Verso Sibiu. 4
PROTESTANTI E ANGLICANI VERSO SIBIU

di Brunetto Salvarani

Quarto di quattro articoli


Ringraziamo il carissimo amico Brunetto Salvarani, direttore di CEM-Mondialità, per averci messo a disposizione questo articolo, quarto di quattro, pubblicato sul settimanale Settimana (EDB) di Bologna sul prossimo incontro ecumenico di Sibiu.


Come abbiamo già riferito in precedenza sulle pagine di Settimana, funziona ormai a pieno regime la macchina organizzativa della terza Assemblea ecumenica, promossa nella città di Sibiu dalla KEK (Conferenza delle chiese europee) e dal CCEE (Consiglio delle Conferenze episcopali europee), che dal 4 al 9 settembre prossimi s’incentrerà su La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento ed unità in Europa.

In questo ulteriore contributo cercheremo di toccare con mano, sia pure a volo d’uccello, l’atmosfera dei rapporti fra la chiesa di Roma e il variegato microcosmo delle chiese protestanti e anglicane, anche per capire in che modo l’appuntamento rumeno potrà favorirne un reale miglioramento.

DUE MODELLI DI UNITA’

A partire da quello che si può forse considerare l’evento principale nell’ambito ecumenico-teologico del postconcilio: la firma della Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione, avvenuta ad Augusta il 31 ottobre 1999 (giorno della Riforma) da parte della chiesa cattolica e della Federazione Mondiale Luterana. L’iter del documento è stato accidentato, e ne restano fuori problematiche ancora controverse: questioni di fede e etica, di fede e responsabilità verso il mondo, il tema dei ministeri e la dottrina dei sacramenti. D’altra parte, come ha osservato P.Neuner, «con questo accordo si è creato un varco che deve rendere possibili ora ulteriori passi fino al pieno reciproco riconoscimento come chiese e alla comunione ecumenica nella cena eucaristica»[1].

In questo quadro si sta svolgendo, poi, un crescente scambio interconfessionale. I matrimoni fra cattolici e protestanti, sempre più frequenti, non sono più soltanto causa di tensioni e di scontri, come era in passato, ma diventano possibili luoghi d’incontro e di collaborazione fra i credenti dell’una e dell’altra chiesa. Nel ‘97, ad esempio, la CEI e la chiesa evangelica valdese hanno approvato un documento comune sui matrimoni misti o interconfessionali. È abbastanza frequente il caso di cattolici che frequentano il culto protestante in amicizia e senza diventare protestanti, e viceversa. Non sono rari del resto neppure i casi in cui un protestante si faccia cattolico o un cattolico diventi membro di una chiesa protestante, senza che si parli, come una volta, di abiura o di conversione, e senza quelle rotture di legami familiari o sociali che pesavano gravemente su coloro che per convinzione decidevano di passare da una chiesa all’altra. In vista di un dialogo a tutto campo, resta peraltro il nodo delle concezioni di unità delle due chiese, emerso in tutta la sua chiarezza nel corso della tappa romana di avvicinamento a Sibiu (gennaio 2006), che ha visto contrapporsi la tesi del cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, e quella della vescova Margot Kässmann, della chiesa evangelica tedesca. Per Kasper, infatti, il modello di unità rappresentato dalla Concordia di Leuenberg, sottoscritta da luterani, riformati, chiese unite e metodisti, non sarebbe compatibile con la concezione cattolica (e quella ortodossa), in quanto non risolverebbe alcuni nodi centrali, quali il ministero, e in particolare l’episcopato.

Heinz Rüegger, figura di spicco dell’ecumenismo evangelico svizzero, commentando le tesi del bel libro di S.Keshavjee Sogno un’unica chiesa per cattolici, protestanti, ortodossi[2], ha evidenziato che un sincero incontro ecumenico potrebbe aiutare le chiese protestanti a rimediare alla perdita della componente spirituale (nella vita personale dei credenti, nelle parrocchie, fra le autorità delle chiese e nelle facoltà teologiche): «Noi auspichiamo di essere aperti, liberali, impegnati sul piano sociale ed etico - e non ho nulla in contrario -, ma abbiamo perduto il senso di ciò che significa vivere nel e per il mistero della presenza di Dio». Accanto a ciò, egli ammetteva con parresìa, c’è il rischio di smarrire il senso della tradizione, a forza di occuparsi dell’attualizzazione del vangelo, qui ed ora; e quello di essere attirati da ogni corrente spirituale alla moda, senza essere solidamente radicati nel terreno della tradizione cristiana[3]. In tale ottica, un serio confronto con la chiesa di Roma, in un clima di reciproco ascolto, sarebbe senz’altro salutare…

I NODI DELL’ETICA

Per cogliere il livello odierno delle relazioni fra anglicani e cattolici, può essere utile riandare al faccia a faccia tra l’arcivescovo di Canterbury e leader anglicano reverendo Rowan Williams e Benedetto XVI del 23 novembre scorso. Sul piano storico, l’occasione dell’atteso rendez-vous era stata offerta dal quarantesimo anniversario tanto dell’incontro tra Paolo VI e l’allora primate anglicano Michael Ramsey, che impresse un nuovo slancio ai legami fra le due confessioni, quanto della contestuale fondazione del Centro Anglicano a Roma. Rispetto all’oggi, poi, si trattava di tastare il polso al clima attuale, in un momento variamente delicato per entrambe le chiese: con Roma impegnata a metabolizzare l’eredità del lunghissimo pontificato wojtyliano nell’ambito del dialogo ecumenico e interreligioso, e ancora scossa dalle polemiche con l’islam del dopo-Ratisbona, e Canterbury squassata da una crisi interna che si sta trascinando da gran tempo, su temi che riguardano il rapporto complesso con la modernità (dall’ordinazione femminile, approvata ufficialmente nel ‘92, alla questione omosessuale, con l’ordinazione di pastori dichiaratamente tali e le unioni gay, e alla recente apertura all’ipotesi di eutanasia passiva per i neonati prematuri con gravi malformazioni). Senza dimenticare una tappa non secondaria nell’itinerario comune sul versante teologico, l’uscita, a maggio 2005, del documento congiunto su Maria: grazia e speranza in Cristo, incentrato sull’affermazione per cui quando Maria è vista chiaramente in relazione a Cristo e alla chiesa, non provocando una diminuzione rispetto all’unico ruolo salvifico di Cristo stesso, la devozione a lei non rappresenta un ostacolo per i nessi anglicano-cattolici.

Viatico consolante alla visita romana si è rivelato un appuntamento che i commentatori hanno definito in qualche modo storico, la prima riunione bilaterale fra la Camera dei Vescovi della chiesa d’Inghilterra (anglicana) e la Conferenza Episcopale dei vescovi di Inghilterra e Galles, tenutasi fra il 14 e il 15 novembre a Leeds. I lavori, presieduti dallo stesso Williams e dall’arcivescovo di Westminster, cardinale Cormac Murphy-O’Connor, hanno registrato un clima fraterno, basato sulla preghiera condivisa, sul dibattito e sul desiderio di un ulteriore sviluppo dei punti di vista condivisi. Le riflessioni si sono fondate sull’elaborazione della Commissione Internazionale Anglicano-Cattolica per l’Unità e la Missione (IARCCUM), il cui documento finale dovrebbe essere pubblicato nel corso del 2007.

Oggi, al contrario di quanto accade in vari altri Paesi su scala mondiale, dove gode di buona salute e viene segnalata in decisa crescita, la chiesa anglicana sta attraversando proprio nel Regno Unito una certa crisi, del resto non riducibile ai ben noti casi dell’ordinazione femminile e dell’omosessualità. Di tale crisi sarebbe sintomo, fra gli altri, il passaggio alla chiesa di Roma di non pochi personaggi pubblici: lo stesso primo ministro uscente Tony Blair è da tempo segnalato in bilico fra le due appartenenze, sull’esempio della moglie, cattolica. Secondo alcune analisi, il problema di fondo consiste nello stretto legame fra chiesa e potere politico, risalente alle sue stesse origini (il sovrano del Regno Unito è, da sempre, automaticamente pure capo della chiesa d’Inghilterra, anche se non della Comunione anglicana, su cui non ha invece alcuna autorità): se la tensione tra dimensione temporale e sfera spirituale può considerarsi una spina nel fianco per diverse confessioni cristiane, nel caso inglese la situazione si presenta particolarmente complessa. Oltremanica, infatti, non si è verificata quella sorta di purificazione dal potere che - pur con ambiguità mai del tutto sopite - nel caso di Roma è derivata dalla fine del governo del papa-re e, nel caso dell’Est europeo, dalla persecuzione e dai martiri inflitti all’ortodossia dai regimi comunisti.

Ma veniamo all’incontro fra Benedetto e Rowan, definito unanimemente cordiale. «Il nostro lungo cammino insieme - si legge nella Dichiarazione congiunta conclusiva - rende necessario riconoscere pubblicamente la sfida rappresentata dai nuovi sviluppi che, oltre ad essere motivi di divisione per gli anglicani, costituiscono seri ostacoli al nostro progresso ecumenico». Richiamando la storica visita di Ramsey a Montini, il documento sottolinea il bene che è uscito da questi quattro decenni di dialogo ma afferma altresì l’urgenza, «nel rinnovare il nostro impegno nel proseguimento del cammino verso la piena e visibile comunione nella verità e nell’amore di Cristo», di impegnarsi «in un continuo dialogo per affrontare gli importanti argomenti ecclesiologici ed etici che rendono il percorso più arduo e difficile». Non è difficile leggere, e neppure fra le righe, che qui si alludeva alle questioni etiche e al tema, sempre incombente, del primato petrino. Qualche tempo fa, in effetti, il cardinal Kasper si è spinto a dichiarare che l’eventuale decisione anglicana di consacrare delle donne al rango di vescovo rappresenterebbe un ostacolo insormontabile al conseguimento della piena unità.

UN’UNITA’ PIENA E VISIBILE…

Nell’eterno movimento a pendolo del cammino ecumenico, messi accanto alla recente ripresa di contatti fruttuosi fra le chiese cattolica e ortodossa con la Commissione mista teologica (Belgrado, settembre 2006), la firma di Augusta e gli incontri fra cattolici e anglicani possono consentirci finalmente di pensare ad una stagione nuova, di frutti copiosi e di rinnovata speranza? Ovviamente, ci auguriamo di sì. Anche se non mancano mai, a margine, i commenti pessimisti, e le allusioni alla nebbia che, invece, sarebbe ormai calata sul percorso ecumenico. Senza nascondersi i tanti nodi ancora irrisolti, si può rinviare ai primi propositi da vescovo di Roma di Joseph Ratzinger, tutti improntati a dichiarare il dialogo con le altre chiese cristiane come il cuore del proprio operare. Fino ad affermare solennemente, proprio il 20 aprile 2005 (al termine della concelebrazione nella Cappella Sistina coi cardinali elettori), che per ricostruire tale unità non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti, ma occorrono gesti concreti che sollecitino gli animi a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso reale sulla via dell’ecumenismo. Come successore di Pietro, Benedetto XVI si assumeva «come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la mia ambizione, questo il mio impellente dovere».

Brunetto Salvarani



[1] P.NEUNER, Teologia ecumenica, Queriniana, Brescia 2000, p.321.

[2] S.KESHAVJEE, Sogno un’unica chiesa per cattolici, protestanti, ortodossi, Piemme, Casale Monferrato 2000.

[3] Ivi, p.100.



Venerdì, 13 luglio 2007