"SPE SALVI"
Commento all’Enciclica Spe Salvi, di Benedetto XVI

di Mauro Borghesi

Ringraziamo Mauro Borghesi, per averci messo a disposizione questa sua riflessione sull’ultima enciclica di Benedetto XVI già pubblicata sui siti www.donne-cosi.org e su www.chiesaincammino.org


Mi sono avvicinato all’ultima enciclica con molto rispetto e deliberatamente ho scelto di non leggere né ascoltare alcun commento prima di tale lettura, proprio perché essa non fosse influenzata da giudizi fatti da altri.

Scrivo ora alcune considerazioni a caldo, partendo prima da elementi esterni per andare poi sui contenuti.

Elementi esterni

Il progetto del papa di fare le sue prime encicliche sulle virtù teologali mi pare bella. Ha pubblicato in apertura di pontificato quella sull’amore, ora la speranza e immagino che la prossima sarà sulla fede. Amore, speranza, fede, sono argomenti di fondo per il cristiano e sono temi positivi, che ci permettono di riflettere sul mondo che ci circonda partendo da ciò che sta alla base del Cristianesimo.

L’idea poi di parlare della speranza cristiana in questo specifico frangente storico mi pare ancor più buona perché viviamo un tempo in cui ci si piange tanto addosso da tutte le parti, per il terrorismo, per l’economia, per le tragedie del sabato sera, per delitti familiari sempre più efferati ed inspiegabili, per tanti motivi…

Il cristiano che vive nel continente europeo, sempre più vecchio e sempre meno cristiano, ha ancora motivo per sperare? Ha un senso per lui essere cristiano, formarsi, crescere i suoi figli secondo la logica di una fede che pare in caduta libera? E di fronte alla prospettiva di una Europa che nel prossimo futuro potrebbe diventare atea, o musulmana, che cosa può sperare un cristiano?

Il cristiano che vive nei paesi in via di sviluppo può sperare in condizioni di vita migliori o questa speranza non c’entra nulla con quella cristiana che parla di un premio ultraterreno?

Ecco, secondo me vale la pena scrivere una Enciclica sulla speranza perché abbiamo bisogno di rinvigorire la nostra fede, non tanto di conoscerne i contenuti, che sono sempre quelli, quanto di rivitalizzarne i suoi effetti in termini di gioia, di vita, per riscoprire l’entusiasmo travolgente che ha caratterizzato le prime comunità.

Mi torna alla mente un bel commento del cardinal Martini[1] al vangelo sui discepoli di Emmaus (Luca 24), dove lui osserva che quei due discepoli tristi e con la coda tra le gambe, hanno, di fatto annunciato il kerigma (il nucleo della fede cristiana) allo straniero che camminava con loro e che alla fine si rivela essere lo stesso Gesù. Gli hanno detto tutti i contenuti della fede, ma con la tristezza nel cuore, spenti, delusi e disillusi. Proprio come accade a tanto del nostro catechismo odierno. Ma quando allo spezzare del pane essi lo hanno riconosciuto si è riaccesa in loro la speranza e sono tornati di corsa verso Gerusalemme per raccontarlo agli altri.

Martini riflette sul fatto che troppo spesso il nostro annuncio è l’annuncio di un kerigma a metà, cioè formalmente ineccepibile, ma vuoto nei toni e nella forza comunicativa.

Bene, è per questo che il papa deve spronarci alla speranza cristiana, deve farci coraggio e guidarci a riscoprirla ogni volta come una realtà nuova e capace di fecondare la nostra vita.

Noto con piacere che non si tratta di un testo lunghissimo, e anche questo è un buon segno, perché se l’intenzione è quella di parlare a tutti e non solo a dotti e sapienti, è importante usare un linguaggio semplice, diretto e non prolisso. Ad una sfogliata veloce noto con piacere che in alcuni punti il papa racconta la vita di alcune persone sconosciute, come Giuseppina Bakhita o il cardinale Nguyen Van Thuan, e la cosa mi fa piacere perché sono convinto che la testimonianza di alcuni credenti sia più efficace di una buona lezione di teologia.

Prima di iniziare la lettura sono andato in fondo a sbirciare tra le citazioni. E’ un mio sistema per vedere dove attinge l’autore, e mi ha colpito negativamente il fatto che il Concilio Vaticano II, che è il più grande segno di speranza del XX secolo, non figuri tra le citazioni neanche una volta. Spesso invece figura tra le note il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992).

Contenuti

Fede e ragione

La lettura si è rivelata piuttosto scorrevole, ma sui contenuti devo dire che sono rimasto piuttosto deluso. In breve, dopo una sintesi storica in cui viene ridicolizzato ogni tentativo umano che abbia cercato di rendersi indipendente dai dettami della Chiesa cattolica (dall’illuminismo, al comunismo, allo sviluppo tecnologico…), si offre il binomio fede-ragione come imprescindibile, l’unica alleanza possibile perchè l’uomo non annulli sé stesso. In realtà per papa Ratzinger si tratta di un vero tormentone, un tema che torna in continuazione, insieme a quello del relativismo morale.

A parte il fatto però, che non si dice una parola sui limiti che l’umanità ha incontrato anche nei secoli in cui la Chiesa era una cosa sola con lo Stato, mi pare che emerga un concetto di uomo laico, inteso come senza fede, assolutamente negativo. La ragione senza fede combina solo guai, in sostanza. Basti a titolo esemplificativo citare un passo al n. 23

Ma quand’è che la ragione domina veramente? Quando si è staccata da Dio? Quando è diventata cieca per Dio? La ragione del potere e del fare è già la ragione intera? Se il progresso per essere progresso ha bisogno della crescita morale dell’umanità, allora la ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata mediante l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umanala ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione.

Non mi pare che questo sia stato il modo di rapportarsi con il pensiero laico del Concilio Vaticano II, che ha parlato di dialogo con gli atei (Gaudium et spes 19-21), di autonomia delle realtà terrene (Gaudium et spes 36), di segni dei tempi (Gaudium et spes 4a), di gerarchia delle verità (Unitatis Redintegratio 11c). Il Concilio si confronta con un pensiero laico che ha certamente fatto tanti errori, ma verso il quale onestamente riconosce anche meriti, dai quali la Chiesa può e deve imparare. Basti un semplice sguardo all’inizio della già citata Gaudium et spes (anche qui si parla di speranza nel titolo) per comprendere come gli stessi contenuti possono essere detti in un modo completamente diverso:

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo… Ai nostri giorni, l’umanità presa d’ammirazione per le proprie scoperte e la propria potenza, agita però spesso ansiose questioni sull’attuale evoluzione del mondo, sul posto e sul compito dell’uomo nell’universo, sul senso dei propri sforzi individuali e collettivi, e infine sul destino ultimo delle cose e degli uomini. Per questo il Concilio, testimoniando e proponendo la fede di tutto intero il popolo di Dio riunito dal Cristo, non potrebbe dare una dimostrazione più eloquente di solidarietà, di rispetto e d’amore verso l’intera famiglia umana, dentro la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal Vangelo…

Non mi piace estrapolare brani dal loro contesto, e naturalmente invito a leggere per intero entrambi i documenti, ma mi pare si possa evincere anche da queste poche righe come sia diverso il modo di porsi di fronte all’altro, al non credente, a chi non ha la fede. Credo che finchè i nostri Pastori continueranno a dire a scienziati e politici “voi senza di noi siete nulla, siete irrazionali, siete pericolosi” anche dall’altra parte vi sarà una risposta uguale ed opposta. La Gaudium et spes cerca punti in comune con il pensiero laico, cerca davvero un dialogo sulle cose su cui si può dialogare, parla quindi di centralità dell’uomo, di coscienza, di valori… la Spe Salvi invece, sulla falsariga della Dominus Jesus (CDF 2000), sceglie la linea dell’andare giù pari.

Rapporti con l’ateismo

Altro esempio a favore della mia tesi potrebbe essere un parallelo su come le due encicliche impostano il tema dell’ateismo. La Gaudium et spes, senza giustificarlo, lo vede come un fenomeno complesso, variegato e tenta di non fare di tutt’un erba un fascio. Soprattutto è capace di autocritica, laddove ammette che se oggi molti sono atei lo sono per una reazione critica a come noi siamo credenti, cioè alla nostra cattiva testimonianza (19c). La Spe Salvi invece si esprime dicendo che questo atteggiamento è un “moralismo” (42). Alcuni sono atei, per questo papa, perché fermano la loro mente di fronte alle ingiustizie (in senso generico: guerre, calamità…) e non riescono ad abbracciare la fede in un Dio che, se c’è, permette tutto questo.

Il Concilio Vaticano II, grande assente

Devo dire che purtroppo un tale bistrattamento del Vaticano II me lo aspettavo vista soprattutto la recente interpretazione molto svalutante che ne ha dato lo stesso Pontefice in occasione del Natale 2005. Un augurio natalizio in cui si rilegge il Vaticano II, perché era il 40 esimo della sua chiusura, e dove viene ribadito a chiare lettere che sbaglia chi lo legge secondo un “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, cioè come un evento fondativo, come uno spartiacque e come un nuovo inizio nella vita della Chiesa. Il Concilio piuttosto, sostiene il papa, deve essere visto come un episodio tra i tanti che caratterizzano la storia del Magistero, e non può sostituire, né contraddire quanto detto in precedenza. In quest’ottica penso possa servire riportare alcuni passaggi importanti:

Il Concilio Vaticano II… ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi. Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all’età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia… aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell’uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell’uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente… Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell’uomo. Era invece senz’altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l’esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d’Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.

Il documento non dice in sé cose sbagliate, ma evidentemente è proteso a spegnere quel piccolo lumicino che gli amanti del Concilio si ostinano a tenere acceso, per invece osannare l’intramontabile Scolastica del Medioevo e di San Tommaso; consiglio di leggerlo per intero perché in esso Ratzinger spiega bene la sua interpretazione del Concilio e pure quanto tema quella “falsa” di coloro che vedono in quell’evento un segno di rottura – non sul piano dottrinale come ha sostenuto Lebfevre – ma certamente sul piano metodologico del rapportarsi con il mondo e con la ragione (il link del file è http://www.vatican.va/ ).

Non si tratta del primo intervento che Ratzinger fa in questa direzione[2], ma certamente rivestendo ora il ruolo di Pontefice le sue parole sono ancor più pesanti.

La grande filosofia greca

Tornando alla Spe Salvi vorrei sottolineare un tema già introdotto, ma che terrei a esplicitare meglio. Vorrei mettere in rilievo come ancora una volta il papa insista sulla bontà della filosofia scolastica che a sua volta attinge dalla “grande filosofia greca” (28). La sua enciclica è un continuo citare Agostino, Bernardo, Tommaso (ma abbiamo visto anche dalla citazione precedente quanto per tutta la sua impostazione teologica sia imprescindibile il pensiero di San Tommaso con il relativo tentativo di armonizzare fede e ragione).

Senza nulla togliere al grande lavoro di San Tommaso, che ai suoi tempi fu certamente un rivoluzionario, penso che oggi le cose siano un po’ cambiate rispetto ad allora. A quel tempo la Chiesa governava, stipendiava artisti e pensatori, decideva guerre, paci, alleanze, costruzioni di città, ecc… Si imponeva alla sua coscienza di non essere guidata solo dalle frasi del vangelo, ma di usare la ragione. Una ragione in armonia con la fede, certo, ma di cui fino ad allora non si erano intuite le potenzialità. Oggi la ragione ha preso la sua strada, Chiesa e Stato percorrono strade indipendenti, troviamo credenti impegnati in politica che in alcuni casi hanno il dilemma interiore tra seguire i dettami del Magistero e quelli della propria coscienza, e abbiamo persone che usano la ragione bene senza essere credenti. Ecco perché penso che non si possa continuare a sostenere che tutto ciò che è ragionevole debba automaticamente andare a nozze con la fede e viceversa. Ecco perché penso che San Tommaso sia superato ed il Concilio – con la sua “apertura” così mal sopportata – sia attuale.

Benedetto XVI invece, la filosofia greca, non solo la predica, ma la mette anche in pratica. Imposta tutta la sua esposizione in termini di forma e sostanza e si diverte non poco nell’esegesi di parole come hypostasis,  hyparchonta, hypomone, hypostole, hyparxin, e via dicendo, che non so quanto possano essere utili ad alimentare la speranza dei cristiani filippini, algerini o boliviani.

Terminologia a parte, anche la ricostruzione storica che il papa fa dai paragrafi 10 a più o meno il 20, è leggermente di parte. Tutto bene, secondo lui, finchè le cose sono state in mano alla Chiesa, e l’apice, il momento cioè che meglio ha espresso anche a livello culturale la speranza cristiana sarebbe stato il Medioevo. Poi, da Bacone in poi, il tracollo e via con l’elenco di tutti i mali del mondo che l’uomo si è tirato addosso da solo. Se la Chiesa non accetta di rileggere la storia in dialogo con gli storici (non saranno tutti sotto l’influsso di Satana!) continueremo ad avere ancora a lungo da una parte l’elogio del Medioevo, e dall’altra la sua condanna più forte.

I luoghi della speranza

Un commento, nonostante mi renda conto di averla fatta ormai più lunga del papa, lo devo fare anche sull’ultima parte, quella propositiva, attuativa dell’enciclica. Quali sono, si chiede il papa al paragrafo 32,  i luoghi di apprendimento della speranza?

Ne propone tre: preghiera, sofferenza e giudizio (escatologico).

Sarà che è un po’ tardi e comincio a essere stanco, ma a me cascano le braccia… altroché speranza!

Ma non sappiamo dire altro, noi cristiani? Non riusciamo a vedere semi di speranza in null’altro che non sia la nostra solita preghiera e il pensiero che un domani Dio farà giustizia di tutto quello che oggi non và?

1. La Chiesa che condivide in mille forme la vita degli ultimi, nei paesi sottosviluppati, nelle caritas, nel volontariato, non è un segno di speranza da sottolineare?

2. I movimenti ecclesiali, con la loro capacità di coinvolgere e incidere sulla vita di tanti milioni di giovani, non sono un segno di speranza?

3. I numerosi santi, anche laici, canonizzati negli ultimi decenni, non sono un segno di speranza?

4. Il Concilio – grande assente dell’enciclica - non è stato un segno di speranza? Non è forse stato quello l’evento che ha risvegliato e rinvigorito la speranza di intere generazioni di cristiani cattolici e non? Che fine hanno fatto le speranze che ha suscitato una pagina come questa: “Innanzitutto nella stessa Chiesa promuoviamo la mutua stima, rispetto e concordia, riconoscendo ogni legittima diversità, per stabilire un dialogo sempre più profondo… Sono più forti infatti le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono; ci sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità” Gaudium et Spes 92b

5. Dal mondo, guardando fuori dal nostro recinto, non giunge proprio alcun segno di speranza? La crescente sensibilità per i diritti delle donne e per il rispetto dell’ambiente non sono da sottolineare e da accogliere come provocazioni utili anche per la stessa Chiesa? Il volontariato laico, che coinvolge tante persone nell’aiuto degli altri (vedi ad esempio i continui viaggi di aiuti umanitari che continuano a partire per i Balcani, cosa di cui nessuno parla), al di là di appartenenze religiose, non è una novità che ci interroga?

6. E il fatto che anche noi cattolici “critici” siamo ancora qui, che leggiamo, contestiamo, apprezziamo, ci scorniamo tra noi e con il crocifisso, nonostante il nostro passato di sofferenza, nonostante la nostra visione delle cose spesso così distante da quella ufficiale… non è questo un segno di speranza?

Pensavo di aver chiuso con i “fioretti” ed i fervorini sull’ “offrire” le fatiche quotidiane a Gesù o alla Madonna (40), non perché non ci creda, ma perché già da bambino di fronte a questi incoraggiamenti mi sentivo preso un po’ in giro, e chiedevo alla fede di farmi capire, piuttosto che di rimanere nelle mie avemarie; ed invece dovevo arrivare a 41 anni per leggere un’enciclica che mi invita ancora a fare questo. Mi invita a trovare consolazione nella preghiera, a soffrire con il sorriso sulle labbra, a sperare in un Giudizio divino che faccia pari con tutto ciò che non mi torna e che non so rendere migliore. E mentre le encicliche continuano a filosofeggiare sull’al di là, su paradiso, purgatorio ed inferno, io ne ricavo l’impressione che chi scrive passa più tempo sui libri che accanto alle persone.

Un messaggio performativo

Bene, per concludere mi sono tenuto un messaggio positivo. Volevo chiudere in bellezza, e solo ora mi rendo conto che dopo quanto ho scritto può sembrare una forzatura, ma non è così. C’è un concetto che torna qua e là che ho apprezzato e che, se vogliamo, si può interpretare come segno di speranza.

Il papa parla in più punti del messaggio cristiano come un messaggio “performativo”. Lo fa ad esempio al paragrafo 2 e al 10. Che significa? Lo spiega lui stesso, contrapponendo il metodo informativo a quello performativo.

Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita.”

Fa piacere sapere che lo studio e la dottrina non siano tutto, perché se così fosse davvero cadremmo nel tranello di una gnosi per pochi eletti, già ampiamente bocciata dalla storia. A questo proposito sarebbe davvero interessante approfondire il dibattito su quanto oggi la Chiesa sia più o meno informativa o performativa. Certamente in essa la maggior parte dei fedeli in Cristo non è visibile, non scrive libri, non partecipa a dibattiti televisivi, forse non legge neppure approfonditamente il Vangelo, però “vive” questa fede, questa speranza, questa carità, immersa nel traffico, nel lavoro, nella famiglia. E’ importante a mio parere ricordare che questi sono lo zoccolo duro della Chiesa, questi sono coloro che la mandano avanti, sono “la parte migliore” perché producono fatti e cambiano la vita. Sono questi infine che ci fanno sperare e toccare con mano che Dio non abbandona la sua Chiesa, sempre la sorregge e la guida pur utilizzando vie che non possiamo prevedere né incasellare.

Mauro Borghesi, 5 dicembre 2007

mauroborghesi@tele2.it



[1] L’Evangelizzatore in San Luca, Editrice Ancora Milano, io ho la nona edizione, dell’ottobre 1988. Qui mi riferisco alla seconda riflessione del libro.

[2]Più di vent’anni fa, ad una intervista sul Concilio Ratzinger rispondeva così: Se per "restaurazione" intendiamo la ricerca di un nuovo equilibrio dopo le esagerazioni di un’apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico e ateo; ebbene, allora una "restaurazione" intesa in questo senso (un rinnovato equilibrio, cioè, degli orientamenti e dei valori all’interno della totalità cattolica) è del tutto auspicabile ed è del resto già in atto nella Chiesa. In questo senso si può dire che è chiusa la prima fase dopo il Vaticano II"



Martedì, 11 dicembre 2007