CONCILIO VATICANO II E MESSALE ROMANO. Sono ora 45 anni da quando il Concilio Vaticano Secondo promulgò l’innovativo e liberante documento sulla sacra liturgia .... Mai avrei pensato, nemmeno nei miei sogni più folli, di arrivare nella mia vita ad assistere a ciò ...
IL "SACROSANTUM CONCILIUM", IL NUOVO MESSALE DI PAPA RATZINGER E LO SMANTELLAMENTO SISTEMATICO DELLA GRANDE VISIONE DEL DECRETO CONCILIARE. Da Michael G. Ryan ("America") un urlo e la richiesta di "una revisione dalla base"!!!

(...) C’è di più: l’agghiacciante accoglienza che il popolo delle diocesi del Sud Africa ha dato alle nuove traduzioni. Con una straordinaria svista, i vescovi di quella nazione hanno mal interpretato le istruzioni da Roma e, dopo un attento programma di catechesi nelle parrocchie, hanno presentato le nuove traduzioni alla loro gente alcuni mesi fa. Le traduzioni hanno incontrato quasi ovunque un’opposizione al limite dell’oltraggio


a cura di Federico La Sala

Perché non dire: “Aspettate”? 
Per una revisione dalla base del nuovo Messale Romano

 di Michael G. Ryan ("America” del 14 dicembre 2009 - traduzione: www.finesettimana.org)

Sono ora 45 anni da quando il Concilio Vaticano Secondo promulgò l’innovativo e liberante documento sulla sacra liturgia, Sacrosantum Concilium. A quel tempo, da zelante ed entusiasta seminarista del Pontificio Collegio Americano del Nord, ero in Piazza S. Pietro nel giorno di dicembre del 1963 in cui Papa Paolo VI, con i vescovi del mondo, presentò quella grande Magna Carta alla chiesa. Il documento conciliare trascendeva le politiche ecclesiali. Non era solo il progetto favorito di una parte, ma lo schiacciante consenso dei vescovi del mondo. La sua adozione passò con una maggioranza schiacciante: 2147 a 4.

Mai avrei pensato, nemmeno nei miei sogni più folli, di arrivare nella mia vita ad assistere a ciò che appare sempre di più come il sistematico smantellamento della grande visione del decreto conciliare. Ma ci sono arrivato. Noi cattolici ci siamo arrivati.

A dimostrazione di ciò, è sufficiente guardare alle recenti istruzioni della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che hanno elevato il rubricismo a una forma d’arte, oppure il sostegno, persino l’incoraggiamento, alla cosiddetta Messa Tridentina. È divenuto dolorosamente chiaro che la liturgia, la preghiera del popolo, viene usata come uno strumento - qualcuno direbbe persino come un’arma - per portare avanti determinate agende. Ed ora all’orizzonte sono le nuove traduzioni del Messale Romano che presto raggiungeranno gli stadi finali di approvazione da parte della Santa Sede. Fra non molto ai preti di questa nazione sarà detto di portare le nuove traduzioni alla loro gente per mezzo di un programma di formazione attentamente orchestrato che tenterà di dare un’apparenza positiva a qualcosa che chiaramente non la merita.

Ai veterani, che da giovani preti nei passati anni Sessanta hanno entusiasticamente dedicato le proprie migliori energie creative per far accettare le riforme del concilio ai parrocchiani, sarà chiesto di fare lo stesso riguardo alle nuove traduzioni. Tuttavia saremo in difficoltà nel fare questo. Alcuni colleghi nel ministero potranno forse apprezzare l’opportunità, ma non quelli di noi che furono catturati dalla grande visione del Vaticano II, che conoscevano di prima mano la Messa Tridentina ed la amavano per quello che era, ma che accolsero positivamente il suo tramontare per ciò che una piena, consapevole e attiva partecipazione avrebbe significato per il nostro popolo. Possiamo vedere il momento presente solo come un ulteriore assalto al concilio e, tristemente, un ulteriore colpo alla collegialità episcopale. È stato infatti il concilio a dare alle conferenze episcopali l’autorità di di produrre le proprie traduzioni (S.C., n° 36, 40), che devono essere approvate, certamente, dalla Santa Sede, ma su cui essa, presumibilmente, non dovrebbe avere l’iniziativa né il controllo fin nei minimi dettagli. Inoltre, il concilio ha saggiamente previsto tempi di sperimentazione e valutazione (S.C., n° 40) - qualcosa che è evidentemente mancato nel presente caso.

Questo mi porta a porre una domanda ai miei fratelli preti: perché non aprire gli occhi sul fatto che questi testi non sono né pastorali né pronti per le nostre parrocchie? Perché non dire semplicemente: “Aspettate”?

Preghiera e buon senso

So che parlare in questo modo potrebbe apparire come insubordinazione, ma potrebbe essere anche una manifestazione di lealtà e semplice buon senso - lealtà non ad un’agenda ideologica, ma al nostro popolo, la cui preghiera le nuove traduzioni si proporrebbero di migliorare, e buon senso per chiunque si fermi a riflettere su qual è la posta in gioco qui.

Quello che è in gioco, mi sembra, è nientemeno che la credibilità della chiesa. È vero che la chiesa potrebbe guadagnare in credibilità fornendoci traduzioni più belle, ma goffo non equivale a bello, e ricercato non significa adatto alla preghiera. Durante una recente conversazione a cena con amici, la questione delle nuove traduzioni è venuta fuori. Due dei commensali erano ben consapevoli - e piuttosto indignati - delle imminenti modifiche; due non lo erano. Quando i non informati hanno sentito qualche esempio1, la loro reazione è stata fra l’incredulità e l’indignazione.

Uno dei convitati ha azzardato l’opinione che con tutto quello che la chiesa ha sul suo piatto oggi - sfide globali rispetto alla giustizia, la pace, l’ambiente; continui scandali; una grave mancanza di preti; la crescente disillusione di molte donne; una seria diminuzione della frequenza ai riti - sembra quasi assurdo continuare a portare avanti un’agenda che sembra nel migliore dei casi insignificante e nel peggiore completamente scollegata dalla realtà.

La reazione dei miei amici non dovrebbe sorprendere chiunque abbia avuto l’opportunità di esaminare le nuove traduzioni. Alcune di esse hanno dei pregi, ma molte, troppe, non ne hanno. Recentemente l’Arcidiocesi di Seattle ha promosso un seminario sulle nuove traduzioni rivolto agli incaricati laici e al clero. Sia il prete che conduceva il seminario (un valido teologo liturgista) sia i partecipanti si erano ivi riuniti in buona fede. Quando alcuni passaggi dalle nuove proposte traduzioni sono stati letti ad alta voce, con tono serio, dall’oratore (ricordo in particolare la frase dalla prima preghiera eucaristica che attualmente dice “Giuseppe, suo marito”, ma che nella nuova traduzione diventa “Giuseppe, coniuge della stessa vergine”2), si è sentito chiaramente ridere nella stanza. Mi sono trovato a pensare che l’idea che questo avvenga durante la sacra liturgia non è un problema di riso, ma qualcosa che dovrebbe farci tutti tremare.

C’è di più: l’agghiacciante accoglienza che il popolo delle diocesi del Sud Africa ha dato alle nuove traduzioni. Con una straordinaria svista, i vescovi di quella nazione hanno mal interpretato le istruzioni da Roma e, dopo un attento programma di catechesi nelle parrocchie, hanno presentato le nuove traduzioni alla loro gente alcuni mesi fa. Le traduzioni hanno incontrato quasi ovunque un’opposizione al limite dell’oltraggio.

Non è mia intenzione qui discutere in dettaglio gli scorretti principi di traduzione che stanno dietro a questa operazione o le traduzioni deboli e inconsistenti che ne sono risultate. Altri lo hanno già fatto abilmente. Né voglio insistere sul fatto che coloro che hanno predisposto le traduzioni sembrano essere più versati in latino che in inglese. No, la mia preoccupazione è per il passo che sta davanti a noi: la prospettiva di rendere effettive le nuove traduzioni. Questo mi riporta alla mia domanda: perché non dire semplicemente: “Aspettate”?

Perché noi, i parroci di questa nazione che avranno l’onere della messa in pratica, non ritroviamo la nostra voce e diciamo ai nostri vescovi che vogliamo aiutarli ad evitare un fallimento quasi certo? Perché non diciamo loro che pensiamo che non sia saggio rendere effettive queste modifiche fino a quando i membri del nostro popolo non siano stati consultati in una maniera adulta che veramente onori la loro intelligenza e il loro essere battezzati? Perché non dire semplicemente: “Aspettate, non fino a quando il nostro popolo sia pronto per le nuove traduzioni, ma fino a quando le traduzioni non siano pronte per il nostro popolo”?

Ascoltare i nostri istinti pastorali

I vescovi hanno fatto del loro meglio, ma fino ad ora non hanno avuto successo. Alcuni di essi, guidati dal coraggioso e franco ex-presidente della Commissione Episcopale sulla Liturgia, il vescovo Donald Trautman di Erie, Pennsylvania, hanno provato a fermare il treno delle nuove traduzioni, ma inutilmente. La conferenza episcopale, messa ai margini e sfiancata dalle battaglie, ha permesso a se stessa lentamente ma stabilmente di essere logorata. Dopo un po’ la voglia di

combattere semplicemente non c’era più. L’acquiescenza ha preso piede fino al punto che minuscoli miglioramenti (una parola qui, una virgola là) fossero visti come importanti vittorie. Senza nemmeno volerlo, i vescovi hanno abbandonato i loro migliori istinti pastorali e così facendo hanno rinunciato ai migliori interessi del loro popolo. Così sorge la domanda: anche noi preti abbiamo intenzione di rinunciare? Anche noi abbiamo intenzione di adeguarci? Certamente noi dobbiamo ai nostri vescovi l’obbedienza e il rispetto a cui ci siamo impegnati il giorno della nostra ordinazione, ma obbedienza significa complicità con qualcosa che percepiamo come sbagliato - o, nel migliore dei casi, irrazionale? Obbedienza significa andare contro i nostri migliori istinti pastorali al fine di promuovere qualcosa che crediamo, alla fine, porterà discredito alla chiesa e ulteriore disillusione al popolo? Penso di no. E il rispetto implica un’adesione solo formale a qualcosa verso cui la nostra reazione più istintiva è di definirla temeraria? Di nuovo, penso di no.

Ecco le mie modeste proposte.

Perché i pastori, i consigli pastorali, le commissioni liturgiche e i consigli presbiterali non si appellano ai loro vescovi chiedendo un tempo di riflessione e consultazione sulle traduzioni e sul processo attraverso il quale saranno date al popolo? È ironico, a dire il meno, che impieghiamo ore per la consultazione quando si progetta di ristrutturare una chiesa o una sala parrocchiale, ma poco o nessun tempo quando si vuole “ristrutturare” la stessa lingua della liturgia.

Perché, prima di rendere effettive le nuove traduzioni, non facciamo alcuni “esperimenti di mercato”? Perché in ciascuna regione ecclesiastica non si scelgono alcuni posti per sperimentare le nuove traduzioni: parrocchie urbane e parrocchie rurali, parrocchie ricche e parrocchie povere, parrocchie grandi e multiculturali e parrocchie piccole, comunità religiose e campus universitari? Perché non utilizzare in queste prescelte comunità, per il tempo di un intero anno liturgico, le nuove traduzioni, con una catechesi attentamente progettata e una valutazione approfondita e onesta? Un tale esperimento non fornirebbe preziose informazioni sia per i traduttori che per i vescovi? E un tale esperimento non renderebbe molto più facile la messa in opera delle nuove traduzioni una volta pronte?

In breve, perché non dovremmo fidarci dei nostri migliori istinti e difendere il nostro popolo da questo mal concepito sconvolgimento della sua vita di preghiera? Perché la collegialità, il dialogo e una realistica consapevolezza dei bisogni pastorali del nostro popolo non dovrebbero essere introdotti in questa fase finale della partita? È impossibile pensare che potremmo aiutare la chiesa che amiamo a evitare un fallimento o persino un disastro? Ed è impossibile pensare che le voci nella chiesa che hanno deciso che la latinità è più importante della lucidità potrebbero finire per ascoltare il popolo e rivedere la loro posizione, e che le frasi prolisse, sgraziate e goffe potrebbero essere ridotte, lasciando posto a traduzioni nobili, persino poetiche di testi bellissimi e antichi che sarebbero veramente degni della nostra più grande preghiera, degni della nostra lingua e degni del santo popolo di Dio di cui questa preghiera è? (Se pensate che la precedente frase sia sgraziata, aspettate di vedere alcune delle nuove traduzioni del Messale. Potrebbero essere leggibili, ma al limite dell’impronunciabile!)

“Perché non dire semplicemente di no?” era il mio titolo di lavoro per questo articolo. “Perché non dire semplicemente: “Aspettate”?” sembra preferibile. Il dialogo è meglio della diatriba, come il Concilio Vaticano Secondo ha ampiamente dimostrato. Che dunque il dialogo cominci. Perché non permettere ai preti che sono in prima linea e ai laici che pagano i conti (compresi i salari di preti e vescovi) di esprimersi su come dovrebbero pregare? Se pensate che questa idea abbia valore, vi invito a visitare il sito www.whatifwejustsaidwait.org e a far sentire la vostra voce. Se i nostri vescovi conosceranno la profondità della nostra preoccupazione, forse non si sentiranno così soli.
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  Il rev. Michael G. Ryan è pastore della Cattedrale di S. Giacomo a Seattle dal 1988 e membro del comitato direttivo della Conferenza nazionale dei Ministri di Cattedrali

  1 N.d.t.: qui il testo originale inserisce fra parentesi alcuni esempi (“and with your spirit”; “consubstantial with the Father”; “incarnate of the Virgin Mary”; “oblation of our service”; “send down your Spirit like the dewfall”; “He took the precious chalice”; “serene and kindly countenance”) che non traduciamo. 


  2 N.d.t.: letteralmente, “Joseph, her husband” e “Joseph, spouse of the same virgin”.

 



Martedì 26 Gennaio,2010 Ore: 21:08