Dottrina sociale chiesa cattolica - Commenti
Da Paolo VI a Giovanni Paolo II

di Rosario Amico Roxas

A Paolo VI succedette Giovanni Paolo II (dopo un brevissimo papato di Luciani) che trovò la strada tracciata verso l’affermazione di quell’umanesimo plenario che era maturato nei tempi.
Il dialogo intorno ai segni del tempo è proseguito e ha trovato nuovo vigore, perché la parola della Chiesa non è rimasta solamente una lettera enciclica, ma è diventata una missione ed una testimonianza, predicata in ogni angolo della terra.
I viaggi di Giovanni Paolo II hanno consentito di "toccare con mano le gravissime difficoltà che assalgono popoli di antica civiltà alle prese con i problemi dello sviluppo"; hanno consentito, ancora, a tutti gli uomini di "ascoltare il grido di angoscia con cui i popoli della fame interpellano, con urgenza, i popoli dell’opulenza".
Il messaggio di Giovanni Paolo II rappresentò la traduzione di quanto avevano scritto i suoi più immediati predecessori; nelle sue omelie in giro per il mondo non ha utilizzato il linguaggio intemporale con la solennità pontificia, ha, bensì, immerso le sue parole nella congiuntura storica con lo stile di una persuasiva esortazione.
Sulla scia di Giovanni XXIII e di Paolo VI, Giovanni Paolo II ha testimoniato la teologia della Croce per continuare l’opera di Cristo, "il quale è venuto nel mondo per servire e non per essere servito".
La continuità dello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa è documentato anche dal modo di "scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo, così che in un modo adatto a ciascuna generazione si possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto".
E’ questa la continuità nello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa, l’affermazione che i segni del tempo sono nelle competenze e nei compiti della Chiesa; solo che, quando prende in esame l’uomo nella sua condizione storica, essa abbandona l’ambito canonico del carisma dell’infallibilità e parla come Colei "che cerca insieme agli uomini che cercano".
Ma anche in questo senso la Chiesa rimane nei suoi confini e non perché la carità cristiana rende la Chiesa interessata al destino temporale dell’uomo, ma per una ragione ben più profonda che riguarda la riuscita del progresso umano, che, pur essendo un ideale profano, in quanto inerisce al disegno della creazione, ricade sotto le responsabilità della Chiesa;

"perché la Chiesa sia quella che deve essere, bisogna che il mondo sia quello che deve essere, bisogna che non ci sia la fame, non ci siano le discriminazioni tra popoli, non ci siano guerre con tutti i suoi flagelli".

Sotto questo profilo e alla luce della continuità successiva, l’enciclica Populorum Progressio acquista un valore profetico.
L’itinerario di Paolo VI si incrocia con quello del suo successore, particolarmente nel realismo dei messaggi spogli delle teorizzazioni sistematiche della tradizione sociologica cattolica, misurati sui dati e sui fatti verificabili e, insieme, attraversati da un impeto morale; proprio un simile realismo rivela il mutamento in senso profetico avvenuto nella coscienza ecclesiale. La falsa profezia è quella che divide questo mondo dall’altro mondo e sulla base di questa distinzione trascura tutto ciò che appartiene a questo mondo tracciando arcobaleni sospesi sul vuoto, confondendo, così, il vuoto con l’eterno. La vera profezia fissa lo sguardo nella connessione profonda tra questo mondo e l’altro e parla di questo mondo anche quando sembra che parli dell’altro.
Le conseguenze che scaturiscono da questa impostazione attuale, moderna con proposizioni profetiche sono paradossali, valutiamo un passo della PP:

" Certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchi per difetto e che essi non abbiano percepito il dinamismo di un mondo che vuol vivere più fraternamente e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori dalle vie della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore".

L’indole profetica dell’itinerario dialettico di Paolo VI traspare nella sua globalità, anche se emerge un "calo" dottrinale. Molti teologi si sono trovati imbarazzati a calibrare la qualificazione dottrinale del documento di Paolo VI, ma questo ha poca importanza, quello che importa prioritariamente è che il linguaggio della Chiesa, quando entra nei problemi del mondo, abbia una sua forza realistica, capace di turbare anche i seguaci del materialismo. Già fin da Papa Giovanni XXIII nell’elencare "i segni del tempo", la Chiesa non aveva trascurato le argomentazioni utilizzate poi da Paolo Vi nella PP:

"I singoli essere umani, mentre partecipano sempre più attivamente alla vita pubblica delle proprie comunità politiche, mostrano un crescente interessamento alle vicende di tutti i popoli e avvertono con maggior consapevolezza di essere membra vive di una comunità mondiale".

La PP entra in questo segno dei tempi sviluppandone le implicazioni antropologiche, più ancora di quelle solidaristiche e, al limite, recuperando la cornice cosmologica in cui quel segno va collocato per essere autenticamente interpretato:

"…i popoli più giovani e più deboli reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione di un mondo migliore".

Rosario Amico Roxas
(raroxas@tele2.it)



Sabato, 08 dicembre 2007