"SPE SALVI"
L’areopago di Benedetto XVI

di Normanna Albertini

Un punto di vista da una donna non teologa e non politica


Ringraziamo Normanna Albertini per questo intervento.


E al fine Benedetto si fece tentare dal desiderio di ragionare con gli stoici e gli epicurei e salì all’Areopago. Per convertirli, per convincerli che hanno un Dio, anche se ignoto, che lo conoscono anche se non lo sanno e che solo in quel Dio c’è la salvezza. Ovviamente eterna, perché quella qui, sulla Terra, i suoi uditori d’alto lignaggio, filosofi, abbienti e facoltosi abitanti di Corinto, già la possiedono. In un mondo tutto dedito a “corinteggiare”, Benedetto si avvede che è giunto il tempo di far convergere le speculazioni filosofiche con quelle religiose; lo capisce dall’aumento dello spiritualismo nelle varie chiese, dai movimenti carismatici che riescono a suscitare adepti tra i giovani, dall’affollamento dei santuari in cerca di miracoli. Dalla grande ignoranza delle scritture, perché i cristiani sono molto presi da altre letture e visioni televisive, come gli oroscopi e il gossip e la varia rappresentazione di cose oscene. Egli non va incontro ai gruppi sociali periferici estenuati dal bisogno che nemmeno hanno più voce per chiedere un riscatto politico ed economico (quanti miliardi sul globo?), ma va a parlare ai più benestanti: gente d’intelletto, che sa cos’è la filosofia, che sa chi sono Bacone, Theodor Adorno e cos’è la scuola di Francoforte. Non parla per tutti, altrimenti avrebbe usato un altro linguaggio. Quello di Cristo, quello semplice del vangelo è per tutti. Anche San Paolo all’Areopago parlò ai filosofi, intanto che i loro servi, oppressi, soggiogati - sembra il novanta per cento della popolazione di Corinto - erano intenti a procurare loro pane e ricchezza e certo poco si preoccupavano di cosa li avrebbe aspettati nell’aldilà. In fondo, l’Ade pagano metteva tutti sullo stesso piano, senza punizioni né premi. Benedetto è intelligente e sa che questo è il momento giusto per seminare la sua teologia/filosofia rassicurante per il ricco. Esprime semplicemente le richieste del periodo storico, di un mondo globalizzato dove le ingiustizie sono sempre più globali e tollerate e dove gli “esuberi” di popolazione, gli inutili, sono sempre più numerosi e schiacciati ai margini con grande serenità e indifferenza. Le incompatibilità con il messaggio del vangelo sono talmente enormi che i cattolici facente parte della piccola porzione di popolazione mondiale benestante, per superare la schizofrenia che ciò comporta, manifestano un più intenso bisogno di un Dio incontestabile, superiore a ogni cosa, anche alla sofferenza dei suoi figli.
Ma dov’è finito il “Dio è amore” della prima enciclica? Era solo speculazione filosofica? Parole ferme alla testa, mai scese nelle viscere, mai fatte carne? Il logos si incarna e soffre per redimere e sollevare dalle sofferenze, invece Benedetto sembra limitarsi a consolare chi soffre per le ingiustizie, ricordando che esse non sono eterne, che alla fine ci sarà la salvezza per chi avrà sperato in Cristo. Rilancia la speranza contro il vuoto di senso del mondo moderno e contro lo strapotere dell’ideologia e della politica. Dice che la speranza è “nuova libertà”, che permette a tanti cristiani di opporsi “allo strapotere dell’ideologia e di suoi organi politici”. Come? Con il martirio e con le “grandi rinunce”. Certo, anche per Paolo di Tarso le disuguaglianze di classe o quelle tra Roma e le province occupate andavano valutate come una prova da sopportare in attesa che la mano di Dio decidesse diversamente. Benedetto è molto paolino in questo. Peccato che il cuore del vangelo, il discorso della montagna, dica altro. “Perseguitati per causa della giustizia”, “Poveri in spirito”, “operatori di pace”, “misericordiosi”…tutta gente che si oppone solo sperando, senza sentire le viscere ribollire di sdegno davanti agli orrori e alle sofferenze di tanti? Orrori che sarebbero stati causati dall’ateismo: “le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia”, dal marxismo che ha lasciato “una distruzione desolante” e dall’illuminismo. Anche in questo caso, come per la sua assoluzione della cristianizzazione dell’America Latina con la croce e con la spada, a Benedetto bisognerebbe consigliare - ma ci vorrebbe un’altra santa Caterina - un buon ripasso di storia, abbandonando, per un po’, il ripasso di filosofia. Peccato per Benedetto che l’immagine di ciò che dev’essere un cristiano sia quella dell’uomo che raccoglie il ferito sulla strada che scendeva da Gerusalemme a Gerico. E mentre Benedetto scende dall’Areopago, pare di vedere gli areopagiti attuali, non più filosofi scettici, come per San Paolo, ma goderecci corinteggianti cattolici, intellettuali e intellettualoidi che di chiacchiere e immagine campano, andarsene dicendogli: “Ah finalmente si torna al vero cristianesimo! Finalmente la speranza non è più legata alla gioia di tutti! Finalmente possiamo sperare da soli senza farci sensi di colpa per gli stipendi dei nostri schiavi!” Però per la resurrezione della carne e il giudizio finale borbottano - ma sottovoce, che nessuno senta, come si fa con i vecchi o con i bambini: “Ti ascolteremo domani”. Perché il paradiso può attendere, e così il purgatorio e l’inferno. Intanto corinteggiamo e speriamo allegramente. E mentre Benedetto fa seppellire la “Gaudium et spes” sotto palate della sua speranza di uomini soli, mentre nega praticamente il Concilio, ma anche l’impegno di Leone XIII e la sua intuizione che bisognava ascoltare chi aveva la pancia vuota per evitare i pericoli che il nostro condanna - marxismo e ateismo - rileggere il bel libro di Fausto Marinetti su don Zeno Saltini è aprire una finestra sull’orizzonte e vedervi l’utopia di Gesù che ti invita al cammino. Sembra gridare don Zeno: “Dicevo ai confratelli: perché vi accontentate di non essere molestati in finanza, mentre il popolo è trattato da schiavo? Se Iddio dà il purgatorio per un peccato veniale, perché non capire che può massacrare un popolo intero e il suo clero per una così gretta distribuzione dei suoi beni? I poveri dovremmo sempre averli con noi come missione chiara del vangelo. Invece sono contro di noi. Io non voglio morire tra i ricchi, mille volte maledetti da Dio, ma tra i poveri, non fosse altro che come amico. Per salvare il popolo bisogna prima salvare tutti gli abbandonati. Se abbiamo ragione noi, vedrai, saremo dei riformatori. Predichino pure la carità, ma i figli vagano esasperati in cerca di giustizia.” Sperare da soli, sperare senza un progetto comune, sperare mentre intorno c’è morte e disperazione non è fede: è negazione dell’amore, è negazione di Dio. «Ai poveri è annunciata la buona novella», Matteo 11,5, e i destinatari della prima delle beatitudini (Mt 5,3) sono «i poveri nello spirito» quelli che sono nella condizione che non permette loro l’alterigia e la dogmaticità tipiche delle classi finanziariamente dominanti. Di chi usa il rispettabile atto del pensare dei filosofi per giustificare con discorsi di un livello puramente religioso le contraddizioni sociali che gridano vendetta al cospetto di Dio, per le quali non sono permesse risposte politiche, ma per le quali il sapiente Benedetto, in questo caso, sembra denotare ben scarse competenze.


Normanna Albertini



Mercoledì, 05 dicembre 2007