A metà strada della Settimana di preghiera.
Quale ecumenismo?

di Letizia Tomassone

vice presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI)


Ogni anno ci troviamo di fronte allo stesso dilemma: come rendere vive le celebrazioni ecumeniche in modo da poterci trovare a casa in esse. Come far sì che tutto non si risolva in questi otto giorni.
Alla preghiera siamo chiamati da Dio e, tutto sommato, se si nominano le difficoltà, essere insieme significa accettare la sua promessa che sconfigge le nostre incomunicabilità.
Un po’ ovunque si cercano vie di dialogo, provando a non far ricadere le chiusure dei documenti ufficiali sulle relazioni locali fraterne e sororali che negli anni si sono costruite.
Un po’ ovunque si fa anche fatica a suscitare gruppi che portino avanti il dialogo durante tutto l’anno. Per esperienza sappiamo che funzionano meglio quei gruppi in cui ci si mette all’ascolto e allo studio della Parola.
Gli incontri ecumenici in fondo vorrebbero sfuggire alla definizione netta delle identità confessionali e fare spazio a percorsi che attraversano e aprono le denominazioni cristiane.
Forse proprio per questo conoscerci più in profondità, conoscerci nelle dinamiche comunitarie reciproche, non porta affatto a “cambiare chiesa” bensì a “cambiare la chiesa”. Vivere nella propria chiesa in modo ecumenico significa vederne i limiti e le parzialità e desiderare che si avvicini sempre più all’evangelo.
Alcune chiese protestanti italiane hanno quest’anno privilegiato i rapporti interni al mondo evangelico, condividendo la preghiera con chiese pentecostali. Per altre resta importante il rapporto stretto con la comunità parrocchiale cattolica più vicina. Il rapporto con le chiese ortodosse che stanno in Italia esprime anche il desiderio di entrare in un contatto privilegiato con quel mondo della migrazione che ci è ancora nascosto. Attraverso i rapporti ecumenici con gli ortodossi, le chiese italiane cattoliche e protestanti cercano possibilità di scambio e condivisione in una società che cambia. A partire da questa fede comune in Gesù Cristo si vorrebbe provare a disegnare una società molteplice e pacifica.
L’ecumenismo è una scuola di dialogo, e la società europea ne ha urgente bisogno. Ma proprio questo è forse difficile da capire per immigrati e immigrate che cercano anche nella loro identità religiosa una rassicurazione e un rifugio. Saper trasmettere comunione senza confondere, accettazione reciproca senza cancellazione delle diversità, è certo un obiettivo di questi momenti di preghiera comune.
La connotazione sociale della vocazione ecumenica può aiutare noi protestanti, sempre così critici di ogni estetismo e portatori di una consapevolezza storica della fede, a starci con più agio e più motivazione. Il clima di guerra e contrapposizione che si è diffuso nel mondo in questo inizio di secolo segna pesantemente le difficoltà della convivenza. L’ecumenismo è uno degli argini che possiamo mettere, per costruire spazi di incontro nella salvaguardia delle differenze.
Sono già cento anni che prosegue questa preghiera, solo da quarant’anni in comune tra protestanti, ortodossi e cattolici.
La perseveranza non serve a Dio, per il quale siamo già illuminati insieme dalla luce della grazia, serve a noi, per misurare i passi e cercare gli slanci che ci aprano a una dimensione più matura di umanità dialogante. (NEV 4/08)



Sabato, 26 gennaio 2008