppure il nostro battesimo. Esso non conta per essere chiesa di Cristo? Ma negare la validità teologica del battesimo che noi abbiamo ricevuto significa negare la nostra stessa realtà ecclesiastica, intesa come assemblea dei battezzati. Dove vuole arrivare il papa? Secoli di Inquisizione ci hanno resi ipersensibili ai giudizi di santa romana chiesa. (a cura di G. Platone) La chiesa silente: i cattolici del dialogo e del dissenso LUCIANA BREGGIA LA mia esperienza è quella di molti altri cattolici. Nata da una famiglia cattolica, ho ricevuto un’educazione cattolica. Ho iniziato poi un cammino personale di ricerca spirituale prendendo le distanze da una Chiesa porporata e potente, lontana da chi ammoniva che «Dio ha scelto ciò che è debole e stolto per confondere i forti e i sapienti». Ho trovato invece nelle comunità della base un terreno favorevole al cammino. La chiesa intesa come qahal, comunità che cammina nel deserto, mi ha dato spazio per la ricerca di senso, per affrontare il silenzio di Dio, dare forma ai frammenti di un percorso alimentato anche da quelli offerti da altre vie, orientate nella stessa direzione. Ho anche incontrato testimoni credibili, come certe straordinarie figure di prete. Questo distacco dei fedeli dalle gerarchie è silente, ma profondo. Gli ultimi tempi impongono però di dichiarare apertamente il dissenso: le recenti posizioni assunte dalla Chiesa romana, dalle unioni di fatto alla messa in latino, ci inducono a esigere che quelle posizioni non siano fatte valere in nome della chiesa cattolica: la Cei, la Commissione per la congregazione della fede e il Papa non parlano in mio nome, in nostro nome. Nessuno ci ha consultato, nessuno ci ha interpellato. Nella lettera motu proprio «Summorum Pontificum» si fa leva sulla necessità di «trasmettere l’integrità della fede». Ma la fede non è un pacchetto di dogmi da trasmettere, la fede si vive nella ricerca, nel confronto con gli altri, nell’ascolto della Parola. L’integrità della fede pare una contraddizione: come se fosse qualcosa di rigido: di integro appunto. Non è questione della lingua ma di riconoscere che la Chiesa cattolica deve parlare di Dio, come – e anche con – le altre Chiese, ma non in nome di Dio. La messa tridentina di Pio V contiene l’invocazione alla conversione degli ebrei, pietra sul cammino del dialogo ebraico-cristiano. E l’autorizzazione a pregare per «eretici e scismatici» è una pugnalata all’ecumenismo promosso dal Concilio Vaticano II. I cattolici che vivono la fede come percorso di conversione dei cuori, a cominciare dal proprio, devono ora manifestare il diritto-dovere al dialogo e al dissenso, non solo rispetto alle altre religioni ma anche alla gerarchia cattolica. Esistono dappertutto cenacoli dove si svolgono riflessioni lontanissime dalle «posizioni ufficiali»: se la Chiesa siamo noi, perché permettere che queste non rispecchino la ricchezza della ricerca? Il dialogo deve svolgersi a partire dalla base, in luoghi privi di potere, che formino una rete di riflessioni e coinvolgano uomini e donne a titolo personale. L’appartenenza deve essere solo un trampolino di lancio, senza che nessuno possa arrogarsi il privilegio di essere nel Vero. Accanto a una Chiesa cattolica depositaria della dottrina di fede per evitare errori, esiste una chiesa che non ha nulla da trasmettere se non il senso di una ricerca faticosa, dove l’errore può essere fecondo come l’errare e non può essere lo spauracchio per imbrigliare le coscienze e tarpare il confronto. Questa chiesa deve porsi in dialogo con le altre religioni, attraverso le comunità che si raccolgono intorno ai templi, alle parrocchie, alle sinagoghe, alle moschee e alle associazioni che abitano il mondo multiforme delle vie dello spirito. Una chiesa che rifiuti di ottenere consenso dietro il miraggio di una solida dottrina che dia apparente definizione a ogni questione sull’essere e si confronti con le altre, tutte chiese senza potere, semplici ostelli per cercatori di Dio. Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 143 - numero 31 - 3 Agosto 2007. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo Giovedì, 09 agosto 2007 |