La dottrina sociale della chiesa cattolica
Paolo VI: La condanna del “Peccato Sociale”

di Rosario Amico Roxas

Se non è facile, e forse nemmeno possibile, delineare una storia precisa della sociologia cristiana, tuttavia si possono fare interessanti e utili rilievi su questa materia. Il primo è di carattere geografico; mentre nell’Occidente-Europa la sociologia di matrice religiosa si è sviluppata soprattutto in campo cristiano, nell’Occidente-America, terra promessa della sociologia, non si può dire che in questo settore di studi sia all’avanguardia. E’, inoltre, utile ricordare che la sociologia come scienza non è più di idee ma di fatti (crf. F. Barbano, Teoria e ricerca…, Milano, 1955); l’indagine religiosa è stata condotta e dominata dalle ricerche sull’ambiente familiare, sul posto di lavoro, sullo stato dei gruppi di minoranze etniche, linguistiche o culturali, sull’insegnamento religioso nelle scuole. La sociologia religiosa ha privilegiato il terreno delle pratiche pie, con l’evoluzione del pensiero sociale della Chiesa l’interesse ha coinvolto altri settori della ricerca sociologica con implicazioni di ordine etico nella società laica.
Il sociologo cristiano si trovò a dover esaminare altre vie, connesse e interdipendenti, a quella prioritaria delle pratiche religiose. Innanzitutto dovette prendere atto delle relazioni dell’organismo sociale della Chiesa con la complessità della società; dovette, quindi, analizzare da una parte l’inserimento della Chiesa nella società moderna e dall’altra l’influenza esercitata sulla Chiesa dalle diverse condizioni e dai vari fattori del mondo sociale, c’è, infatti:
“… una stretta interdipendenza tra il sacro e il profano, fra il tutto sacro e il tutto profano” (Guarlert Th. M. Steeman, La conception de la sociologie religieuse chez Gabriel Le Bras, in Social Compass, Vol.VI n. 1, Parigi, 1956)

Con l’orientamento attuale, inaugurato con il Concilio Ecumenico Vaticano II, si deve tener conto del fatto che
“…se la religione vive nel cuore degli uomini, ogni religione positiva nasce e si sviluppa all’interno di una società che influenza nelle forme e nei contenuti” (Cfr. G. Le Bras, Etudes de Sociologie Religueuse”, in Social Compass, vol. VI n. 1 Parigi 1956)
Questa constatazione, pur se del 1956, rimane estremamente attuale, in quanto sottolinea la necessità di affrontare e risolvere, per quanto possibile, la problematica dell’interazione tra Chiesa e Società, tra Stato e Chiesa, tra Religione e Organizzazione della vita civile.
Ma l’appartenenza religiosa acquista diverso significato a seconda della società a cui si riferisce; alla diversità delle Società corrisponde una differenza anche della religione positiva che vi si associa. Si comprende, così, il tipo di influenza che l’Islam esercita nelle nazioni arabo-musulmane, lì dove la priorità della religione influenza, a volte positivamente ma a volte negativamente, l’itinerario dello sviluppo sociale. Sembrano maturi i tempi di allargare gli orizzonti della sociologia religiosa e di cercare l’esplorazione degli immensi problemi che ruotano intorno ai rapporti tra Fede mondo moderno.
L’intensità di pressione sul mondo moderno da parte della sociologia cristiana si è attenuta, rivolgendosi prevalentemente agli aspetti sociali che contengono problematiche umane che esigono la presenza di valori più specificatamente di ordine religioso, quali la solidarietà verso i più deboli, la formazione di uno Stato Sociale in grado di mitigare le differenze tra ricchi e poveri
Da parte cristiana c’è una importante apertura al dialogo sociologico con le altre religioni, specie a seguito del Concilio, ciò è ampiamente dimostrato da importanti documenti pontifici che hanno puntualizzato non pochi sviluppi avvenuti nella dottrina sociale della Chiesa; l’evoluzione sociale della Chiesa è stata e continua ad essere importante, anche se rimane statica la dottrina teologica.
Sotto questo aspetto si potrebbe parlare di flessibilità dell’organismo ecclesiale, poiché è opportuno che la Chiesa si adegui alle diverse situazioni sociali, senza, però, che la Chiesa si identifichi con una particolare struttura sociale, in quanto deve salvaguardare la propria autonomia nel fluire delle forme di organizzazione sociali che si succedono nella storia.
Con questa premessa corre obbligo rendersi conto dell’eco suscitata dalla pubblicazione dell’enciclica PP, che rivestì, e riveste ancora, una grande importanza anche per gli studiosi di sociologia; in tale enciclica, infatti venne offerta la prospettiva migliore per valutare lo status della Chiesa nella società moderna e non limitatamente agli anni della emanazione dell’enciclica, ma in prospettiva futura, in una visione "universale" che trascende l’attualità per proiettarsi nella dimensione umana ed etica che compete alla Chiesa.
Se l’insegnamento pontificio suscitò e suscita ancora echi e reazioni anche tra i non credenti, occorre accettare che mai il dialogo intrareligioso è stato così intenso. Sembra che Paolo VI abbia voluto ascoltare le voci profonde del mondo, abbia voluto interrogare gli uomini per rispondere ai loro dubbi, partecipando alle angosce e alle attese.
Balza, ancora oggi, dalla PP l’immagine di un pontefice moderno, immerso nella vita dell’umanità, pronto a levarsi in mezzo ad essa, non con spirito autoritario, ma con paternità universale, estesa a credenti e non credenti.
Furono in molti a chiedersi in quale modo avrebbe potuto esprimersi il nuovo corso della Chiesa, a quali gesti la Chiesa avrebbe affidato la nuova coscienza di sé e delle proprie responsabilità verso il mondo moderno.
In molti pensarono che, chiusa la parentesi conciliare e reso il dovuto omaggio alle conclusioni innovative, tutto sarebbe continuato come prima, con appena qualche cambiamento necessario ai nuovi tempi ma limitati a far si che niente di sostanziale avrebbe inciso sul rapporto tra la Chiesa e l’intera umanità.
A Paolo VI succedette Giovanni Paolo II che trovò la strada tracciata verso l’affermazione di quell’umanesimo plenario che era maturato nei tempi.
Il dialogo intorno ai segni del tempo è proseguito e ha trovato nuovo vigore, perché la parola della Chiesa non è rimasta solamente una lettera enciclica, ma è diventata una missione ed una testimonianza, predicata in ogni angolo della terra. I viaggi di Giovanni Paolo II hanno consentito di “toccare con mano le gravissime difficoltà che assalgono popoli di antica civiltà alle prese con i problemi dello sviluppo”; hanno consentito, ancora, a tutti gli uomini di “ascoltare il grido di angoscia con cui i popoli della fame interpellano, con urgenza, i popoli dell’opulenza”.
Il messaggio di Giovanni Paolo II rappresenta la traduzione di quanto avevano scritto i suoi più immediati predecessori; nelle sue omelie in giro per il mondo non ha utilizzato il linguaggio intemporale con la solennità pontificia, ha, bensì, immerso le sue parole nella congiuntura storica con lo stile di una persuasiva esortazione.
Sulla scia di Giovanni XXIII e di Paolo VI, Giovanni Paolo II ha testimoniato la teologia della Croce per continuare l’opera di Cristo,

“il quale è venuto nel mondo per servire e non per essere servito”.

La continuità dello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa è documentato anche dal modo di

“scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo, così che in un modo adatto a ciascuna generazione si possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto”.

E’ questa la continuità nello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa, l’affermazione che i segni del tempo sono nelle competenze e nei compiti della Chiesa; solo che, quando prende in esame l’uomo nella sua condizione storica, essa abbandona l’ambito canonico del carisma dell’infallibilità e parla come Colei “che cerca insieme agli uomini che cercano”.
Ma anche in questo senso la Chiesa rimane nei suoi confini e non perché la carità cristiana rende la Chiesa interessata al destino temporale dell’uomo, ma per una ragione ben più profonda che riguarda la riuscita del progresso umano, che, pur essendo un ideale profano, in quanto inerisce al disegno della creazione, ricade sotto le responsabilità della Chiesa; “perché la Chiesa sia quella che deve essere, bisogna che il mondo sia quello che deve essere, bisogna che non ci sia la fame, non ci siano le discriminazioni tra popoli, non ci siano guerre con tutti i suoi flagelli. Sotto questo profilo e alla luce della continuità successiva, l’enciclica PP acquista un valore profetico.
L’itinerario di Paolo VI si incrocia con quello del suo successore, particolarmente nel realismo dei messaggi spogli delle teorizzazioni sistematiche della tradizione sociologica cattolica, misurati sui dati e sui fatti verificabili e, insieme, attraversati da un impeto morale; proprio un simile realismo rivela il mutamento in senso profetico avvenuto nella coscienza ecclesiale. La falsa profezia è quella che divide questo mondo dall’altro mondo e sulla base di questa distinzione trascura tutto ciò che appartiene a questo mondo tracciando arcobaleni sospesi sul vuoto, confondendo, così, il vuoto con l’eterno. La vera profezia fissa lo sguardo nella connessione profonda tra questo mondo e l’altro e parla di questo mondo anche quando sembra che parli dell’altro.
Le conseguenze che scaturiscono da questa impostazione attuale, moderna con proposizioni profetiche sono paradossali, valutiamo un passo della PP:

“ Certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchi per difetto e che essi non abbiano percepito il dinamismo di un mondo che vuol vivere più fraternamente e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori dalle vie della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore”.

L’indole profetica dell’itinerario dialettico di Paolo VI traspare nella sua globalità, anche se emerge un “calo” dottrinale. Molti teologi si sono trovati imbarazzati a calibrare la qualificazione dottrinale del documento di Paolo VI, ma questo ha poca importanza, quello che importa prioritariamente è che il linguaggio della Chiesa, quando entra nei problemi del mondo, abbia una sua forza realistica, capace di turbare anche i seguaci del materialismo. Già fin da Papa Giovanni XXIII nell’elencare “i segni del tempo”, la Chiesa non aveva trascurato le argomentazioni utilizzate poi da Paolo Vi nella PP:

“I singoli essere umani, mentre partecipano sempre più attivamente alla vita pubblica delle proprie comunità politiche, mostrano un crescente interessamento alle vicende di tutti i popoli e avvertono con maggior consapevolezza di essere membra vive di una comunità mondiale”.

La PP entra in questo segno dei tempi sviluppandone le implicazioni antropologiche, più ancora di quelle solidaristiche e, al limite, recuperando la cornice cosmologica in cui quel segno va collocato per essere autenticamente interpretato:

“…i popoli più giovani e più deboli reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione di un mondo migliore”.

Al di là delle rivendicazioni, l’inquietitudine dei popoli deboli nasconde, dunque, una esigenza umanistica di tipo creativo. Così inteso il segno dei tempi chiama in causa la Chiesa che di quella costruzione conosce il senso ultimo e il progetto originario.
L’intervento della Chiesa si articola in tre momenti tra loro complementari.

1) Il tipo di giudizio che la Chiesa deve esprimere sulla realtà in questo mondo. La denuncia contro la ricchezza iniqua dei pochi che si nutre della stessa disperazione dei molti, nei suoi termini immediati, un atto di giustizia, ma nel suo fine ultimo è un modo di lottare contro tutte le sperequazioni, giudicandole nelle manifestazioni più evidenti.

2) Vivendo ”in comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e vedendole insoddisfatte, desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità”. E’ appunto la competenza profetica della Chiesa: la visione globale non scaturisce dalla cultura umana, bensì dalla Parola che è stata consegnata alla Chiesa, nella quale si dispiega per intero il destino dell’uomo.

3) La Chiesa ritiene di poter ottenere udienza da tutti gli uomini in quanto “esperta di umanità”, sia in virtù delle tradizioni culturali che nella Chiesa si assommano, che in virtù della sua collocazione nella partecipazione al travaglio umano.
Nell’ordine obiettivo la Chiesa accetta il confronto e fa appello alle coscienze, entra in quell’itinerario in cui tanto si sa progredire quanto si sa persuadere.

“Ciascuno esamini la sua coscienza che ha una voce nuova per la nostra epoca”.

Purtroppo molte coscienze dimostrano, ancora, di avere una voce vecchia, per questo la Chiesa continua ad intervenire: per ricondurre tali voci a se stesse fino a renderli capaci di emettere la voce nuova e necessaria. Tutto il pontificato di Giovanni Paolo II è stato una predicazione continua, per portare negli angoli più noti o sperduti del pianeta la Parola della umana solidarietà.
Sono stati in molti a reagire con diffidenza alla lettera enciclica PP, altri sono arrivati alla ostilità, ma questo era nelle previsioni, o meglio, era nella natura intrinseca di un discorso mirato a trasformare il mondo. Quale forza obbligante può avere una lettera enciclica ?
La risposta può essere globale o parziale, o, addirittura, negativa; la forza obbligante corrisponde con la forza della coscienza; quale valore può avere distinguere la lettera nelle sue parti dottrinali, che sarebbero di fede, da quelle di carattere pratico, che sarebbero opinabili ? Il discorso di Paolo VI, che giunge dopo decenni di sviluppo del pensiero sociale della Chiesa, ha un valore unico e una sua interezza, va ascoltato nelle sue articolate argomentazioni e accolto nella misura della retta coscienza.
Per queste ragioni la PP è rivolta a tutti, anche a quelli che non credono nella infallibilità; nella PP, infatti, non ci sono argomentazioni che prevedono un certo tipo di certezza filosofica, è una sollecitazione

“…a tutti gli uomini e a tutti i popoli di assumersi le proprie responsabilità”;

questo è il severo monito e il sigillo delle argomentazioni dell’enciclica, che, anche per questo è un documento modernissimo e sempre attuale, perché porta i segni del Nuovo Umanesimo, che potremmo chiamare l’Umanesimo delle Responsabilità.
Se l’organo soggettivo della responsabilità è la coscienza, il suo valore oggettivo è l’uomo, la persona umana, nel cui primato credono concordemente cristiani e musulmani:

“Ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l’uomo dalle sue servitù, per renderlo capace di divenire lui stesso l’attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso materiale e dello svolgimento pieno del suo destino spirituale”

quale uomo di buona volontà potrebbe respingere un programma di questo genere; l’Islam, come abbiamo visto, indica l’itinerario dell’uomo come “sforzo per indirizzarsi a Dio” per diventare egli stesso testimone e rappresentante di Dio sulla terra.
Che altro sosteneva Marx quando nel Manifesto preconizzava una società in cui la libertà di ciascuno avrebbe dovuto essere effetto e condizione della libertà di tutti ? Certo nel determinare i contenuti e il fine di quelle libertà gli uomini tornano ad essere divisi. Ma se saranno concordi nell’obiettivo formale e sinceramente attenti alla condizione attuale dell’uomo, essi potranno facilmente rivedere e superare le diversità ideologiche e partecipare all’operoso dialogo centrato sulla libertà dell’uomo. Gli squilibri, ancora oggi, esistenti sono innanzitutto un delitto contro l’uomo, la sua dignità e le sue possibilità creative.
Non è difficile identificare i responsabili di tale delitto in quelle nazioni che vivono al di sopra delle loro reali possibilità sottraendo le materie prime ai popoli più deboli; si scatena, con l’egoismo, l’uso e l’abuso del potere, fino ad arrivare all’arroganza del potere che non guarda oltre il proprio utile immediato. La logica dell’uso della violenza è diventato un metro costante per sovrastare e dominare gli altri. L’enciclica PP li denuncia senza mezzi termini e li condanna severamente, ma questo atteggiamento nasce dalla passione per l’uomo e dalla fede nella solidarietà, per questo diventa un monito irresistibile, destinato, nel tempo, a cambiare il mondo. E’, infatti, la Storia che condanna, non la Chiesa, perché in intende assumere, quali oggetto dei propri programmi e come criterio di giudizio un’immagine ideale dell’uomo, ma l’immagine concreta dell’uomo nel suo sforzo di

“crescere in umanità, valere di più, essere di più”

Ritengo doveroso insistere su questo tema, in quanto la Chiesa non intende elaborare una dottrina sistematica sugli obiettivi della crescita umana, bensì prende posizione a favore della crescita globale, perché tale crescita contiene in sé il suo dover essere, come una legge naturale.

“Non è soltanto questo o quell’uomo, ma tutti gli uomini sono chiamati a tale sviluppo planetario. Le civiltà nascono, crescono e muoiono. Ma come le ondate dell’alta marea penetrano ciascuna un po’ più a fondo nell’arenile, così l’umanità avanza sul cammino della storia”.

L’approdo all’umanesimo plenario, che nell’individuo si attua in una scelta di un regno che è di questo mondo, per l’umanità diventa l’approdo progressivo dello slancio vitale verso una meta che non compare ma che esiste e resiste nell’intimo dell’animo umano.
Una siffatta dottrina del progresso è tale da essere accolta anche da non ne accetta l’esito teologale, purchè non resti sedotto e limitato dall’umanesimo esclusivo.
L’umanesimo esclusivo non è più nemmeno umanesimo: rinnegando la globalità finisce con l’agire contro la sostanza stessa dell’uomo. In un tale sfondo antropologico prendono rilievo immediatamente negativo sia gli assiomi dell’ateismo che le deviazioni etico-sociali dell’individualismo.
L’umanesimo plenario, in nome del quale l’enciclica fa le sue contestazioni e le sue proposte, non è ritagliato dalla concettualistica metafisica, è rilevato, con processo induttivo, dalle stesse linee fornite dalla scienza, dall’antropologia, dalla sociologia, dalla fenomenologia e dalla complessa esperienza umana.

“La crescita umana costituisce una sintesi di tutti i nostri doveri”

Questo piegarsi della fede alle esigenze di un’etica dell’immanenza è possibile solo perché la recente riflessione cristiana ha messo sufficientemente in luce la convergenza tra la religione e la vita umana e, quindi, il carattere intimamente teologale di ogni discorso sull’uomo.
Le ideologie contemporanee estranee alla tradizione umanistica, animate anche da risentimenti antireligiosi a causa del loro unilaterale interesse materiale per l’uomo, si sono ritrovate gomito a gomito con la sociologia del nuovo umanesimo della Chiesa, su un terreno dialettico dove mai avrebbero pensato di doverla incontrare.
E’ certo che anche le ideologie lontane dall’itinerario spirituale, hanno avuto la loro grande importanza, in quanto hanno focalizzato l’interesse per l’uomo, sia pure limitatamente ai valori materiali, sviluppando valori dell’intelletto e di vita morale, questa loro insistenza ha influito molto allo sviluppo del pensiero sociale della Chiesa, che finito con il riconoscersi in essi, fornendo una interpretazione più ampia e più globale.
Accettando la direzione antropocentrica della cultura moderna la Chiesa ha posto nuove premesse incredibilmente feconde per iniziare un nuovo cammino nella storia del mondo. Anche nella Costituzione Pastorale del Concilio Vaticano II “La Chiesa nel mondo contemporaneo” era presente l’esigenza di un dialogo costruttivi e realistico, solo che Paolo VI lo rese ancora più esplicito nella sua PP e Giovanni Paolo II ne fece una predicazione costante.

Due le chiavi di lettura dell’Enciclica di Paolo VI:

• la prima nella scia del percorso già iniziato con la Rerum Novarum, agganciando e completando le tematiche degli altri documenti più importanti che seguirono al RN e che precedettero la PP;
• la seconda che si caratterizza per l’innovazione degli argomenti che l’hanno resa di perenne attualità, essendo rivolta non più soltanto alle classi disagiate per riconoscere loro diritti precedentemente disconosciuti, ma perché si rivolge a tutti gli uomini nei loro rapporti interpersonali con tutti i popoli della terra.

I diritti che con le Encicliche sociali venivano riconosciuti alle classi, con la PP vengono dilatati a livello universale, perché tali diritti o sono universali o non sono più diritti, ma diventano privilegi di pochi, sostenuti e mantenuti solo con il fragore della forza che soffoca tutte le legittime esigenze, che sono analoghe sotto tutti i cieli del pianeta, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, perché il popolo dei vinti non tollera più di restare tale per destino scritto da altri nella loro storia; per questo la PP è anche profetica.
La PP si presenta, così, non solamente come una pastorale pietistica, che fa appello alla carità cristiana, ma si trasforma nella nuova sociologia dell’umanesimo integrale, ponendo una pietra miliare nel pensiero sociale della Chiesa, destinato a tutti gli uomini, senza differenze di censo, cultura, religione o colore della pelle.
Ne scaturisce anche il concetto di un diverso e nuovo peccato: il peccato sociale.
Anche nella sua impostazione la PP si diversifica dalle precedenti lettere Encicliche delle quali ha assimilato l’itinerario per portarlo ad un più ampio compimento.
A cominciare dal dossier personale del Pontefice, elaborato fin dai primi giorni di pontificato e, per la prima volta, reso pubblico per dare agio agli studiosi interessati di ripercorrere la strada seguita per giungere alle affermazioni finali dell’Enciclica.
Altra novità è rappresentata dalle collaborazioni richieste per approfondire le tematiche più urgenti, come quella del domenicano P. Lebret, esperto nei problemi del terzo mondo e autore del programma di sviluppo del Senegal, quindi le stesure successive dell’Enciclica, ben sette, con le annotazioni personali del Pontefice, che documentano l’iter travagliato, perché nessuna parola doveva essere occasionale, ma frutto di meditazione per esprimere quel preciso pensiero.
Si è potuto, così, assistere da parte di tutto il mondo alla nascita del documento e disporre di maggiori elementi per comprenderne lo spirito.
Gli studiosi del pensiero sociale della Chiesa poterono ricavare spunti preziosi per la ricerca delle fonti e l’esplorazione del retroterra culturale, che aveva ispirato lo spirito dell’Enciclica.
Poiché vi sono le basi per la nuova sociologia universale, anche nelle citazioni la PP si differenzia dagli altri documenti pontifici; precedentemente erano citati passi del Vecchio e Nuovo Testamento, affermazioni dei Padri e Dottori della Chiesa, con la PP si apre al mondo laico, infatti sono citati sacerdoti e laici come P. Lebret, J. Maritain, Colin Clark, mons. Larrain, Pascal, De Lubac.
L’itinerario della PP, anche se rappresenta la dilatazione a universale delle precedenti Encicliche, cosa che ci fornisce una spiegazione intellettuale dell’evoluzione, non può essere compresa nella sua intima essenza se si prescinde dall’itinerario umano del sacerdote Montini, che ci fornisce il chiarimento spirituale.
Non potrei non cominciare da quella baracca trasformata in Chiesa dove l’Arcivescovo di Milano, mons. Montini, celebrò la Messa di Natale il 25 dicembre del 1955; quel giorno documentò al mondo che la Chiesa è nata tra i poveri ed è destinata ai poveri, ed è la sola voce che può e deve levarsi forte per sostenere i diritti dei più deboli e dei più fragili, di quelli che non hanno voce per farsi sentire.
Come Arcivescovo mons. Montini visitò l’America Latina e l’Africa, ma non si fermò ad ammirare i superbi reperti archeologici dei conquistadores, ma guardò la realtà dell’indio e del negro, come realtà di uomini sofferenti in mezzo ad altri uomini opulenti ed egoisti; lì dovette maturare la convinzione del nuovo peccato commesso ogni giorno da quanti non vedono nel prossimo bisognoso la presenza di quell’Uomo che porta una Croce non Sua in giro per il mondo, appesantita dall’egoismo di tanti uomini, in una nuova Via Crucis dove si rinnova, stazione dopo stazione, il peccato sociale.
Ricordando la pastorale del Natale 1955, in quel gelido tugurio dove il Cristo era presente nei derelitti di una Milano occupatissima a celebrare non il rinnovarsi del mistero della Natività, ma il rito del cenone, e la lettera Enciclica PP, ritroviamo tutto l’itinerario dell’uomo Montini e la dilatazione degli orizzonti operata dall’assunzione della paternità universale.
L’esigenza di toccare con mano la miseria che affligge una grande parte del mondo, condusse Paolo VI, , eletto al Pontificato, a visitare la Chiesa dei poveri in un pellegrinaggio che lo portò, innanzitutto, in Palestina nel 1964, in quella terra travagliata e contesa; era solo il 1964, ancora l’esercito israeliano non aveva scatenato quella che la storia ricorderà come “la guerra dei sei giorni”, quando con un’azione aggressiva quanto fulminea occupò i territori che l’ONU aveva assegnato ai palestinesi, dalla striscia di Gaza a Sud, alla Cisgiordania a Nord, alle alture del Golan, insediando i coloni e schierando l’esercito a difesa dei territori occupati. Furono oltre 2 milioni i palestinesi costretti a fuggire dalle loro case, dai loro villaggi, dalle loro cittadine, riparando nelle nazioni arabe vicine, come profughi non sempre ben tollerati.
I residenti nella Cisgiordania ripararono in Libano alla periferia di Beirut nei villaggi di Sabra e Shatila, dove, nel settembre del 1982, in quattro giorni di feroci persecuzioni dal 15 al 18 del mese, vennero massacrati dall’esercito mercenario del gen. libanese Haddad in una spedizione di esecuzione di massa ordinata dal ministro della difesa israeliano Hariel Sharon ed eseguita dalle truppe mercenarie libanesi. Terminata quella orrenda strage, il mondo occidentale cercò di minimizzare il numero dei morti e, in un primo momento, parlò di 800 morti, ma l’evidenza dei fatti, emersa per l’intervento di vari organismi internazionali, obbligò la stampa di regime occidentale ad accettare che i morti “superarono i 10.000”.
Il numero esatto non potè mai essere accertato, perché i mezzi di distruzione di massa si basavano su bombe al fosforo e lanciafiamme per cui non restavano cadaveri da contare ma cenere. Un testimone, oggi rientrato in Palestina, dove ricopre un importante ruolo istituzionale nel governo provvisorio, riuscito a scampare ed a riparare ad Hammam Liff alla periferia Sud di Tunisi, in un villaggio messo a disposizione dal governo tunisino, mi raccontò di gruppi di persone colpite dalle bombe al fosforo, che bruciavano come torce umane e si gettavano in acqua per spegnere le fiamme che li divoravano, ma, quando uscivano dall’acqua, il fosforo, che era appiccicato alle loro carni, riprendeva a bruciare con maggior vigore, fino a consumarli. La gente veniva stipata nei piani bassi delle abitazioni e dalle finestre i mercenari introducevano i lanciafiamme; per fare quella operazione gli aguzzini indossavano maschere ignifughe per non bruciarsi a loro volta. Quelli che riuscirono a fuggire non potevano essere che i più giovani, mentre donne, anche giovani, non abbandonarono il loro posto di morte per non lasciare soli i bambini e gli anziani, accomunati tutti nello stesso destino di morte.
Quei poveri e oppressi, che Paolo VI volle visitare per portare una speranza di solidarietà, si apprestavano a diventare vittime, mentre l’Occidente, che ha da sempre sostenuto i governi israeliani, non ha mosso un dito prima per impedire quella strage di donne, vecchi e bambini (un giornale israeliano difese quella strage scrivendo che i bambini sarebbero presto diventati adulti da combattere, quindi era meglio ucciderli per tempo), quindi per aiutare i superstiti a sopravvivere.
Gli inviti alla solidarietà verso tutti i popoli della terra, espressi dal Santo Padre, caddero nel vuoto e prevalse, ancora, la logica dell’uso della forza per affermare il diritto alla prevaricazione.
Un successivo pellegrinaggio di Paolo VI nel mondo della povertà fu un viaggio “eroico” perché nel 1965 si recò in India, nel pieno della esplosione demografica, dove grandi e venerabili religioni venivano trattate, dalla cultura occidentale che anche allora si riteneva “superiore”, come superstizioni arcaiche e non come espressioni di una cultura più che millenaria; le parole del Pontefice, pur se seguite e ascoltate da milioni di indiani, si infransero contro il muro dei nazionalismi; quando si incontrano due culture e una di queste pretende di esercitare una superiorità, basata su fattori empirici e materiali, tutta da dimostrare, l’altra, che non è in grado di competere con la forza mediatica della precedente, si chiude in se stessa per ritrovare nel suo passato quell’identità che le viene svilita.
Un ulteriore viaggio fra i poveri portò Paolo VI fra gli orgogliosi grattacieli di New York, illuminati quotidianamente a festa, simboli tangibili di un’opulenza che mortifica tutta quella larga parte del mondo dei vinti, utilizzando la illusorietà del benessere, destinato, però, solo a pochi privilegiati. A New York il Santo Padre non si soffermò a compiacersi della esibizione di ricchezza, andò a cercare i più deboli in quei ghetti dove il colore della pelle marchia, ancora oggi, escludendoli dal consorzio del benessere, gli emarginati di Harlem; l’eccezione di Condoleeza Rice ne è la riprova, in quanto, giunta ai massimi vertici del potere si è schierata con il più forte dimenticando la storia che la riguarda personalmente.
Queste esperienze ci indicano le profonde motivazioni che portarono Paolo VI a inserire nella Sua PP gli esempi di uomini che nel silenzio della propria coscienza si erano adoperati con gli altri e per gli altri, come Charles de Foucauld, il martire della donazione al Terzo Mondo, padre Chenu, il grande teologo sostenitore dei preti-operai, che si “fracassarono le reni” nei miserabili sobborghi fra algerini e italiani sfruttati dalla grande industria, e ancora padre Lebret, che consacrò il suo genio al servizio dei popoli del Vietnam, del Senegal e del Nord-Est del Brasile.
Venne citato più volte il profetico e terribile documento del Concilio “Gaudium et Spes”, Gioia e Speranza, lì dove assicura gioia e speranza a chi riconosce nel povero l’immagine di Cristo, escludendo coloro i quali, nazioni, popoli o singole persone, hanno privilegiato l’accaparramento delle ricchezze in contrapposizione alla distribuzione della solidarietà; fu una citazione profetica con una promessa e una condanna.
Voci vecchie e antistoriche coniarono per Paolo VI il soprannome di “Papa comunista”, perché aveva voluto andare oltre l’interpretazione di un Vangelo consolatorio e aveva voluto calare nell’attualità il Verbo della universalità e della uguaglianza di tutti gli uomini non solo davanti a Dio, (sarebbe stato un discorso limitato al mondo dei credenti), ma identificando tale uguaglianza nell’intima natura dell’uomo, senza distinzioni di razza, cultura, qualità della vita, sviluppo tecnologico o religione: un discorso cattolico e, quindi, universale.
Nel rigurgito di un anticomunismo antistorico e di propaganda che ci sta martellando in questi anni, che hanno superato il 2000, risulta molto evidente la ragione per la quale Paolo VI, con la Sua PP, sia stato messo da parte, con la segreta speranza che fosse anche dimenticato.
Altre ragioni motivano il silenzio intorno alla PP, particolarmente in questi ultimi anni dopo il 2000, queste ragioni vanno ricercate nei temi dottrinali contenuti nel documento pontificio; tali temi non sono tutti preesistenti alla PP, alcuni vennero solamente ampliati, mentre altri rappresentarono una novità dottrinale caratteristica del tempo e profetica dei tempi futuri, come possiamo oggi ben constatare. L’elemento di maggior rilievo che oggi colpisce e condanna il metodo socio-politico dell’Occidente, è rappresentato dalla condanna esplicita dei principi del liberismo economico.

• I diritti di proprietà e di libero commercio non sono assoluti, ma “subordinati” alla “regola della giustizia, che è inseparabile dalla solidarietà” (PP n. 22, 23, 58).
• E’ un’esigenza la espropriazione dei beni non utilizzati con sufficiente socialità (PP n. 24).
• Non sarà mai sufficiente la condanna del capitalismo “senza freno” , della “concorrenza come legge suprema dell’economia” e del “profitto come motore essenziale del progresso economico” (PP n. 26).

Questa condanna non è nuova, poiché è connaturata con tutta la polemica antiliberale, che, sviluppata a oltranza, ha indotto settori interessati della politica mondiale imperniata sul capitalismo, ad usare nei confronti del pensiero sociale della PP la qualifica equivoca di “socialismo cristiano”.
Parallelamente alla condanna del neo-liberismo produttore del capitalismo monopolistico, altri temi vennero sviluppati seguendo l’evoluzione dei tempi, giungendo a momenti di vera profezia: un’analisi anche superficiale dei tempi attuali documenta la lungimiranza di Paolo VI. I temi ampliati e sviluppati sono quelli inerenti i principi di etica sociale nei rapporti tra individui (ricchi e poveri) o tra classi (datori di lavoro e lavoratori); nella PP questi stessi principi vengono estesi alla urgenza etico-giuridica dei rapporti tra popoli; la divisione del pianeta in Nord (ricco e sprecone) e Sud (arretrato tecnologicamente e vivente sotto i limiti della dignità della vita) è l’opposto di quanto Paolo VI auspicava e che ha lungamente predicato.

• Nella Rerum Novarum il Pontefice Leone XIII aveva ritenuto insufficiente il libero consenso delle parti nella stipula dei contratti di lavoro, in quanto tali contratti devono rispondere ai criteri di giustizia obiettiva (Rerum Novarum n. 27).
• Con la dilatazione delle tematiche a livello planetario Paolo VI estese lo stesso concetto anche ai contratti stipulati fra popoli, per tutelare l’equità a favore dei più deboli (PP. N.29)

L’uso esclusivo dei beni, condannato già per l’individuo negando al diritto di proprietà privata ogni valore assoluto in tutta la tradizionale dottrina della Chiesa, non è ammissibile neppure per i popoli.

• “Nessun popolo può pretendere di riservare a suo esclusivo uso le ricchezze di cui dispone”, si afferma con chiarezza nella PP, che si richiama allo stesso principio sostenuto dal Concilio Ecumenico Vaticano II (PP n. 48).
• Sulla stessa via si continua con la valutazione riguardante il superfluo: il dovere che l’individuo ha di riversare sugli altri i beni che superano il proprio bisogno; nella PP diventa un dovere anche per i popoli ricchi nei confronti di quelli poveri (PP n. 49).
• Il riferimento della PP al Concilio si collega al concetto di superfluo già indicato da Papa Giovanni XXIII e riportato in nota nella Gaudium et Spes: “considerare il superfluo con la misura della necessità altrui” (Gaudium et Spes n. 69, nota 10).
• La programmazione viene indicata come la via più corretta per facilitare l’intervento dei poteri pubblici nel coordinare le iniziative personali nel campo della solidarietà (Mater et Magistra, n. 19, 20, 21).
• Così tecnicamente precisata, la programmazione venne rinforzata nella sua validità operativa e proposta sulla via della “liberazione dell’uomo dalle sue servitù” materiali (PP n. 33, 34, 50)

Su questo insieme di elementi dottrinali rielaborati e amplificati si innestò una dimensione nuova e originale, da sociale interpersonale e interclassista a sociale internazionale e universale.
E’ certo che non si può affermare che la PP si sia fatta prendere la mano da una visione economicistica della vita; basta dire che il problema fu affrontato come una delle componenti economico-morali dello sviluppo dell’umanità, questo dato concorre ad attribuire alla PP quel volto di modernità e di attualità che si rinnova e riesce anche a diventare profetico.


Rosario Amico Roxas



Giovedì, 15 novembre 2007