Giornata ebraico-cristiana e settimana ecumenica - Riflessione
Le ambiguità del dialogo interreligioso

di Piero Stefani

Hans Küng ha posto ormai da parecchi anni come motto a un suo vastissimo programma di ricerca lo slogan stando al quale «non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c’è dialogo tra le religioni senza una ricerca sui fondamenti delle religioni». Così facendo, egli ha dato un contributo, sul piano retorico, alla scelta di presentare le religioni come grandi protagoniste dell’equilibrio mondiale. Questa visione da un lato esalta il dialogo interreligioso, mentre dall’altro lo riconduce a una specie di funzione ancillare. Lo eleva perché lo rende fattore primario di concordia, lo deprime in quanto la sua ragion d’essere viene giustificata solo in base a un unico, per quanto rilevante, scopo: la pace tra le nazioni. In definitiva, così facendo, il dialogo viene indicato come semplice rovescio della medaglia caratterizzata sul diritto dalla formula: scontro di civiltà.
In effetti il programma di Küng presupponeva il conclusivo, e per lui imprescindibile, passaggio relativo alla ricerca sui fondamenti delle religioni. Quest’ultimo aspetto implicava molte componenti, ivi compresa l’esistenza di una dimensione in qualche modo più ampia e accomunante che potesse consentire di valutare in modo non arbitrario somiglianze e differenze. Nella dimensione effettuale ciò però non ha trovato grande riscontro. Sul piano descrittivo si deve infatti prendere atto che il dialogo interreligioso si risolve, in sostanza, in incontri tra i rappresentati delle religioni che sono disposti a intraprenderlo. Nel convenire stesso dei protagonisti si troverebbe così la prova del fatto che le religioni comunicano insegnamenti aperti al dialogo e alla comprensione. Non vi è perciò alcuna ragione per ricercare fondamenti comuni o specifici, essi infatti vengono conglobati entro la stessa prassi di incontrarsi. In tal modo l’atto di radunarsi diventa verifica, oltre che alla disponibilità al dialogo, anche del fondamento degli intendimenti comuni. Il centro della scena è dunque occupato dagli esponenti delle religioni che si danno periodici appuntamenti, dimostrandosi ormai in grado di trattarsi in modo reciprocamente amichevole. Nello stesso tempo, essi risultano del tutto incapaci di confrontarsi con i membri delle loro stesse religioni che, in nome delle proprie convinzioni, chiudono la porta a ogni confronto con gli altri. Questa dicotomia dimostra che, in genere, nessuno dei dialoganti ha fatto davvero i conti in casa propria.
L’affermazione secondo cui non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni ha preso piede al punto da far sì che i rappresentati delle religioni debbano essere, di norma, convocati quando si parla di pace. Il che, a propria a volta, comporta che la semplice accettazione dell’invito è considerata sufficiente a provare che il messaggio autentico delle rispettive fedi è foriero di pace. In altre parole, il lessico religioso è diventato parte costituiva di quello politico fino a far sì che il primo si ridefinisca in base al secondo. Ci si trova quindi di fronte a un’operazione di segno opposto, eppur anche affine, a quella condotta dai fondamentalismi; movimenti contraddistinti, in primis, dalla decisione di aver tramutato la religione in ideologia politica.
Il fatto di non aver scavato con sufficiente coraggio e acutezza nelle profondità e nelle ambivalenze di tradizioni millenarie rende deboli le posizioni dialoganti sia rispetto agli assalti interni dei radicali e degli intransigenti, sia nei confronti delle, spesso brutali, semplificazioni, dei neo-atei. In effetti, la scelta di dare per scontato che le religioni comunichino un concorde messaggio di pace, di solidarietà umana, di rispetto delle libertà individuali e così via rischia, addirittura, di dare una qualche plausibilità persino a posizioni rozze come quelle espresse da Richard Dawkins nella sua L’illusione di Dio. Non a caso sembra di nuovo tornato di moda imputare alle religioni la causa di ogni male e vedere nella loro auspicata scomparsa una rigenerazione universale.
In realtà, la spiegazione di molte dinamiche legate ai dialoghi interreligiosi può essere rinvenuta anche seguendo una linea di basso profilo. Essa si trova nella volontà di alcuni esponenti religiosi di autoaccreditarsi al ruolo di consiglieri delle autorità politiche: vale a dire di esperti dei modi in cui va il mondo. Diamone un paio di esempi.
A Washington il 7 novembre scorso i capi delle comunità e istituzioni religiose ebraiche, cristiane e musulmane di Terra santa hanno elaborato una dichiarazione incentrata suoi Luoghi santi. Essa contiene sei impegni assunti in proprio dai firmatari: 1. mettere a punto procedure rapide di comunicazione reciproca al fine di contattare e consigliare il governo su questioni riguardanti l’accesso e la protezione dei Luoghi santi; 2. identificare meccanismi per monitorare i media; 3 riflettere insieme sul futuro di Gerusalemme; 4. promuovere un’educazione e un rispetto reciproco nelle scuole e nei media; 5. dimostrare, attraverso le nostre relazioni, che le differenze possono e devono essere affrontate con il dialogo piuttosto che con la violenza; 6. fornire consulenza ai responsabili dei nostri governi. Specie i punti primo e ultimo rendono palese che l’accettazione sul piano retorico della massima di Hans Küng «non c’è pace fra le nazioni senza pace tra le religioni» è qui fatta propria dagli esponenti delle tre religioni al fine di essere accreditati come interlocutori e come consiglieri politici.
Considerazioni analoghe possono essere compiute in riferimento alla lettera aperta e appello di 138 guide religiose musulmane Una parola in comune tra noi e voi. Nella parte conclusiva essa afferma: «Trovare il terreno comune tra musulmani e cristiani non è semplicemente una questione di corretto dialogo ecumenico fra i capi religiosi. Il cristianesimo e l’islam sono, rispettivamente, la più numerosa e la seconda più numerosa religioni del mondo e nella storia. Cristiani e musulmani costituiscono rispettivamente, secondo le statistiche, oltre un terzo e oltre un quinto dell’umanità. Insieme formiamo più del 55% della popolazione mondiale; ciò fa delle relazioni tra queste due comunità religiose il fattore più importante per il mantenimento della pace in tutto il mondo. Se musulmani e cristiani non sono in pace, il mondo non può essere in pace».
Assumere un simile linguaggio implica tanto limitarsi a capovolgere la prospettiva dello scontro di civiltà, quanto individuare nella religione un fattore compenetrante e qualificante intere aree geografico-politico-culturali. L’analisi è palesemente infondata e non c’è da dubitare che lo sapessero pure le guide musulmane che l’hanno prospettata; essa però è del tutto funzionale al conseguimento di quella che pare una delle mete più riconoscibili dell’operazione: presentarsi come riferimenti ormai imprescindibili del dibattito pubblico internazionale.


Piero Stefani

Articolo tratto da:

FORUM (80) Koinonia

http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/



Lunedě, 14 gennaio 2008