La dottrina sociale della chiesa cattolica - Commento
Il capitale-lavoro nel Magistero della Chiesa

di Rosario Amico Roxas

Le voragini che si aprono nei casi più eclatanti di fallimenti plurimiliardari non possono essere l’occasione per esercitare rivincite personali ai vertici dello Stato; devono, piuttosto, essere l’occasione per rivedere il sistema, che mostra non soltanto segni di malfunzionamento, ma una crisi di fondo, che dilata la forbice economica tra la classe imprenditoriale, detentrice del capitale-denaro, e la classe produttiva, detentrice del capitale-lavoro; continua a essere falsato il concetto di capitale, che viene identificato, in senso neo-liberista, esclusivamente nel denaro, o, nel senso social-marxista, solamente nel lavoro, proiettando nel tempo il prosieguo di una anacronistica lotta di classe che frena lo sviluppo. La sinergia tra capitale-denaro e capitale-lavoro è il solo viatico per uno sviluppo ’equilibrato’ dell’economia e un’equa distribuzione della ricchezza, in grado di promuovere il miglioramento della qualità della vita presso tutte le categorie sociali di un paese evoluto, che non vuole tornare indietro verso i secoli bui del classismo.
Non possiamo trascurare che l’Italia è diventata un paese totalmente deficitario nel campo della politica economica, gestita a senso unico verso le incentivazioni alle imprese, e che le leggi finanziarie si avvalgono sempre di maxi-emendamenti, approvati solo ponendo la ’fiducia’ sul piatto della bilancia. Se nelle crisi suddette, per le quali saranno sempre le fasce più deboli a pagare con perdita dei posti di lavoro e con la vanificazione dei pochi risparmi affidati a speculatori senza scrupoli, dovessero emergere delle responsabilità personali, è giusto che vengano perseguite.
Ma non basta, occorre saper trovare gli antidoti necessari per far fronte alla perdita di competitività, che ormai attanaglia l’economia produttiva nazionale. In pochi anni l’economia italiana ha registrato una flessione della competitività e della concorrenzialità, che ha portato il paese dall’11° posto in campo mondiale del 1996, al 36° posto del 2007.
Continuare ad affidare l’andamento dell’economia nazionale a pochi finanzieri ha dimostrato tutti i suoi limiti, mentre la PMI, quella che da sola sostiene e promuove lo sviluppo economico, stenta a programmare ulteriori sviluppi, dovendo pagare lo scotto dei fallimenti delle grandi imprese del capitale monopolistico. Questa perdita di competitività è provocata anche dalla scelta dei mercati di sbocco; si è guardato ai mercati europei ed a quelli dell’ex blocco sovietico, trascurando le altre realtà a noi molto più vicine e molto più promettenti.
L’idea corporativa cristiana cercò di riassumere quanto di meglio la sociologia cattolica aveva sviluppato. Ma già fin dal 1961, quando apparve la Mater et Magistra di Giovanni XXIII, destò notevole stupore che quest’ultima non parlasse più dell’organizzazione corporativa della società, la nomina solamente quando richiama gli argomenti principali delle Encicliche sociali precedenti; l’impressione che se ne trae è quella di un accenno più per dovere di correttezza e di completezza che per riprenderne l’idea.
Dal contesto sembra chiara l’intenzione di Giovanni XXIII di limitarsi solo a riferire le affermazioni della Quadragesimo Anno, senza farle sue. Nessun cenno, poi, all’insistenza con cui Pio XII ritornò sulle stesse problematiche.
Ciò verrebbe a confermare che Papa Giovanni XXIII, quanto meno, non aveva un interesse particolare a ricordare gli insegnamenti del suo immediato predecessore relativi all’idea corporativa, quindi non ne rinnovò l’approvazione, né la raccomandò in modo esplicito.
Questo silenzio improvviso di un solenne documento ufficiale su un tema tanto ricorrente nell’insegnamento degli ultimi grandi pontefici, che tanto spazio aveva sempre avuto in tutto il pensiero sociale cattolico, non poteva passare inosservato.
Le interpretazioni furono molteplici, i più conservatori ritennero che si trattava di prudenza, in quanto erano ancora troppo recenti le esperienze di politica totalitaria, che avevano fatto del corporativismo una distorsione della visione cattolica, asservendolo alle esigenze dittatoriali; altri, più progressisti vollero interpretare quel silenzio come una revisione ed un definitivo abbandono dei progetti precedenti. Quest’ultima interpretazione venne avvalorata anche dal proseguire di quel silenzio, infatti neanche il Concilio parla del corporativismo cattolico.
La Costituzione Conciliare ’Gaudium et Spes’ (in seguito GS), nel capitolo IV della seconda parte studia diffusamente la vita della comunità politica, affronta espressamente il tema dell’organizzazione della società e dei gruppi intermedi, ma non parla di corporativismo. Anzi, fra i molti testi citati in nota non ne riporta nessuno che si riferisca direttamente all’argomento. Quale interpretazione dare di questo persistente silenzio ?
La risposta sta nella evoluzione culturale della società occidentale, non si tratta né di prudenza, né di rinnegamento, piuttosto si tratta di evoluzione e di superamento, per usare il termine impiegato da Paolo VI nell’allocuzione in occasione del 75° anniversario della RN (Oss. Romano, 23-24 maggio 1966). La Chiesa, oggi, non usa più la terminologia e gli schemi tipici del corporativismo cristiano, non perché disconosca la validità dei principi che l’hanno ispirato, ma perché lo sviluppo della società pluralistica dei nostri giorni ne renderebbe l’attuazione anacronistica.
Oggi potremmo essere in grado di realizzare gli stessi vantaggi che si intendevano raggiungere con le istituzioni corporative in modo diverso e, per di più, mettendoci al riparo di deviazioni totalitarie.
La lettera della Segreteria di Stato alla 26° Settimana sociale spagnola confermò questa interpretazione (Oss. Romano 4 aprile 1967).
In questa lettera si affermava:

’Sebbene (i corpi intermedi) siano necessari, ciascuno secondo la propria specifica finalità, essi rappresentano solo interessi circoscritti e parziali e non il bene universale del paese. Conseguentemente non hanno competenza per partecipare a quelle decisioni superiori che sono peculiari del potere politico, primo responsabile del bene comune’.

La ragione ultima di questo superamento della concezione corporativa va ricercata nell’accettazione, da parte della dottrina sociale cattolica, del pluralismo contemporaneo e del metodo democratico di socializzazione. Ciò non significa affatto un mutamento di principio.
Ho anticipato che ’potremmo’ essere in grado di realizzare gli stessi vantaggi di reciprocità di interessi e di sostegno, specie verso le classi più deboli e bisognose, applicando le norme della politica sociale per promuovere uno sviluppo equilibrato sia dell’economia, che della qualità della vita e della soddisfazione dei bisogni. La realtà che, invece, ci si presenta davanti, ogni giorno più marcatamente, è una realtà di disparità fra le classi, dove una minoranza eccede nel superfluo, mentre molti altri mancano dell’indispensabile. In questo nostro mondo occidentale esiste una classe intermedia, che fa da ammortizzatore sociale e rende meno visibili le differenze fra i due poli opposti, ma non si può parlare certamente di sviluppo equilibrato, mancando la priorità della politica sociale.
Con i principi della globalizzazione dei mercati tali differenze su accentuano ancora maggiormente, perché si parla solo di mercati, di progresso tecnologico, di consumismo e di logica dei consumi, trascurando di inserire in tale globalizzazione anche i bisogni della parte povera del pianeta, che rappresenta oltre il 70% dell’intera popolazione.
Tutto ciò avviene perché manca l’etica nelle nuove leggi dell’economia, che puntano sul pragmatico interesse immediato, trascurando tutto ciò che, in prospettiva, è intuibile che accada. Il mondo è tornato a dividersi, ma questa volta in Nord egoista, opulento e consumista, ma in larghissima minoranza; Sud in via di sviluppo o sottosviluppato, in larghissima maggioranza. La politica sociale delle nazioni dovrebbe dilatarsi e diventare politica sociale planetaria non per un senso umanitario, pietistico o assistenziale nei confronti delle classi più deboli e bisognose, ma per la salvaguardia stessa del genere umano. La fame, i bisogni, il sentirsi esclusi da un progresso solamente guardato da lontano portano inevitabilmente a fenomeni di intolleranza e insoddisfazione, specie se il benessere delle nazioni opulente è prodotto dalle materie prime sottratte alle nazioni sottosviluppate.

Rosario Amico Roxas
(raroxas@tele2.it)



Martedì, 04 dicembre 2007