«DIO, Padre di noi tutti (...) noi ti preghiamo: affretta lora in cui tutte le chiese si riconosceranno nellunica comunione da te voluta e per la quale il tuo Figlio ti ha pregato nella potenza dello Spirito Santo». Questa, secondo il testo distribuito ai presenti (e redatto da un gruppo di cattolici), la preghiera di intercessione prevista per lincontro ecumenico di preghiera ospitato nella basilica veneziana di San Marco venerdì 19 gennaio, nellambito della Settimana di preghiera per lunità dei cristiani. Sorpresa: nel leggere ad alta voce il testo della preghiera, il patriarca Angelo Scola sopprime di propria iniziativa il termine «chiese» per sostituirlo con «comunità ecclesiali». Per evitare, ovviamente, un implicito riconoscimento della dignità di «chiese» anche alle «comunità» nate dalla Riforma protestante.
Lepisodio ha suscitato sconcerto e amarezza in molti tra i cristiani, cattolici compresi, riuniti per loccasione nella basilica marciana. Se, infatti, la puntualizzazione del patriarca appare ineccepibile dal punto di vista dellecclesiologia cattolica, è pur vero che, nella sua pluridecennale tradizione, lecumenismo veneziano si era sempre distinto - anche e forse soprattutto da parte cattolica - per la carica veramente profetica che animava i suoi testimoni, e che trovava riscontro anche in una prassi lessicale improntata a rispetto reciproco. In ossequio a una delle norme basilari del dialogo ecumenico, si evitava di etichettare linterlocutore secondo i propri preconcetti. Fino a un recentissimo passato, insomma, la puntigliosa quanto gretta - e, per gli evangelici, francamente offensiva - distinzione chiese/comunità ecclesiali sarebbe stata inconcepibile, soprattutto in un incontro di preghiera, nel mondo ecumenico veneziano: il primo in Italia, tra laltro, ad avere promosso listituzione di un Consiglio locale delle chiese cristiane (delle chiese, si noti, non delle comunità ecclesiali).
Sarà naturalmente questo Consiglio a riflettere sullaccaduto nello spirito di un sincero desiderio di chiarezza, non di sterile polemica. È importante, tuttavia, evitare che lincidente venga ridotto alla stregua di una semplice violazione del galateo ecumenico. Episodi come questo altro non fanno che confermare lirrilevanza, a livello nazionale, delle nostre chiese. Una irrilevanza già più volte segnalata e deplorata sulle pagine di Riforma (si veda, per quanto riguarda linformazione televisiva, il recente articolo di Paolo Naso nel n. 5 del settimanale), ma sulla quale dobbiamo interrogarci in modo più radicale di quanto abbiamo fatto finora.
La nostra invisibilità in Italia non può essere attribuita sempre e soltanto agli «altri»: a una radicata tradizione culturale, allinvadenza della chiesa cattolica, alla pigrizia e alla distrazione dei mezzi di comunicazione. Siamo noi stessi a renderci irrilevanti e invisibili, appagandoci della nostra stanca routine quotidiana. Stiamo fermi: il che, nella situazione attuale, equivale a condannarci a morte. Sarebbe ora che cominciassimo a dare qualche segno di vita. Questo non significa darci a un attivismo sfrenato nella speranza di conquistarci qualche brandello di spazio e un minimo di visibilità. Significa impegnarci a fondo, senza improvvisazioni, senza frenesie, ma con calma tenacia, per farci conoscere per ciò che siamo: cercando di dissipare almeno in parte lenorme ignoranza che tuttora avvolge, in Italia, tutto ciò che ha a che fare con il mondo della Riforma. Proponendo un modo di essere cristiani diverso sotto molti e importanti aspetti, pur condividendone i presupposti fondamentali, da quello cattolico. Portando chiarezza, ed esigendo chiarezza.
Questo obiettivo si può realizzare in molti modi, a seconda delle situazioni locali. Venezia, in particolare, continua a configurarsi come un laboratorio privilegiato sotto questo aspetto. Limpronta agguerrita e manageriale che il patriarca Scola ha impresso allistituzione cattolica veneziana rappresenta una sfida da raccogliere con competenza e determinazione. Allinterlocutore evangelico si richiedono solidità culturale, fermezza e insieme costante apertura al dialogo, inventiva (soprattutto sul piano ecumenico, creando occasioni di incontro e collaborazione al di là delle scadenze obbligate). E capacità di accoglienza. Quando usiamo questa espressione siamo soliti riferirci ai problemi connessi agli immigrati; ma questo ci porta a trascurare i tanti italiani «in ricerca», che potrebbero trovare la risposta alle loro necessità spirituali nelle nostre chiese, se solo esse si mostrassero più attente, più sensibili, più pronte allascolto. Soprattutto, più credenti: credenti nella realtà di quanto viene annunciato dai pulpiti tutte le domeniche. Dotate di maggiore carica spirituale. Di maggiore coerenza cristiana. Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 143 - numero 12 - 23 Marzo 2007. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo
Giovedì, 22 marzo 2007
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