Nella foto un aviere mentre arma un missile durante la guerra in Kossovo

Dossier  uranio esaurito

Solo chi non

voleva sapere non ha saputo

 

 

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L’articolo contenuto in questa pagina,  è stato pubblicato sul numero 13 de Il Ponte di Avellino del 1999.

Era in pieno svolgimento la guerra in Kossovo e infuriavano le polemiche fra pacifisti e No. Già allora erano però noti gli effetti dell’uranio usato nei proiettili sparati dagli aerei Nato. Già allora la notizia che tali proiettili venivano usati uscì su qualche giornale nazionale. L’associazione ambientalista Greenpeace, in particolare, rese noto, sul proprio sito Internet, un dossier molto dettagliato, che pubblichiamo nelle pagine successive. I pericoli erano tremendi.

La conclusione e amara, ma inevitabile: chi oggi dice di non sapere nulla di quanto è accaduto in Kossovo mente sapendo di mentire.

 

"Che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione.". Così recita testualmente il paragrafo 2309 del "Catechismo della Chiesa Cattolica" (pag. 426 edizioni Piemme) nella parte dedicata alla definizione della cosiddetta "guerra giusta". Si tratta di un concetto chiaro, condivisibile da chiunque, sia esso cattolico o meno.

Ebbene quello che sta accadendo in Kosovo mette in discussione proprio questo principio per poter definire "giusta" una guerra. Ci riferiamo in particolare alla notizia, pubblicata senza grande risalto dalla stampa e dalla tv, dell'uso da parte Nato di missili dotati di testate formate con il cosiddetto "uranio esaurito". Si tratta di un materiale molto pesante ed in grado di perforare qualsiasi corazza. Ha però il difetto di polverizzarsi nell'impatto con l'obiettivo. La polvere di uranio (che per quanto esaurito sia è pur sempre un materiale radioattivo) si spande così nell'aria e nel territorio circostante, contaminandolo irreparabilmente.

Succede così che chi si trova a dover ritornare sui luoghi dove sono avvenuti le esplosioni di testate all'"uranio esaurito" rimane inevitabilmente contaminato con effetti micidiali sull'organismo: si va dalla leucemia, alle più svariate forme di tumore, alla nascita di bambini deformi, figli delle persone contaminate. E' quella che i medici hanno definito "sindrome del golfo" perché è stata riscontrata sulla popolazione irakena successivamente alla "guerra del golfo". Per colmo di ironia anche gli stessi soldati americani che usarono tali armi sono stati coinvolti in tale malattia e, secondo stime, essi sarebbero alcune decine di migliaia.

Se la guerra della Nato serve ad impedire la violazione dei diritti umani in Kosovo, essa regala alla popolazione di quella provincia un futuro di morte peggiore di quello provocato dalle milizie serbe.

Le moderne armi, come giustamente osserva il Catechismo della Chiesa Cattolica, mettono pesantemente in discussione lo stesso concetto di "guerra giusta" che per secoli ha caratterizzato la posizione della chiesa che fra l'altro afferma : "Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato". E ancora: "Si è moralmente in obbligo di far resistenza agli ordini che comandano un genocidio".

Non resta che chiedere con forza che tacciano tutte le armi e ribadire, una volta per tutte, che le guerre non risolvono nulla e che nulla può giustificare un'azione di guerra quando viene messo in discussione il destino stesso dell'umanità.

Giovanni Sarubbi

GUERRA IN KOSOVO E RISCHIO CHIMICO IN ITALIA:

NOTA INFORMATIVA DI GREENPEACE

 

Come già verificato nel corso della guerra nel Golfo, i conflitti armati portano con se, oltre agli orrori delle morti e delle sofferenze immediate, il deterioramento delle condizioni ambientali generali, intendendo con questo termine non solo e non tanto la distruzione del patrimonio naturale di flora e fauna, quanto piuttosto  un peggioramento improvviso e massiccio delle caratteristiche di vivibilità di vaste aree. I recenti bombardamenti di installazioni petrolifere e petrolchimiche sul territorio serbo da parte della NATO hanno agitato uno spettro inquietante a cui non era stato dedicata alcuna valutazione preventiva del rilascio di ingenti quantitativi di composti tossici e nocivi. Nonostante ciò, la mancanza di un'informazione indipendente rende difficile qualsiasi valutazione di tipo ecotossicologico conseguente all'esplosione degli impianti di Pancevo o Novi Sad.

Mancando dati essenziali sulle quantità stoccate al momento dell'esplosione, misurazioni di concentrazione nei fumi e distanza della popolazione civile dagli impianti, diventa difficile qualsiasi speculazione circa il possibile rischio. D'altro canto, però, la natura dei composti utilizzati negli impianti petrolchimici jugoslavi non è diversa da quella di qualsiasi insediamento simile nel mondo e il bombardamento può essere paragonato ad un incidente di distruzione complessiva, qualcosa che non è accaduto nella storia recente costellata da singoli esplosioni e fughe di gas, ma che non ha mai visto, fortunatamente, l'applicazione pratica del tanto temuto effetto domino e cioè l'innesco di esplosioni ripetute a partire da un singolo impianto. Ma la mancanza di dati attendibili circa gli effetti dello sprigionamento della nube tossica  rende quasi incomprensibile al grande pubblico l'entità del disastro in corso, e quello possibile, come conseguenza del conflitto. Recentemente, il comando NATO ha specificato che le installazioni chimiche, petrolifere e petrolchimiche rappresentano di fatto obiettivi militari in caso di conflitto.  Per far comprendere maggiormente agli italiani cosa può significare trovarsi coinvolti in un bombardamento nelle vicinanze di un complesso di questo tipo, elenchiamo qui di seguito i rischi connessi alla distruzione degli impianti industriali più significativi presenti sulla costa adriatica.

 

BARLETTA:  Pur non essendo presenti installazioni industriali rilevanti, il porto viene utilizzato per lo scarico di materiale esplosivo destinato alla raffinazione, e/o tossico destinato agli impianti chimici adiacenti.

In particolare, è presente un deposito dell'API della capacità di stoccaggio di oltre 7.500 metri cubi di cui oltre 1.800 di prodotti di categoria A, i più pericolosi, e 5 m3 di categoria B, un deposito della ditta DABIT con capacità di oltre 4.150 m3 di prodotti di categoria A, ed infine un impianto di stoccaggio di oltre 1500 m3 di acido solforico destinati all'Enichem. Data la vicinanza del porto al centro abitato si può ipotizzare, vista l'entità delle quantità stoccate, che  in caso di esplosione completa,  la zona dei decessi potrebbe essere compresa in un raggio di circa 300 metri dal punto di esplosione e quella dei feriti sarebbe estesa a oltre 1 chilometro.  I decessi per la deflagrazione andrebbero aggiunti quelli dovuti alla contaminazione per il rilascio di acido solforico, composto estremamente tossico.

 

BRINDISI:  I rischi associati con la possibile esplosione dell'intero comparto industriale determinerebbero almeno l'esplosione di ingenti quantitativi di gas liquido stoccato con una sfera di decessi di circa 700 metri dagli impianti che coinvolgerebbe soprattutto la popolazione delle abitazioni immediatamente adiacenti alle industrie.

Il rilascio di composti chimici particolarmente pericolosi come cloro, dicloeroetano e cloruro di vinile potrebbero portare fino a 5 chilometri il raggio di danno fisiologico coinvolgendo l'area portuale, le strade provinciali Brindisi-Capo Bianco e Brindisi-T.re Mattarelle oltre alle frazioni abitate del comune comprese nel raggio d'azione stimato.

 

FALCONARA: L'area è a rischio soprattutto per la presenza degli impianti di raffinazione dell'API che includono zone di stoccaggio di numerosi composti, oltre 1 milione di m3 di composti di categoria A. La capacità di stoccaggio di oltre 17.000  tonnellate di GPL porta ad un rischio di esposizione con effetti mortali per un raggio stimabile intorno ai 1.000 metri, mentre l'area di rischio per i feriti potrebbe lambire l'area aeroportuale situata a circa 2.800 metri dall'area di stoccaggio. La presenza di piombo tetraetile potrebbe determinare una tossicità acuta delle nube rilevabile fino a 1 chilometro dallo stabilimento. Nel caso di esplosione della raffineria sarebbero coinvolti nell'area critica dei decessi i residenti  della frazione di Rocca Priora e Fiumesino e parte di quelli di Falconara Marittima. Le strutture comprese nel raggio dei decessi sono la strada statale n=B016 e quella N° 76 della Val d'Esino, nonchè i tratti ferroviari Pesaro-Ancona e Iesi-Falconara.

Ovviamente l'area dei feriti coinvolgerebbe le stesse zone ma per una superficie compresa in un raggio di circa 2 chilometri.

 

RAVENNA: Quello di Ravenna è uno dei più grandi impianti petrolchimici d'Italia che comprende produzioni chimiche che richiedono l'uso e lo stoccaggio  di ingenti quantitativi di composti esplosivi, infiammabili e tossici.  Per quanto riguarda il rischio di esplosione ed incendio, lo stoccaggio di greggio e GPL porterebbe alla creazione di un'area di decessi di almeno un chilometro di raggio dal punto di esplosione. Le zone comprese nell'area dei decessi sono la strada tra Ravenna e Porto Corsini, la strada statale N° 67 tra Ravenna e Marina di Ravenna ed il Canale Candiano Ravenna-mare. La tossicità della nube, oltre che dai prodotti di combustione, sarebbe aggravata dalla presenza di cloro, acido cloridrico, CVM, ammoniaca e acrilonitrile. La combustione di  composti come CVM (e suo prodotto di partenza DCE), cloro e PVC darebbero luogo alla formazione di acido cloridrico che è immediatamente tossico per l'uomo quando inalato in alte concentrazioni, e porterebbe alla formazione di ingenti quantitativi di diossine e furani che potrebbero depositarsi nelle aree comprese per un raggio di oltre 3 chilometri. La combustione di acrilonitrile dà luogo alla formazione di cianuri e tiocianati, entrambi estremamente dannosi per la salute umana. Il raggio di intossicati e feriti potrebbe arrivare a superare i 3,5 chilometri e coinvolgerebbe oltre le zone già comprese nel raggio dei decessi, anche le zone abitate della periferia Est di Ravenna e le frazioni limitrofe del Comune estendendosi fino alla strada statale Roma N° 309 Ravenna-Venezia.

 

PORTO MARGHERA:  Quello veneziano è senz'altro il polo petrolchimico più vulnerabile per la peculiarità della sua ubicazione a ridosso di grandi centri abitati compresa Venezia. Data la stretta vicinanza degli impianti chimici e petroliferi, è verosimile ipotizzare che un effetto domino potrebbe avere ripercussioni di gran lunga più

gravi di quelle ipotizzate sommando i rischi già previsti per i singoli impianti. Le stime vanno quindi interpretate come cautelative e gli effetti potrebbero essere ben più gravi nella realtà. Per quanto riguarda i decessi causati dalle esplosioni di materiali infiammabili ed esplosivi, l'area dei decessi  sarebbe compresa in circa 700 metri dal punto di esplosione, ma, considerando la diffusione all'interno dell'area degli impianti di stoccaggio, un bombardamento porterebbe sicuramente ad un'estensione notevole del raggio. Per la presenza di composti estremamente tossici come solventi clorurati, fosgene, acrilonitrile, DCE e CVM, la tossicità della nube porterebbe decessi entro un raggio di almeno 1,5 chilometri. Le zone coinvolte sarebbero quelle del porto industriale, della frazione di Cà Emiliani, la stazione ferroviaria di Porto Marghera e parte della statale N° 11.

 

L'area dei ferimenti per le esplosioni si estenderebbe a  circa 3 chilometri, mentre quella delle intossicazioni sarebbe compresa in circa 8 chilometri di raggio. Le aree coinvolte sarebbero quelle dei quartieri di Marghera e di Malcontenta, l'abitato di Mestre e Venezia e le isole piu vicine, le strade statali N° 11 e N° 309, il tratto ferroviario di Venezia e Mestre.

 

TRIESTE: Primo attracco italiano per prodotti petroliferi con oltre 30 milioni di tonnellate movimentate annualmente. Nelle vicinanze dell'area portuale sorge anche un impianto chimico che fa uso, tra l'altro di toluolo e metanolo. Gli impianti chimici e quelli di stoccaggio di prodotti petroliferi si trovano  a circa 200 metri dagli insediamenti abitativi e a meno di 500 metri dalle vie di comunicazione stradale e ferroviaria.

Ai decessi ed ai ferimenti ed intossicazioni che potrebbero derivare dall'esposizione diretta ad eventuali esplosioni, vanno poi aggiunti i danni fisici derivanti dalla contaminazione di vaste aree con pericolo di contaminazione delle falde acquifere. In eventi come quelli ipotizzati, è prevedibile una maggiore sensibilità per i bambini, per gli anziani e per i malati. Una categoria particolarmente a rischio sono poi da considerarsi i feti di madri esposte all'inalazione degli inquinanti che si liberano durante processi di combustione di alcuni prodotti chimici e petroliferi.

In particolare, certi composti, come alcuni Idrocarburi policiclici aromatici (IPA) le diossine, i furani, il piombo tetraetile, alcuni metalli pesanti,   il bisphenol-a ed alcuni esteri di acidi ftalici hanno mostrato capacità di interferire con il sistema immunitario, endocrino e riproduttivo in molte specie animali. Quando l'esposizione dei feti avviene in particolari momenti della gestazione, chiamati finestre endocrine, l'embrione è particolarmente sensibile allo stimolo indotto dagli ormoni.

L'assunzione materna di uno, o più, dei composti summenzionati potrebbe portare a danni molto seri per il  neonato.

 

EFFETTI SANITARI ED AMBIENTALI

DELL’URANIO IMPOVERITO

 

Greenpeace, Aprile 1999

 

 “L’uranio impoverito” contiene meno isotopo Uranio-235 di quello naturale e più isotopo Uranio-238. Deriva dalla produzione di uranio e utilizzato, in genere, come carburante  per i reattori atomici e per le armi nucleari. Sia l’uranio naturale che quello impoverito presentano le stesse proprietà fisiche e chimiche pur essendo  l’uranio impoverito meno radioattivo di quello naturale.

 

Esistono opinioni discordanti riguardo gli effetti sanitari ed ambientali delle munizioni di uranio impoverito, dovute soprattutto al dibattito in corso sulla salute dei reduci della guerra del Golfo. Le munizioni di uranio impoverito, infatti, furono ufficialmente usate per la prima volta nel conflitto nel Golfo in quantità considerevoli. La relazione  tra la “Sindrome della guerra del Golfo” e l’utilizzo  delle  munizioni di uranio impoverito è ben lungi dall’essere chiara. Il berillio, sostanza non nucleare contenuta nelle munizioni di uranio impoverito, è un metallo   tossico e potrebbe essere implicato nella Sindrome; tantomeno è chiaro l’effetto provocato sui reduci dai vaccini e dalle armi chimiche. Va notato che la ricerca sulla Sindrome della guerra del Golfo si sta allargando ad altre possibili cause oltre quella sull’uso delle  munizioni di uranio impoverito. Comunque, è  evidente che l’impatto principale sulla salute provocato  dall’esposizione all’uranio è dovuto ai suoi effetti come metallo pesante, in particolare sui reni – provocando  un aumento della nefrotossicità (danneggiamento dei reni). Ciò risulta da studi condotti sugli esseri umani e sugli animali (mammiferi). I principali rischi ad oggi conosciuti delle radiazioni in un contesto industriale che comporti una significativa esposizione all’uranio naturale – sotto forma di polveri o aerosol (ad esempio nelle miniere di uranio) – riguardano  un aumento dell’incidenza del cancro ai polmoni dovuto all’esposizione al gas radon, ed un aumento dei rischi legati all’esposizione diretta degli organi interni alle radiazioni rilasciate attraverso  l’inalazione o l’ingestione di particelle radioattive. Il rischio radiologico che deriva da particelle di uranio provenienti da munizioni di uranio impoverito, risulterebbe molto inferiore rispetto agli effetti nefrotossici dell’uranio in quanto metallo pesante. Inoltre  non va dimenticato l’impatto che l’uranio come metallo pesante tossico può causare all’ambiente, in particolare ai sistemi acquatici.

 

ESTRATTO DEL RAPPORTO

DI GREENPEACE

INTERNATIONAL

“L’EREDITÀ AMBIENTALE

DELLA GUERRA DEL GOLFO” 1992.

 

I conflitti armati provocano impatti di vario tipo sull’ambiente:

 

1. Preparazione del conflitto: ad esempio l’addestramento e le esercitazioni militari  utilizzano terre che potrebbero essere destinate ad altri usi, con un impatto molto maggiore. Ancora oggi  la salute umana risente dei radionucleidi  rilasciati in atmosfera dai test nucleari tra il 1945 ed il 1962.

 

2. I conflitti arrecano un danno all’ambiente: la tattica della terra bruciata fu utilizzata durante la guerra civile americana e più recentemente in Vietnam, Cambogia, Laos, Afganistan, Africa e nella guerra del Golfo.

 

3. I relitti delle guerre passate continuano ad infliggere perdite, come vecchie mine, ordigni inesplosi e armi chimiche scaricate in mare una eredità che continua ad uccidere e mutilare dopo decenni dalla fine dei conflitti.

 

4. La guerra assorbe risorse disperatamente necessarie altrove.

 

Questi effetti devastanti accrescono nel tempo l’impatto della guerra sulle popolazioni. Già nel corso della guerra del Golfo divenne evidente la necessità di tutelare l’ambiente in caso di conflitto, ed emersero le contraddizioni di quei paesi che adottano severe misure di tutela ambientale (anche riguardo al trasporto delle armi) per  poi ignorarle quando si trovano in una situazione di conflitto.

 

Risolvere i conflitti con l’intervento militare è quindi inaccettabile.

 

La guerra nel Golfo ha chiaramente illustrato come i conflitti armati possano oggi determinare un esteso impatto ambientale. In Yugoslavia, raffinerie sono state bombardate e un reattore nucleare ha subito la minaccia di un attacco missilistico. Il pianeta non può sostenere la guerra.

 

Nel 1991 il Segretario Generale della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED) Maurice Strong dichiarò riguardo alla guerra nel Golfo: “Hanno curato il mal di testa con degli analgesici ma nulla è stato fatto per curare il tumore, che nel frattempo è peggiorato perché  hanno somministrato il farmaco sbagliato”.

 

 

        

"Il Dialogo - Periodico di Monteforte Irpino" - Direttore Responsabile: Giovanni Sarubbi

Registrazione Tribunale di Avellino n.337 del 5.3.1996