INTERVISTA
Maria Bonafede incontra alcune chiese africane

a cura di Paolo Naso

Roma (NEV), 12 marzo 2008 - La pastora Maria Bonafede, moderatora della Tavola valdese (Unione delle chiese metodiste e valdesi in Italia) dal 21 febbraio al 3 marzo ha visitato le chiese evangeliche presbiteriane e metodiste del Togo, del Ghana e della Costa d’Avorio. In questa intervista la moderatora racconta della sua esperienza africana, degli incontri e delle prospettive di lavoro tra chiese del Nord e del Sud, e dei progetti otto per mille portati avanti in loco.

Quali erano gli scopi del suo viaggio in Africa?
Il viaggio è stato organizzato per me dalla Comunità di azione apostolica (CEVAA), di cui la chiesa valdese è membro, per creare relazioni vissute e non virtuali fra le chiese membro. L’occasione era il Sinodo della chiesa presbiteriana del Togo a cui, tra l’altro, appartiene il pastore che oggi cura la comunità francofona di Roma. Il Sinodo si è svolto nella città del potere politico (al dittatore morto succede un figlio in lite con il fratello che è a capo delle forze armate) si respirava una grande tensione perché per la prima volta dall’inizio degli anni novanta la chiesa si ritrovava lì e la sensazione di essere controllati, anche nei messaggi degli ospiti stranieri, era palpabile. Alcuni dei pastori presbiteriani che ho incontrato sono stati attivi nella resistenza e per molto tempo ricercati. Oggi le cose vanno meglio e ho avuto l’impressione di una chiesa viva e con delle idee.

Quali progetti le chiese valdesi e metodiste stanno finanziando in Africa con l’otto per mille?
Diversi progetti che riguardano la lotta all’AIDS, che è una vera piaga nel paese. Nei paesi in cui sono stata la malattia è molto presente, anche se non ai livelli del Sud Africa e della Namibia dove la metà della popolazione è ammalata. Sono progetti sanitari, pozzi per l’acqua nei villaggi, sostegno ai piccoli ospedali delle chiese perché acquistino macchinari e farmaci. Abbiamo anche visitato un foyer in Costa d’Avorio costruito con l’8 per mille: una bella casa per consentire ad una trentina di ragazze di alloggiare e studiare da infermiere.

Quali sono le immagini più impressionanti che si porta indietro da questo viaggio?
La povertà e la capacità di accoglienza. Tutti hanno una bancarella per strada e tutti vendono le stesse cose sperando che qualcuno si fermi a comprare: ananas, manghi, papaie, banane e manioca, un grosso tubero che è usato come la patata. Ogni pastore ha in casa quattro o cinque ragazzi e ragazze che mangiano e dormono al sicuro e danno una mano. Non sono dipendenti, ma in qualche modo “figli e figlie” sottratti alla strada e al degrado. Nonostante questo, dovunque ti accolgono con dei doni, con stoffe colorate che sono il segno dell’onore di essere visitati.
Accanto alla povertà ho l’immagine forte della dignità che queste persone trovano nell’essere membri di chiesa. L’essere cristiani e membri delle chiese presbiteriane e metodiste dà loro realmente la dignità dei figli di Dio. La chiesa è il luogo di incontro, di impegno, di crescita spirituale e morale, della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Ognuno ha un compito ed un vestito che indica il compito: i cori, i responsabili della comunità, le persone addette a che tutto sia in ordine.

Oggi molti membri delle chiese metodiste e valdesi provengono dalle chiese che lei ha visitato. Come vede il loro radicamento in Italia ed il loro ruolo nel protestantesimo italiano?
Ho incontrato i presidenti delle chiese metodiste del Togo, del Ghana e della Costa d’Avorio e così anche delle chiese presbiteriane. Sono stati incontri importanti, perché le chiese di origine dei fratelli e delle sorelle africani sono chiese grandi, piene di iniziative e di idee e piene di gente e di giovani. Sono chiese molto impegnate a livello sociale. Ho detto loro che noi siamo pronti ad accogliere questi fratelli e che esserci conosciuti dava maggiore solidità alla fiducia reciproca fra le chiese: nel senso che anche per loro sapere che in Italia c’è una chiesa come la nostra, con la storia che ha, è una garanzia per indirizzare quelli che partono e che si rivolgono alla chiesa per essere orientati. Ho detto loro che una cosa fondamentale è che apprendano la lingua italiana per non essere ghettizzati e ho raccontato loro il nostro sforzo nel progetto “Essere chiesa insieme” che punta proprio all’incontro ed alla piena comunione fraterna con le chiese italiane. Penso però che, anche se lavoriamo a questo progetto da vent’anni, non siamo che agli inizi e dobbiamo essere aperti a studiare tutte le soluzioni possibili per promuovere questi legami di fraternità con gli immigrati evangelici che provengono dall’Africa: la piena integrazione nelle nostre comunità e quindi in tutte le strutture amministrative e di governo delle nostre chiese; o la possibile integrazione nelle nostre chiese a livello nazionale, mantenendo la propria specificità a livello locale; o la costruzione di coordinamenti regionali tra le comunità africane e le nostre chiese, in uno spirito di piena comunione e di tensione verso una testimonianza comune. Insomma “essere chiesa insieme” rimane la nostra priorità, però sono anche convinta che non esista un unico modello di incontro e integrazione. Resta il fatto che la presenza di sorelle e fratelli africani in molte comunità ha arricchito la vita delle nostre chiese trasformandole; rimaniamo però consapevoli che molto ancora accadrà.



Giovedì, 13 marzo 2008