La sociologia cattolica e il mondo contemporaneo

di Rosario Amico Roxas

Se non è facile, e forse nemmeno possibile, delineare una storia precisa della sociologia cristiana, tuttavia si possono fare interessanti e utili rilievi su questa materia. Il primo è di carattere geografico; mentre nell’Occidente-Europa la sociologia di matrice religiosa si è sviluppata soprattutto in campo cristiano, nell’Occidente-America, terra promessa della sociologia, non si può dire che in questo settore di studi sia all’avanguardia. E’, inoltre, utile ricordare che la sociologia come scienza non è più di idee ma di fatti (crf. F. Barbano, Teoria e ricerca…, Milano, 1955); l’indagine religiosa è stata condotta e dominata dalle ricerche sull’ambiente familiare, sul posto di lavoro, sullo stato dei gruppi di minoranze etniche, linguistiche o culturali, sull’insegnamento religioso nelle scuole.

La sociologia religiosa ha privilegiato il terreno delle pratiche pie, ma con l’evoluzione del pensiero sociale della Chiesa l’interesse ha coinvolto altri settori della ricerca sociologica con implicazioni di ordine etico nella società laica.

Il sociologo cristiano si trovò a dover esaminare altre vie, connesse e interdipendenti, a quella prioritaria delle pratiche religiose. Innanzitutto dovette prendere atto delle relazioni dell’organismo sociale della Chiesa con la complessità della società; dovette, quindi, analizzare da una parte l’inserimento della Chiesa nella società moderna e dall’altra l’influenza esercitata sulla Chiesa dalle diverse condizioni e dai vari fattori del mondo sociale, c’è, infatti: “… una stretta interdipendenza tra il sacro e il profano, fra il tutto sacro e il tutto profano” (Guarlert Th. M. Steeman, La conception de la sociologie religieuse chez Gabriel Le Bras, in Social Compass, Vol.VI n. 1, Parigi, 1956)

Con l’orientamento attuale, inaugurato con il Concilio Ecumenico Vaticano II, si deve tener conto del fatto che

“…se la religione vive nel cuore degli uomini, ogni religione positiva nasce e si sviluppa all’interno di una società che influenza nelle forme e nei contenuti” (Cfr. G. Le Bras, Etudes de Sociologie Religueuse”, in Social Compass, vol. VI n. 1 Parigi 1956).

Questa constatazione, pur se del 1956, rimane estremamente attuale, in quanto sottolinea la necessità di affrontare e risolvere, per quanto possibile, la problematica dell’interazione tra Chiesa e Società, tra Stato e Chiesa, tra Religione e Organizzazione della vita civile.

Ma l’appartenenza religiosa acquista diverso significato a seconda della società a cui si riferisce; alla diversità delle Società corrisponde una differenza anche della religione positiva che vi si associa. Si comprende, così, il tipo di influenza che l’Islam esercita nelle nazioni arabo-musulmane, lì dove la priorità della religione influenza, a volte positivamente ma a volte negativamente, l’itinerario dello sviluppo sociale. Sembrano maturi i tempi di allargare gli orizzonti della sociologia religiosa e di cercare l’esplorazione degli immensi problemi che ruotano intorno ai rapporti tra Fede mondo moderno.

L’intensità di pressione sul mondo moderno da parte della sociologia cristiana si è attenuta, rivolgendosi prevalentemente agli aspetti sociali che contengono problematiche umane che esigono la presenza di valori più specificatamente di ordine religioso, quali la solidarietà verso i più deboli, la formazione di uno Stato Sociale in grado di mitigare le differenze tra ricchi e poveri Da parte cristiana c’è una importante apertura al dialogo sociologico con le altre religioni, specie a seguito del Concilio, ciò è ampiamente dimostrato da importanti documenti pontifici che hanno puntualizzato non pochi sviluppi avvenuti nella dottrina sociale della Chiesa; l’evoluzione sociale della Chiesa è stata e continua ad essere importante, anche se rimane statica la dottrina teologica.

Sotto questo aspetto si potrebbe parlare di flessibilità dell’organismo ecclesiale, poiché è opportuno che la Chiesa si adegui alle diverse situazioni sociali, senza, però, che la Chiesa si identifichi con una particolare struttura sociale, in quanto deve salvaguardare la propria autonomia nel fluire delle forme di organizzazione sociali che si succedono nella storia.

Con questa premessa corre obbligo rendersi conto dell’eco suscitata dalla pubblicazione dell’enciclica PP, che rivestì, e riveste ancora, una grande importanza anche per gli studiosi di sociologia; in tale enciclica, infatti venne offerta la prospettiva migliore per valutare lo status della Chiesa nella società moderna e non limitatamente agli anni della emanazione dell’enciclica, ma in prospettiva futura, in una visione "universale" che trascende l’attualità per proiettarsi nella dimensione umana ed etica che compete alla Chiesa.

Se l’insegnamento pontificio suscitò e suscita ancora echi e reazioni anche tra i non credenti, occorre accettare che mai il dialogo intrareligioso è stato così intenso. Sembra che Paolo VI abbia voluto ascoltare le voci profonde del mondo, abbia voluto interrogare gli uomini per rispondere ai loro dubbi, partecipando alle angosce e alle attese.

Balza, ancora oggi, dalla PP l’immagine di un pontefice moderno, immerso nella vita dell’umanità, pronto a levarsi in mezzo ad essa, non con spirito autoritario, ma con paternità universale, estesa a credenti e non credenti.

Furono in molti a chiedersi in quale modo avrebbe potuto esprimersi il nuovo corso della Chiesa, a quali gesti la Chiesa avrebbe affidato la nuova coscienza di sé e delle proprie responsabilità verso il mondo moderno. In molti pensarono che, chiusa la parentesi conciliare e reso il dovuto omaggio alle conclusioni innovative, tutto sarebbe continuato come prima, con appena qualche cambiamento necessario ai nuovi tempi ma limitati a far si che niente di sostanziale avrebbe inciso sul rapporto tra la Chiesa e l’intera umanità.

Da Paolo VI a Giovanni Paolo II A Paolo VI succedette Giovanni Paolo II che trovò la strada tracciata verso l’affermazione di quell’umanesimo plenario che era maturato nei tempi. Il dialogo intorno ai segni del tempo è proseguito e ha trovato nuovo vigore, perché la parola della Chiesa non è rimasta solamente una lettera enciclica, ma è diventata una missione ed una testimonianza, predicata in ogni angolo della terra. I viaggi di Giovanni Paolo II hanno consentito di “toccare con mano le gravissime difficoltà che assalgono popoli di antica civiltà alle prese con i problemi dello sviluppo”; hanno consentito, ancora, a tutti gli uomini di “ascoltare il grido di angoscia con cui i popoli della fame interpellano, con urgenza, i popoli dell’opulenza”. Il messaggio di Giovanni Paolo II rappresenta la traduzione di quanto avevano scritto i suoi più immediati predecessori; nelle sue omelie in giro per il mondo non ha utilizzato il linguaggio intemporale con la solennità pontificia, ha, bensì, immerso le sue parole nella congiuntura storica con lo stile di una persuasiva esortazione.

Sulla scia di Giovanni XXIII e di Paolo VI, Giovanni Paolo II ha testimoniato la teologia della Croce per continuare l’opera di Cristo, “il quale è venuto nel mondo per servire e non per essere servito”. La continuità dello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa è documentato anche dal modo di “scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo, così che in un modo adatto a ciascuna generazione si possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto”.

E’ questa la continuità nello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa, l’affermazione che i segni del tempo sono nelle competenze e nei compiti della Chiesa; solo che, quando prende in esame l’uomo nella sua condizione storica, essa abbandona l’ambito canonico del carisma dell’infallibilità e parla come Colei “che cerca insieme agli uomini che cercano”.

Ma anche in questo senso la Chiesa rimane nei suoi confini e non perché la carità cristiana rende la Chiesa interessata al destino temporale dell’uomo, ma per una ragione ben più profonda che riguarda la riuscita del progresso umano, che, pur essendo un ideale profano, in quanto inerisce al disegno della creazione, ricade sotto le responsabilità della Chiesa; “perché la Chiesa sia quella che deve essere, bisogna che il mondo sia quello che deve essere, bisogna che non ci sia la fame, non ci siano le discriminazioni tra popoli, non ci siano guerre con tutti i suoi flagelli. Sotto questo profilo e alla luce della continuità successiva, l’enciclica PP acquista un valore profetico. L’itinerario di Paolo VI si incrocia con quello del suo successore, particolarmente nel realismo dei messaggi spogli delle teorizzazioni sistematiche della tradizione sociologica cattolica, misurati sui dati e sui fatti verificabili e, insieme, attraversati da un impeto morale; proprio un simile realismo rivela il mutamento in senso profetico avvenuto nella coscienza ecclesiale. La falsa profezia è quella che divide questo mondo dall’altro mondo e sulla base di questa distinzione trascura tutto ciò che appartiene a questo mondo tracciando arcobaleni sospesi sul vuoto, confondendo, così, il vuoto con l’eterno. La vera profezia fissa lo sguardo nella connessione profonda tra questo mondo e l’altro e parla di questo mondo anche quando sembra che parli dell’altro. Le conseguenze che scaturiscono da questa impostazione attuale, moderna con proposizioni profetiche sono paradossali, valutiamo un passo della PP:

“ Certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchie per difetto e che essi non abbiano percepito il dinamismo di un mondo che vuol vivere più fraternamente e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori dalle vie della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore”.

L’indole profetica dell’itinerario dialettico di Paolo VI traspare nella sua globalità, anche se emerge un “calo” dottrinale. Molti teologi si sono trovati imbarazzati a calibrare la qualificazione dottrinale del documento di Paolo VI, ma questo ha poca importanza, quello che importa prioritariamente è che il linguaggio della Chiesa, quando entra nei problemi del mondo, abbia una sua forza realistica, capace di turbare anche i seguaci del materialismo. Già fin da Papa Giovanni XXIII nell’elencare “i segni del tempo”, la Chiesa non aveva trascurato le argomentazioni utilizzate poi da Paolo VI nella PP:

“I singoli essere umani, mentre partecipano sempre più attivamente alla vita pubblica delle proprie comunità politiche, mostrano un crescente interessamento alle vicende di tutti i popoli e avvertono con maggior consapevolezza di essere membra vive di una comunità mondiale”.

La PP entra in questo segno dei tempi sviluppandone le implicazioni antropologiche, più ancora di quelle solidaristiche e, al limite, recuperando la cornice cosmologica in cui quel segno va collocato per essere autenticamente interpretato:

“…i popoli più giovani e più deboli reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione di un mondo migliore”.



L’esigenza umanistica

Al di là delle rivendicazioni, l’inquietitudine dei popoli deboli nasconde, dunque, una esigenza umanistica di tipo creativo. Così inteso il segno dei tempi chiama in causa la Chiesa che di quella costruzione conosce il senso ultimo e il progetto originario.

L’intervento della Chiesa si articola in tre momenti tra loro complementari.

1) Il tipo di giudizio che la Chiesa deve esprimere sulla realtà in questo mondo. La denuncia contro la ricchezza iniqua dei pochi che si nutre della stessa disperazione dei molti, nei suoi termini immediati, un atto di giustizia, ma nel suo fine ultimo è un modo di lottare contro tutte le sperequazioni, giudicandole nelle manifestazioni più evidenti.

2) Vivendo ”in comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e vedendole insoddisfatte, desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità”. E’ appunto la competenza profetica della Chiesa: la visione globale non scaturisce dalla cultura umana, bensì dalla Parola che è stata consegnata alla Chiesa, nella quale si dispiega per intero il destino dell’uomo.

3) La Chiesa ritiene di poter ottenere udienza da tutti gli uomini in quanto “esperta di umanità”, sia in virtù delle tradizioni culturali che nella Chiesa si assommano, che in virtù della sua collocazione nella partecipazione al travaglio umano. Nell’ordine obiettivo la Chiesa accetta il confronto e fa appello alle coscienze, entra in quell’itinerario in cui tanto si sa progredire quanto si sa persuadere.

“Ciascuno esamini la sua coscienza che ha una voce nuova per la nostra epoca”

Purtroppo molte coscienze dimostrano, ancora, di avere una voce vecchia, per questo la Chiesa continua ad intervenire: per ricondurre tali voci a se stesse fino a renderli capaci di emettere la voce nuova e necessaria. Tutto il pontificato di Giovanni Paolo II è stato una predicazione continua, per portare negli angoli più noti o sperduti del pianeta la Parola della umana solidarietà.

Sono stati in molti a reagire con diffidenza alla lettera enciclica PP, altri sono arrivati alla ostilità, ma questo era nelle previsioni, o meglio, era nella natura intrinseca di un discorso mirato a trasformare il mondo. Quale forza obbligante può avere una lettera enciclica ?

La risposta può essere globale o parziale, o, addirittura, negativa; la forza obbligante corrisponde con la forza della coscienza; quale valore può avere distinguere la lettera nelle sue parti dottrinali, che sarebbero di fede, da quelle di carattere pratico, che sarebbero opinabili ? Il discorso di Paolo VI, che giunge dopo decenni di sviluppo del pensiero sociale della Chiesa, ha un valore unico e una sua interezza, va ascoltato nelle sue articolate argomentazioni e accolto nella misura della retta coscienza.

Per queste ragioni la PP è rivolta a tutti, anche a quelli che non credono nella infallibilità; nella PP, infatti, non ci sono argomentazioni che prevedono un certo tipo di certezza filosofica, è una sollecitazione

“…a tutti gli uomini e a tutti i popoli di assumersi le proprie responsabilità”;

questo è il severo monito e il sigillo delle argomentazioni dell’enciclica, che, anche per questo è un documento modernissimo e sempre attuale, perché porta i segni del Nuovo Umanesimo, che potremmo chiamare l’Umanesimo delle Responsabilità. Se l’organo soggettivo della responsabilità è la coscienza, il suo valore oggettivo è l’uomo, la persona umana, nel cui primato credono concordemente cristiani e musulmani:

“Ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l’uomo dalle sue servitù, per renderlo capace di divenire lui stesso l’attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso materiale e dello svolgimento pieno del suo destino spirituale”

quale uomo di buona volontà potrebbe respingere un programma di questo genere; l’Islam, come abbiamo visto, indica l’itinerario dell’uomo come “sforzo per indirizzarsi a Dio” per diventare egli stesso testimone e rappresentante di Dio sulla terra.

Che altro sosteneva Marx quando nel Manifesto preconizzava una società in cui la libertà di ciascuno avrebbe dovuto essere effetto e condizione della libertà di tutti ? Certo nel determinare i contenuti e il fine di quelle libertà gli uomini tornano ad essere divisi. Ma se saranno concordi nell’obiettivo formale e sinceramente attenti alla condizione attuale dell’uomo, essi potranno facilmente rivedere e superare le diversità ideologiche e partecipare all’operoso dialogo centrato sulla libertà dell’uomo. Gli squilibri, ancora oggi, esistenti sono innanzitutto un delitto contro l’uomo, la sua dignità e le sue possibilità creative.

Non è difficile identificare i responsabili di tale delitto in quelle nazioni che vivono al di sopra delle loro reali possibilità sottraendo le materie prime ai popoli più deboli; si scatena, con l’egoismo, l’uso e l’abuso del potere, fino ad arrivare all’arroganza del potere che non guarda oltre il proprio utile immediato. La logica dell’uso della violenza è diventato un metro costante per sovrastare e dominare gli altri. L’enciclica PP li denuncia senza mezzi termini e li condanna severamente, ma questo atteggiamento nasce dalla passione per l’uomo e dalla fede nella solidarietà, per questo diventa un monito irresistibile, destinato, nel tempo, a cambiare il mondo. E’, infatti, la Storia che condanna, non la Chiesa, perché in intende assumere, quali oggetto dei propri programmi e come criterio di giudizio un’immagine ideale dell’uomo, ma l’immagine concreta dell’uomo nel suo sforzo di

“crescere in umanità, valere di più, essere di più”

Ritengo doveroso insistere su questo tema, in quanto la Chiesa non intende elaborare una dottrina sistematica sugli obiettivi della crescita umana, bensì prende posizione a favore della crescita globale, perché tale crescita contiene in sé il suo dover essere, come una legge naturale.

“Non è soltanto questo o quell’uomo, ma tutti gli uomini sono chiamati a tale sviluppo planetario. Le civiltà nascono, crescono e muoiono. Ma come le ondate dell’alta marea penetrano ciascuna un po’ più a fondo nell’arenile, così l’umanità avanza sul cammino della storia”.

L’approdo all’umanesimo plenario, che nell’individuo si attua in una scelta di un regno che è di questo mondo, per l’umanità diventa l’approdo progressivo dello slancio vitale verso una meta che non compare ma che esiste e resiste nell’intimo dell’animo umano.

Una siffatta dottrina del progresso è tale da essere accolta anche da non ne accetta l’esito teologale, purchè non resti sedotto e limitato dall’umanesimo esclusivo.

L’umanesimo esclusivo non è più nemmeno umanesimo: rinnegando la globalità finisce con l’agire contro la sostanza stessa dell’uomo. In un tale sfondo antropologico prendono rilievo immediatamente negativo sia gli assiomi dell’ateismo che le deviazioni etico-sociali dell’individualismo.

L’umanesimo plenario, in nome del quale l’enciclica fa le sue contestazioni e le sue proposte, non è ritagliato dalla concettualistica metafisica, è rilevato, con processo induttivo, dalle stesse linee fornite dalla scienza, dall’antropologia, dalla sociologia, dalla fenomenologia e dalla complessa esperienza umana.

“La crescita umana costituisce una sintesi di tutti i nostri doveri”

Questo piegarsi della fede alle esigenze di un’etica dell’immanenza è possibile solo perché la recente riflessione cristiana ha messo sufficientemente in luce la convergenza tra la religione e la vita umana e, quindi, il carattere intimamente teologale di ogni discorso sull’uomo. Le ideologie contemporanee estranee alla tradizione umanistica, animate anche da risentimenti antireligiosi a causa del loro unilaterale interesse materiale per l’uomo, si sono ritrovate gomito a gomito con la sociologia del nuovo umanesimo della Chiesa, su un terreno dialettico dove mai avrebbero pensato di doverla incontrare.

E’ certo che anche le ideologie lontane dall’itinerario spirituale, hanno avuto la loro grande importanza, in quanto hanno focalizzato l’interesse per l’uomo, sia pure limitatamente ai valori materiali, sviluppando valori dell’intelletto e di vita morale, questa loro insistenza ha influito molto allo sviluppo del pensiero sociale della Chiesa, che finito con il riconoscersi in essi, fornendo una interpretazione più ampia e più globale. Accettando la direzione antropocentrica della cultura moderna la Chiesa ha posto nuove premesse incredibilmente feconde per iniziare un nuovo cammino nella storia del mondo. Anche nella Costituzione Pastorale del Concilio Vaticano II “La Chiesa nel mondo contemporaneo” era presente l’esigenza di un dialogo costruttivi e realistico, solo che Paolo VI lo rese ancora più esplicito nella sua PP e Giovanni Paolo II ne fece una predicazione costante.



Mercoledì, 28 novembre 2007