Pubblicato nel volume "Charitas Vincit Omnia", studi in Memoria di S.E. Mons. Pasquale Cenezia Vescovo di Avellino (!967-1987) a cura dell'Istituto di Scienze Religiose "S. Giuseppe Moscati" di Avellino

Eucaristia e Martirio in alcuni documenti del II° e del III° secolo

Di Anna Carfora

 

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 INDICE

 

Eucaristia e martirio nelle lettere di Ignazio.

Eucaristia e martirio negli Acta Martyrum del II secolo .

Eucaristia e martirio nelle Lettere di Cipriano di Cartagine.

Leggere storicamente la teologia del martirio-eucaristia.

   In questo studio prenderò in esame le Lettere di Ignazio vescovo di Antiochia, alcuni Acta Martyrum  e alcune Lettere di Cipriano vescovo di Cartagine. In tutti questi documenti, infatti, viene posta una relazione tra l’eucaristia e il martirio. Le lettere di Ignazio sono databili alla prima metà del II secolo, alla seconda metà, invece, appartengono gli Acta considerati,  intorno alla metà del III sono state scritte le lettere di Cipriano.

   Tali documenti testimoniano inoltre – ed è ciò che principalmente mi propongo di mettere in evidenza attraverso questo studio – che la relazione che la Chiesa dei primi tre secoli ha colto tra l’eucaristia e il martirio si è modificata ed evoluta dal tempo degli scritti di Ignazio all’epoca delle lettere di Cipriano e che a tali cambiamenti non sono estranee ragioni di carattere storico.

 

Eucaristia e martirio nelle lettere di Ignazio

   Il vescovo di Antiochia scrive le sue lettere mentre viene tradotto a Roma, dove subirà il martirio[1]. Ignazio è, in senso letterale e spirituale, in viaggio verso il martirio e al martirio che dovrà subire dedica ampi riferimenti o anche solo cenni in quasi tutte le lettere[2]; si potrebbe dire che tutto quanto scrive viene scritto in catene, «in queste catene che porto», come egli stesso afferma nella Lettera ai Magnesii[3]. L’atmosfera del martirio permea, dunque, l’intero epistolario[4].

  Per Ignazio il martirio ha un carattere oblativo e sacrificale: «sono la vostra vittima e mi offro in sacrificio per voi Efesini, Chiesa celebrata nei secoli»[5], scrive nella Lettera agli Efesini. Nella Lettera ai Romani considera il martirio come l’altare sul quale sarà immolato a Dio: «non procuratemi di più che essere immolato a Dio, sino a quando è pronto l’altare»[6]. La dimensione offertoriale e sacrificale del martirio è in relazione stretta, secondo il vescovo di Antiochia, con l’imitazione di Gesù Cristo, della sua passione: «lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio»[7]. Contro ogni suggestione di sapore doceta, Ignazio afferma che Gesù Cristo realmente subì e patì nella sua carne. Perciò, come è stata reale la passione di Cristo, altrettanto reale è il martirio che i cristiani affrontano per il nome di Gesù. Come, attraversando quella passione, Gesù Cristo risuscitò dai morti,  così pegno finale del martirio è la risurrezione della carne alla vita eterna.

«Egli realmente fu perseguitato sotto Ponzio, realmente fu crocifisso e morì alla presenza del cielo, della terra e degli inferi. Egli realmente risuscitò dai morti poiché lo risuscitò il Padre suo e similmente risusciterà in Gesù Cristo anche noi che crediamo in Lui, e senza di lui non abbiamo la vera vita. Se come dicono quelli che sono atei, cioè senza fede, che egli soffrì in apparenza, essi che vivono in apparenza, perché sono incatenato? Perché bramo di combattere contro le fiere? Inutilmente morrei»[8].

   In Romani VI, 1 Ignazio scrive: «E’ bello per me morire in (eis) Gesù Cristo». Meglio sarebbe dire «morire verso Gesù Cristo». Utilizzando una preposizione di moto, Ignazio sottolinea la dimensione dinamica del martirio, la tensione escatologica che lo caratterizza[9].

   Anche l’eucaristia occupa una posizione centrale nelle riflessioni che Ignazio indirizza alle diverse comunità. Intorno all’unica eucaristia si edifica l’unica Chiesa, secondo Ignazio. E’ intorno all’altare che la comunità si raduna: vescovo, presbiteri, fedeli. «Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo»[10]. L’ecclesiologia di Ignazio ha il suo centro nella celebrazione eucaristica, vero sacramento dell’unità della Chiesa[11]; è intorno all’eucaristia che ognuno prende il suo posto nella Chiesa[12]. Nella Lettera ai Filadelfesi Ignazio esprime così la radice eucaristica dell’unità:

«preoccupatevi di attendere ad una sola eucarestia. Una è la carne di nostro Signore Gesù Cristo e uno il calice nell’unità del suo sangue, uno è l’altare come uno solo il vescovo con il presbiterato e i diaconi»[13].

 La centralità ecclesiologica dell’eucaristia corrisponde, dunque, alla sua centralità cristologica, l’eucaristia, infatti, si situa nel cuore del mistero di Cristo.

   Nella Lettera agli Smirnioti Ignazio propone, si potrebbe quasi dire, una definizione dell’eucaristia: «l’eucaristia è la carne del nostro salvatore Gesù Cristo che ha sofferto per i nostri peccati e che il Padre nella sua bontà ha risuscitato»[14]. Il contesto in cui l’affermazione è situata si rivela illuminante. Ignazio polemizza contro dissidenti di ispirazione doceta che si astengono dall’eucaristia perché negano la realtà della carne di Cristo; è contrastando questo tentativo di sminuire, decurtare il mistero di Cristo che Ignazio formula l’identità sostanziale tra la carne storica e la carne eucaristica di Cristo, l’unicità del mistero che indissolubilmente lega incarnazione, passione, morte e risurrezione del Signore[15].

  In virtù di questa contestualizzazione, già nella Lettera ai Filadelfesi e poi ancora più precisamente nella Lettera agli Smirnioti, Ignazio utilizza il termine eucaristia in senso tecnico.

  Dietro questa concezione di mistero globale del Cristo  che poggia sull’unicità della sua carne che è presente nell’eucaristia, è rintracciabile la teologia giovannea della carne (sarx) che è mistero di incarnazione nel Prologo e «pane per la vita del mondo»,  che dona la vita eterna e la risurrezione nell’ultimo giorno, nel capitolo VI del Vangelo[16].

   Già ad una semplice lettura, appare evidente che nel martirio e nell’eucarestia si trovano elementi comuni. Questi elementi sono riconducibili alla passione, con la sua spiccata dimensione offertoriale, e alla risurrezione.

Inoltre, anche l’eucaristia, come il martirio, apre alla vita eterna[17], si tratta dell’«unico pane che è rimedio di immortalità, antidoto per non morire»[18], cioè « il tossico capace di far morire la nostra morte, affinché noi possiamo “vivere in Gesù Cristo per sempre”»[19].

   Vi è dunque un parallelismo tra martirio ed eucaristia, mentre la passione e la risurrezione del Signore costituiscono la radice comune ad entrambi. Ma nel pensiero di Ignazio di Antiochia non si esaurisce qui la relazione che intercorre tra eucaristia e martirio. Si può infatti parlare di un vero e proprio valore eucaristico che il martirio, in Ignazio per la prima volta, viene esplicitamente ad assumere. Il martirio è un’eucaristia[20]. La Lettera ai Romani esprime in modo compiuto tale identificazione.

   Si possono individuare nella lettera due passi in particolare che esprimono la teologia eucaristica del martirio in Ignazio.

   Innanzitutto il martirio stesso è cibo eucaristico per il martire. In quanto carne e sangue di Gesù Cristo che nel martirio è presente con la sua passione, il martirio stesso è pane e vino, eucaristia, banchetto eucaristico a cui il martire prende parte:

«non mi attirano il nutrimento della corruzione e i piaceri di questa vita. Voglio il pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di David e come bevanda voglio il suo sangue che è l’amore incorruttibile»[21].

   In secondo luogo il martire stesso è cibo eucaristico:

«lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono il frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo»[22].

Il martire si offre,  dunque, come pane e diventa egli stesso corpo di Cristo.

  I due passi possono essere considerati più dettagliatamente. L’equivalenza martirio – eucaristia che è posta nel primo dei due, è un tema che, comparso per la prima volta in Ignazio, si incontra nella letteratura martirologica successiva – come esaminerò più avanti. In Romani VI, 1 si incontra qualche accenno  alla dimensione in cui è collocata l’assimilazione del martirio all’eucaristia: «il mio rinascere è vicino», afferma Ignazio, e in VII, 2-3: «vivendo vi scrivo che bramo di morire […]. Un’acqua viva mi parla dentro e mi dice: qui al Padre». Mangiando del pane e bevendo del vino del martirio, si consegue la stessa vita del risorto, si viene introdotti nel Regno di Dio. E’ dunque escatologica la dimensione in cui si colloca il martirio-eucaristia. Esso costituisce un passaggio dall’esito certo dal quale Ignazio desidera non essere minimamente distolto[23]: «lasciate che riceva la luce pura; là giunto sarò uomo»[24]; su questa terra, infatti, siamo uomini mancati, aborti fino a quando non conseguiremo la pienezza, la completezza della Vita vera[25]. L’attesa escatologica, dunque, pervade lo scritto di Ignazio, è l’ambito in cui si colloca la sua concezione eucaristica del martirio.

  La disamina del secondo dei due passi in questione conduce a conclusioni analoghe. Il martire è egli stesso pasto eucaristico, la sua carne è carne eucaristica, «frumento di Dio». Questo farsi «pasto» permette ad Ignazio di raggiungere Dio. Le fiere che di lui si nutriranno saranno tomba per il suo corpo, e Ignazio risorgerà libero in Gesù Cristo[26]. L’essere materialmente e letteralmente divorato dalle belve viene interpretato dal vescovo di Antiochia in chiave eucaristica.  Sotto i denti delle fiere la carne del martire diviene «pane puro di Cristo»; mentre le belve diventano tomba, passaggio obbligato  che conduce alla risurrezione. Anche in questo caso, il farsi eucaristia del martire è connotato escatologicamente, è trasformazione eucaristica attraverso il martirio che spalanca al martire le porte della vita eterna.

  Nella Lettera ai Romani, dunque, Ignazio sviluppa una teologia eucaristica del martirio con una chiara connotazione escatologica.

 

Eucaristia e martirio negli Acta Martyrum del II secolo .

   La Lettera della Chiesa di Smirne alla Chiesa di Filomelio  riferisce del martirio di Policarpo  vescovo di Smirne, martirio avvenuto, secondo la datazione che oggi risulta essere la più attendibile, tra il 166 e il 167 d. C.[27] In questo documento viene affermato il valore sacrificale del martirio. Policarpo, infatti, viene paragonato ad «un superbo montone scelto fra numeroso gregge per essere sacrificato ed approntato quale olocausto bene accetto alla divinità»[28] e il suo corpo sul rogo appare «non come carne da ardere, ma se mai quale pane posto a cuocere». Coloro che assistono al martirio avvertono «un sì soave aroma [...] che pareva spirasse incenso o qualche altro prezioso profumo»[29]. Il profumo d’incenso che si sprigiona sta a sottolineare, richiamando il sacrificio di aromi anticotestamentario, il valore offertoriale e sacrificale del supplizio di Policarpo[30]. Nel Martyrium Polycarpi si trova un testo essenziale per la relazione tra il martirio e l’eucaristia, la cosiddetta preghiera eucaristica di Policarpo dove può essere colta l’intima congiunzione tra sacrificio e eucaristia che fa pensare al martirio come a un sacrificio eucaristico[31]. Può darsi che la preghiera che la lettera della Chiesa di Smirne fa recitare al suo vescovo prossimo al martirio sia una vera e propria preghiera eucaristica, una di quelle che venivano recitate durante le celebrazioni eucaristiche, oppure che in qualche modo le ricalchi o ad esse si ispiri[32]. In ogni caso essa esprime identificazione tra eucaristia  e martirio. Il martirio, infatti, è descritto come un prendere parte al «calice di [...] Cristo per la risurrezione alla vita eterna [...] in qualità di pingue e gradito sacrificio»[33]; esso viene in tal modo assimilato ad una realtà sacramentale e ad una liturgia[34], diventa espressione gioiosa e rendimento di grazie per la sorte toccata al martire[35]. Nella Lettera delle Chiese di Lione e Vienne alle Chiese d’Asia e di Frigia, il documento che riferisce della persecuzione messa in atto contro cristiani della Gallia nel 177 d. C., viene posta in risalto la dimensione escatologica del martirio-eucaristia resa attraverso l’immagine del banchetto nuziale. La schiava Blandina  viene ritratta come «gioiosa ed esultante di uscire dalla sua vita, quasi fosse invitata a un banchetto di nozze»[36]. Invitata al banchetto messianico, cioè, alla mensa del Regno.

   Analogamente nel Martyrium Carpi, altro documento martirologico con discreta probabilità coevo ai due già considerati, Agatonice, prima di distendersi sul legno a cui sarebbe stata inchiodata e poi arsa, esclama: «Questo cibo mi è stato imbandito dinnanzi! Debbo avere anch’io la mia parte a questa mensa gloriosa!»[37].

In questi documenti del secondo secolo, dunque, appare largamente testimoniata una concezione pasquale del martirio: passione, morte, resurrezione sono l’orizzonte escatologico che si apre qui ed ora e fa irrompere il Regno di Dio nel momento stesso in cui i cristiani vivono il martirio.

 

Eucaristia e martirio nelle Lettere di Cipriano di Cartagine

 

   Cipriano scrive molte delle sue letterein tempo di persecuzione. Egli, infatti, diventa vescovo nel 249 e l’anno successivo scoppia la persecuzione di Decio. Molte di esse sono databili al periodo in cui egli se ne sta nascosto per non farsi catturare[38]. Nell’epistolario di Cipriano vi sono lettere che trattano espressamente del martirio[39], alcune, come la decima e la trentasettesima, sono indirizzate proprio ai confessori e ai martiri, ma in generale i riferimenti al martirio sono abbastanza frequenti, anche quando esso non costituisce il tema specifico delle lettere[40].

   Anche i riferimenti all’eucaristia sono molto frequenti nelle Lettere. Tanto che è possibile ricavare da esse una teologia eucaristica già discretamente formulata e organizzata. In particolare, la Lettera 63 costituisce un vero e proprio trattato sull’eucaristia. In essa Cipriano sviluppa, si potrebbe affermare, una teologia eucaristica della passione[41].

   Ma anche il rapporto che intercorre tra il martirio e l’eucaristia appare individuato e delineato nell’epistolario di Cipriano[42].

  In Cipriano il martirio assume, come nei testi che ho esaminato in precedenza, un valore offertoriale e sacrificale, ma, rispetto ad essi, si può rilevare una diversa accentuazione: il martirio viene rivestito di un più marcato valore espiatorio. Nella Lettera 58 si legge:

«come sarebbe vile da parte nostra non accettare di soffrire per i nostri peccati, quando lui, che era senza peccato, ha sofferto per noi»[43],

e nella Lettera 10:

«scorreva il sangue che doveva estinguere l’incendio della persecuzione, quel sangue che doveva sedare le fiamme e il fuoco della geenna»[44].

  Inoltre, il contesto escatologico in cui si situa il martirio, con gli elementi di lotta escatologica tra il bene e il male, prende accenti di più marcato sapore apocalittico. La straordinarietà dell’evento persecutorio che si profila all’orizzonte è tale per la virulenza che lo contraddistingue: «un combattimento più serio ed accanito»[45], ma anche per il significato che, stando a quello che afferma Cipriano, riveste:

«dovete infatti sapere e riconoscere che sta per giungere sul nostro capo il giorno della tribolazione: la fine del mondo e i tempi dell’anticristo sono vicini»[46].

  E ancora, sempre nella stessa lettera, Cipriano scrive del mondo «che ormai sta per finire»[47], mentre nella Lettera 59 parla della «venuta dell’anticristo ormai imminente»[48] e nella Lettera 57 afferma che «l’esercito del Signore deve essere armato per combattere la guerra delle milizie celesti»[49].

  In Cipriano l’escatologia della fine dei tempi si coniuga ad una sorta di pessimismo storico. I segni degli ultimi tempi, l’evidente senescenza del mondo sono collegati alla degenerazione dei comportamenti, alla caduta della tensione etica, all’indebolimento della fede:

«Non seguivamo le vie del Signore e non osservavamo i celesti precetti, che ci sono stati dati per raggiungere la salvezza. Nostro Signore ha fatto la volontà del Padre e noi non facciamo la volontà di Dio: Andiamo infatti in cerca di beni e di guadagni; desideriamo il prestigio; ci lasciamo prendere dalla gelosia e dalle rivalità; trascuriamo la semplicità e la fede, rinunziamo al mondo solo a parole e non coi fatti. Si è diventati indulgenti verso se stessi ed intransigenti verso gli altri»[50].

 Il martirio appare a Cipriano una conseguenza delle infedeltà dei cristiani:

«Bisogna infatti capire ed ammettere che il disastro così violento di questa persecuzione, che ha rovinato una parte grandissima del nostro gregge e che continua ancora a devastarla, è sopraggiunta a motivo dei nostri peccati»[51]. «Soffriamo questi mali, perché ce li siamo meritati con le nostre colpe»[52].

  Il martirio è dunque una giusta punizione[53], ma anche l’occasione per un mea culpa, la prova, il crogiuolo attraverso cui filtrare una fede troppo stanca e compromessa. In questo senso, Cipriano accende un nuovo punto di vista sul martirio. Egli legge l’evento all’interno della fede, non più soltanto come il frutto di una perversa volontà persecutoria, come il rifiuto e l’intolleranza del mondo nei confronti dei seguaci di Cristo ma anche come un evento voluto da Dio, inserito in un suo disegno e avente una finalità che riguarda direttamente i cristiani. Cipriano interpreta il martirio come una prova: «anche l’apostolo Pietro  ci ha avvertito che le persecuzioni avvengono per metterci alla prova»[54], scrive nella lettera indirizzata alla comunità di Tibari.

   Se per Ignazio l’eucaristia edifica la Chiesa e l’unità ecclesiastica è fondata sull’unica eucaristia, in Cipriano si incontrano delle bellissime, si potrebbe dire, similitudini e metafore eucaristiche della Chiesa.

 «L’unità del popolo cristiano è raffigurata anche da questo simbolo: come molti chicchi di grano quando sono uniti, macinati e impastati insieme, formano un solo pane, così in Cristo, che è il pane del cielo, vi è, come sappiamo, un solo corpo, nel quale la nostra pluralità è congiunta e confusa»[55].

 O ancora, nella Lettera 69:

 «quando il Signore chiama il suo corpo pane, che è fatto di molti grani, ravvisa nel suo simbolo l’assemblea del nostro popolo. Quando chiama suo sangue il vino ricavato dagrappoli ricchi di molti acini che danno un unico liquore, inmodoanalogo allude al nostro gregge. Formato dall’unione di una moltitudine di persone radunate insieme»[56].

  Ma nelle lettere di Cipriano è presente anche una vera e propria lettura eucaristica del martirio. Nella Lettera 76 si parla del martirio come calice di salvezza e rendimento di grazie. La cornice scritturistica proviene dai Salmi, dal salmo 115 in particolare:

«Lo afferma lo Spirito santo nei salmi: “Che cosa renderò al Signore per tutto quello che egli ha fatto? Prenderò il calice della salvezza ed invocherò il nome del Signore. La morte dei giusti è preziosa al cospetto del Signore” (Sal., 115, 12-13, 15)»[57].

 Cipriano parla del martirio come di un «degno tributo della nostra riconoscenza»[58].

«Chi non accoglierebbe volentieri e con prontezza il calice della salvezza? Chi non coglierebbe, pieno di gioia e di felicità, l’occasione per rendere al suo Signore una parte di ciò che egli ha fatto per noi?»[59].

 Il calice della salvezza è, in questo contesto, il calice con cui rendono grazie i già salvati, coloro che sono stati redenti da un altro sangue, il sangue di Cristo e che ricambiano, riconoscenti, versando il proprio.

  Ma appena un po’ prima, nella medesima lettera, si trova un passo di notevole importanza in cui, confortata da riferimenti biblici vetero e novotestamentari, viene formulata da Cipriano l’idea che il martirio sia esso stesso un’eucaristia. Celebrata «senza interruzione giorno e notte». Prendendo spunto dal fatto che i sacerdoti imprigionati erano impediti nella celebrazione eucaristica, Cipriano sostiene che il martirio sostituisce il sacrificio eucaristico.

«Fratelli carissimi, non potete considerare come danno per la vostra fede e per la vostra pietà il fatto che ora tra di voi i sacerdoti di Dio non hanno la possibilità di offrire, o di celebrare il sacrificio divino. Voi anzi celebrate e offrite a Dio un sacrificio prezioso e glorioso, che vi gioverà moltissimo per ottenere le ricompense celesti. Infatti la divina Scrittura dice: “Uno spirito afflitto è un sacrificio a Dio, Dio non disprezza un cuore contrito ed umiliato” (Sal., 59, 19).

   Voi offrite a Dio questo sacrificio, voi celebrate questo sacrificio senza interruzione giorno e notte, voi che siete diventati delle vittime per Dio, offrendo voi stessi in sacrificio santo ed immacolato, gradito al Signore»[60].

   Si tratta, qui,  della dimensione sacrificale ed offertoriale dell’eucaristia. L’eucaristicità del martirio consiste nell’offrire se stessi quali vittime a Dio. E infatti l’eucaristia stessa è nominata mediante il suo sinonimo “sacrificio”. E si tratta ancora, anche qui come in Ignazio e nel Martyrium Polycarpi, dell’assimilazione del martire all’eucaristia, dell’identificazione della carne del martire con quella, storica ed eucaristica, del Cristo.

  Ricorrono anche altre immagini del martirio dalla forte suggestione eucaristica, che richiamano quelle di Ignazio[61] e nelle quali è possibile leggere in filigrana, dietro il martirio, l’eucaristia:

«Voi, come grani scelti di prezioso frumento,  ormai passati al vaglio della prova e messi in serbo, considerate il carcere che vi detiene come un granaio. Anche d’autunno non manca per voi la grazia spirituale della stagione nell’offrire i vostri doni. Fuori è tempo di vendemmia e sotto il torchio viene pigiata l’uva che riempirà le coppe. Voi ricchi racemi della vigna del Signore, voi ormai grappoli d’uva matura siete pigiati dalla violenza della persecuzione del mondo e, mentre il carcere vi opprime, voi sentite in quello il torchio che attende noi tutti; voi spargete il sangue invece del vino e, forti nel sopportare il martirio, volentieri bevete alla sua coppa»[62].

   In Cipriano, però, oltre a quelli già indicati, compare un modo nuovo di porre in relazione l’eucaristia e il martirio. L’eucaristia è necessaria al martire che va ad affrontare il martirio.

«Non può essere adatto al martirio chi non è armato dalla Chiesa per il combattimento […]. Gli viene a mancare il coraggio se non riceve l’eucaristia che è in grado di ravvivarglielo»[63].

E ancora:

«si tratta di dare la comunione ai vivi, non ai moribondi. Non dobbiamo lasciare inermi e senza difesa coloro che teniamo in esercizio ed incitiamo a combattere, ma è nostro compito proteggerli con il corpo e il sangue di Cristo: Poiché l’eucaristia è un presidio per chi la riceve, armiamo con l’aiuto del nutrimento spirituale coloro che vogliamo difesi contro l’avversario.

   Come motivare la loro azione e incitarli a versare il sangue nella difesa del nome di Dio, se quando vanno a combattere rifiutiamo loro il sangue di Cristo? Come renderli capaci di bere alla coppa del martirio, se prima non li ammettiamo a bere nella Chiesa la coppa del Signore concedendo il diritto alla comunione?»[64].

    L’eucaristia è nutrimento, presidio, arma per il martire, lo mette in condizione di affrontare il martirio. Essa rafforza il martire e lo rende temprato per sostenere la prova suprema. Dopo essersi nutrito dell’eucaristia, il martire diviene esso stesso eucaristia nel martirio. Chi non beve il sangue di Cristo, afferma Cipriano, non può spandere il suo nel martirio.

 

Leggere storicamente la teologia del martirio-eucaristia

 

Mettendo a confronto Cipriano con Ignazio, Johanny afferma:

«Pour Ignace d’Antioche, le martyre conçu comme un’eucharistie est, pour lui, une veritable passion, en vue de l’union totale au Christ. La vision de Cyprien est plus calme, plus ample aussi […]. L’évêque de Carthage avec des  tendances très nette à la mystique est pourtant un réaliste»[65].

 Anche se non si possono negare differenze personali, temperamentali tra i due vescovi[66], certamente esse non sono sufficienti a spiegare le differenze. Intervengono altri fattori, di natura storica, a spiegare che cosa è cambiato nel frattempo nel modo di sentire  e interpretare l’eucaristia e il martirio e il legame che li unisce. E’ a partire da due diversi backgrounds storici che Ignazio e Cipriano esercitano il loro ministero e vivono la dimensione pastorale. Ignazio, Cipriano, e fra loro i martiri della seconda metà del II secolo, sono protagonisti di fasi diverse attraversate dalla Chiesa pre-costantiniana.

Quando Ignazio definisce l’eucaristia antidoto per non morire, la considera come la morte che vince la morte, con ciò esprimendo la paradossalità escatologica che caratterizza il rapporto che il cristianesimo dei primi tempi ha vissuto tra la vita terrena e la vita futura. Un rapporto che non è improntato alla fuga da questa vita o a un suo pessimistico disprezzo ma è vissuto in termini di salvezza e redenzione di questa vita in quella futura.

   Nei martiri della seconda metà del II secolo questa relazione viene ancora più accentuata e compiutamente tematizzata. Policarpo, Blandina, Agatonice e tutti gli altri festeggiano nel martirio l’irruzione del Regno di Dio nella storia, l’irruzione escatologica del futuro assoluto di Dio nel presente incompiuto dell’uomo. E l’eucaristicità del martirio è vissuta intensamente come partecipazione al banchetto messianico, alla mensa del Regno a cui si assidono qui ed ora vivendo il loro martirio. Per Cipriano, invece, è necessario sottovalutare «i beni presenti, pensare solo ai beni futuri»[67], «lasciare queste parti basse del mondo»[68]. Anche se con Cipriano si è ancora lontani da una vera e propria svolta ascetica, e in primo piano non c’è il disprezzo tout court di ciò che è terreno, tuttavia il pessimismo storico, il sentimento della vicinanza della fine dei tempi a partire da una crisi di valori che egli crede di riconoscere nel presente impronta largamente il suo atteggiamento.

  La Chiesa di Cartagine del III secolo non è la Chiesa di Antiochia né quella di Smirne o di Lione e Vienne del secolo precedente. Così come non sono identiche le persecuzioni che esse affrontano. Ormai, ai tempi di Cipriano, la Chiesa è cresciuta, conta un numero di fedeli molto maggiore di quanti non ne contassero le Chiese di Gallia e dell’Asia Minore del secolo precedente. E l’aumento del numero comporta un mutamento anche nella composizione delle comunità e nella qualità delle conversioni.

   D’altra parte, gli eventi persecutori del tempo di Cipriano si caratterizzano come a più vasto raggio e sono più capillari. Muovono, poi, da un diverso intento. Non sono episodici, sporadici, ma intenzionali e organizzati, diretti a colpire non un manipolo di esaltati, per quanto pericolosi potessero essere giudicati, ma un’istituzione caratterizzata da una larga base sociale e in competizione aperta, per quanto riguarda il consenso sociale, con lo stato romano. Un’istituzione che può contare anche su un solido patrimonio economico e i cui luoghi di culto sono stati eretti e funzionano sotto gli occhi di tutti.

   Cipriano vive una dimensione pastorale diversa da quella di Ignazio o di Policarpo. Egli deve fare i conti con le prime manifestazioni di un cristianesimo che comincia a diventare di massa. L’unità della Chiesa è seriamente minacciata da fatti scismatici come nei casi di Felicissimo[69] e Novaziano[70]. Il problema consistente che la Chiesa di Cartagine deve affrontare è quello dei lapsi – « la folla dei feriti che sono a terra, mentre poche persone rimangono ancora in piedi»[71]   il problema posto dalla defezione di molti di fronte alla prossimità, o anche solo alla minaccia, del martirio[72]. Ecco, dunque, che l’eucaristia diventa un aiuto importante nella persecuzione, serve a fortificare i cristiani, diviene l’arma con cui sono in grado di affrontare il martirio. La Lettera 57, dove viene esplicitata questa posizione, è una lettera sinodale sottoscritta non solo da Cipriano ma dai 42 partecipanti al concilio che si tenne nel mese di maggio del 252, quando le decisioni dell’imperatore Gallo lasciavano presagire un’imminente recrudescenza della persecuzione. In tale circostanza Cipriano e i vescovi dell’Africa decidono di riammettere alla comunione i lapsi che sono in penitente attesa della riconciliazione.

«Perché le pecore affidateci dal Signore non ci siano dunque strappate dalla nostra bocca che rifiuta la pace e con la quale mostriamo un rigore che è piuttosto effetto di crudeltà che di pietà paterna e divina, abbiamo deciso, sotto l’ispirazione dello Spirito santo. Ed anche perché eravamo spinti da molti e chiari avvisi del Signore, di riunire in campo i soldati di Cristo, poiché è chiaro che il nemico è vicino»[73].

  Una necessità pastorale legata alla situazione del momento. Così si esprime Cipriano a riguardo:

 «come suggeriva tutto il collegio dei vescovi, ho ceduto alle necessità dei tempi e ho pensato di provvedere alla salvezza di molti»[74].

    Ma c’è un’altra cosa, affermata con grande chiarezza e fermezza, nei passi di Cipriano sull’argomento: la funzione esercitata dalla Chiesa. E’ la Chiesa che provvede a rafforzare cristiani, martiri e confessori dispensando loro il cibo eucaristico. E allora, contro ogni tendenza rigorista e purista, Cipriano sostiene che questo aiuto non deve essere negato, che deve essere concesso quanto più è possibile:

«Come motivare la loro azione e incitarli a versare il sangue nella difesa del nome di Dio, se quando vanno a combattere rifiutiamo loro il sangue di Cristo? Come renderli capaci di bere alla coppa del martirio, se prima non li ammettiamo a bere nella Chiesa la coppa del Signore concedendo il diritto alla comunione?»[75].

 Però è anche vero che questa decisione spetta ai vescovi e solo a loro; non ai confessori[76]­– alcuni dei quali in virtù della loro testimonianza si arrogavano il diritto di ridare la pace ai lapsi – perciò la comunione eucaristica è possibile solo nella e per mezzo dell’unica Chiesa di Cristo.

   In conclusione, è possibile affermare che  la relazione posta da Cipriano tra l’eucaristia e il martirio testimonia un’evoluzione storica, risponde alle necessità e alle istanze del momento presente e evidenzia come nell’elaborazione teologica della Chiesa pre-costantiniana sia spesso presente una forte componente pastorale.

                                                                                              Anna Canfora

 



[1] Cfr. Lettera agli Efesini I, 2.

[2] Cfr ib.; VIII, 1; XII, 1; Lettera ai Magnesii I, 2; Lettera ai Tralliani III, 1; X; Lettera ai Romani II,2; IV 1-2; V-VII; Lettera agli Smirnesi IV, 2; Lettera a Policarpo VIII, 1.

[3] Lettera ai Magnesii  I, 2. Cfr. Lettera agli Efesini III, 1; XI, 2; XXI, 2; Lettera ai Magnesii XII; ettera ai Tralliani I, 1; V, 1; X; XII, 1; Lettera ai Romani I, 1; Lettera agli Smirnesi IV, 1; X, 1; Lettera a Policarpo II, 3. Le catene sono l’espressione ricorrente che Ignazio utilizza per indicare la sua condizione di prigioniero, di martire designato. 

[4] Le lettere di Ignazio «meglio di qualunque storico ci hanno conservato ancora al vivo il ritratto eccezionale di una delle personalità più spiccate e originali del cristianesimo antico. Esse costituiscono davvero un ‘unicum’ nella letteratura cristiana e rispecchiano mirabilmente l’anima incandescente del Martire nel momento psicologico più sublime dell’attesa del suo martirio, già in certo modo incominciato. Esse non sono propriamente delle ‘epistole’ composte a tavolino, ma più semplicemente delle ‘lettere’ scritte di getto, un ‘giornale di viaggio’, o meglio un ‘giornale dell’anima’ che contiene il grido infuocato di un lirico e di un mistico anelante al martirio»: F. Bergamelli, L’unione a Cristo in Ignazio di Antiochia, in S. Felici (a cura di), Cristologia e catechesi patristica I,  Roma 1980, 73-74.

[5] Lettera agli Efesini VIII, 1.

[6] Lettera ai Romani II, 2.

[7] Lettera ai Romani VI, 3.

[8] Lettera ai Tralliani IX-X; «Si noti l’insistenza con cui Ignazio ripete l’avverbio ?????? che sta a sottolineare, quasi come una sfida, la realtà umana, storica e fisica del Cristo»: F. Bergamelli, L’unione a Cristo… cit., 84. Cfr. Lettera agli Smirnesi II-IV.

[9] Cfr. F. Bergamelli, L’unione a Cristo… cit., 91-94. Bergamelli fa notare come Romani II, 1-2 utilizzi la stessa preposizione ‘verso’: «E’ bello tramontare dal mondo verso Dio,  per risorgere verso di Lui». Nel suo viaggio verso Roma Ignazio va da oriente ad occidente, per tramontare e poi  risorgere nuovamente. L’attesa escatologica verso oriente è molto diffusa nell’antichità cristiana, in particolare presso le Chiese dell’Asia Minore. Si vedano, in proposito, l’articolo di W. Rordorf, Liturgie et eschatologie, in Liturgie, foi et vie des premiers chrétiens. Etudes patristiques, «Théologie historique» 75, Paris 1986,  e  R. Cacitti, Grande sabato. Il contesto pasquale quartodecimano nella formazione della teologia del martirio, Milano 1994, 105-108.

[10] Lettera ai Magnesii, VII, 2.

[11] Cfr. R. Johanny, Ignace d’Antioche, in L’Eucharistie des premiers chrétiens, Paris 1976, 55; F. Bergamelli, L’unione a Cristo… cit., 103-106; Idem, «Sinfonia» della Chiesa in Ignazio di Antiochia, in S. Felici (a cura di), Ecclesiologia e catechesi patristica, Roma 1982, 63: «E’ l’unica Eucaristia che fa l’unità della Chiesa, ma è anche l’unità della Chiesa che fa l’unica Eucaristia  e che è l’unico Corpo mistico della Chiesa fatto del capo e delle membra intimamente fusi nella stessa crasi di unità. Da tutto ciò risulta che l’Eucaristia per Ignazio è il più grande e sublime atto unificante di tutta la Chiesa».

[12] E’ opportuno, a chiarificazione di questo concetto,  riportare l’intero paragrafo VII della Lettera ai Magnesii: «Come il Signore nulla fece senza il Padre col quale è uno,  né da solo né con gli apostoli, così voi nulla fate senza il vescovo e i presbiteri. Né cercate che appaia lodevole qualche cosa per parte vostra, ma solo per la cosa stessa: una sola preghiera, una sola supplica, una sola mente, una sola speranza nella carità, nella gioia purissima che è Gesù Cristo, del quale nulla è meglio. Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo».

[13] Lettera ai Filadelfesi IV.

[14] Lettera agli Smirnesi VII,1.

[15] Cfr. R. Johanny, Ignace… cit.,  59-64.

[16] Cfr. Gv 1, 4 e VI 51-56. Già in Ignazio e poi nella successiva riflessione patristica, questo capitolo giovanneo è fondamentale per l’affermazione della valenza escatologica dell’eucaristia. Cfr. J. L. Martìn, La eucaristía sacramento de salvación escatológica, in «Estudios Trinitarios.Publicación del Secretariado Trinitario – Salamanca» 24 (1990), 229-241.

[17] Va detto che non solo l’eucaristia, ma l’intera liturgia dei primi secoli appare escatologicamente orientata. Si veda, a riguardo, l’articolo di W. Rordorf, Liturgie et eschatologie, in Liturgie, foi et vie des premiers chrétiens. Etudes patristiques, in «Théologie historique» 75, Paris 1986, 49: «La liturgie fut, des les premiers temps, le lieu privilégié où se manifestait l’espérance eschatologique de l’Eglise».

[18] Lettera agli Efesini XX, 2.

[19] F. BergamelliMorte e vita in Ignazio di Antiochia, in  «Parola Spirito e Vita»32 (1995), 287.

[20] W. Rordorf, L’esperance des martyrs chrétiens, in Liturgie, foi et vie…cit., 453: «Cette joie [del martire] peut exprimer autre chose encore: à savoir, le fait pour le martyrs de vivre ce qu’ils croient, de participer au mystère de la mort et de la résurrection de leur maître, de devenir eux-même, dans leur vie et leur mort, une eucharistie, ce qui le fait dire, avec l’Apôtre: ‘Je trouve maintenant ma joie dans la souffrance que j’endure pour vous et ce qui manque aux détresses du Christ, je l’achève dans ma chair en faveur de son corps qu’est l’Eglise’ (Col, 1, 21)».

[21] Lettera ai Romani VII, 3.

[22] Lettera ai Romani IV, 1.

[23] Lettera ai Romani VII,1.

[24] Lettera ai Romani VI, 2.

[25] F. BergamelliMorte e vita… cit., 281-283.

[26] Lettera ai Romani IV 2-3.

[27] La più recente rassegna bibliografica sulle questioni realtive alla data del martirio e della stesura della Lettera si trova in Policarpo di Smirne, Lettera ai Filippesi Martirio (a cura di C. Burini), Bologna 1998, 98-106.

[28] M. Pol. XIV, 1.

[29] M. Pol. XV, 2.; Cfr. A. Lallemand, Le parfum des martyrs, in «Studia Patristica» 16 (1985), 186-192. Sebbene venga usato qui un «vocabolario sacrificale» – Jacob, Le martyre épanouissement du sacerdoce des chrétiens dans la littérature patristique jusque en 258, in «Mélanges de Science Religeuse» 24 (1967), 184 –  già costituito, si trova espresso in questa lezione il significato precipuo che i cristiani attribuiscono al sacrificio; si tratta sempre di un sacrificio  personale che giunge, come in questo caso, all’offerta totale della propria vita.

[30] Cfr. A. Lallemand, Le parfum des martyrs… cit., 186-192.

[31] R. Jacob, Le martyre épanouissement... cit., 186-187 sostiene che non è possibile rinvenire un’allusione univocamente interpretabile all’eucaristia nella preghiera di Policarpo e tuttavia sarebbe qui «che l’eucaristia gioca il suo ruolo perfetto».

[32] Cfr. D. Tripp, The Prayer of  St. Polycarp and the Development of anaphoral Prayer, in «Ephemerides Liturgicae»  104 (1990), 97-132.

[33] M. Pol. XIV, 2.

[34] R. Jacob, Le martyre epanouissement... cit., 187-188: «Bisogna sottolineare come questa preghiera pronunciata prima del martirio è improntata per un verso al senso del sacrificio, ma anche a tutta una liturgia. Il sacrificio spirituale perviene al suo termine: tutta la vita diviene una liturgia». Analogamente si esprime A. Hamman, Signification dottrinale des  Actes des Martyrs, in «Nouvelle Revue Théologique» 75 (1953), 745. Sull’aspetto sacramentale della vita cristiana R. Jacob, Le martyre épanouissement... cit., 66-67 fa delle osservazioni opportune: «i cristiani dei primi tempi non conoscono ancora la divisione vita sacramenti [...] per essi, c’è la vita cristiana [...] la vita nel Cristo è la sola e unica realtà».

[35] Cfr. C. Burini, La preghiera di Policarpo celebrazione del suo martirio, in «Parola Spirito e Vita» 25 (1992), 193-196.

[36] H. E. (V)  1, 55.

[37] Martyrium Carpi, 42. Secondo R. Cacitti, Grande Sabato... cit., 76: «assidersi alla mensa escatologica del Regno equivale, per Agatonice, a stendersi sul legno in cui verrà divorata dalle fiamme. In questo modo, si consuma quell’identità fra eucarestia e martirio che abbiamo [...] letto in M. Pol».

[38] Sono le lettere 5-43, indirizzate alla comunità di Cartagine o a quella di Roma.

[39] Cfr. Ep. 6; 10; 37; 39; 58; 60; 76; 81.

[40] Si parla comunque di martiri e martirio in Ep. 5; 8; 9; 40; 61; 80.

[41]. Come sostiene M. De La Taille, Le sens du mot Passio dans la Lettre LXIII de Saint Cyprien, in «Recherches de science religeuse» 21(1931), 576-581,  «lui apparaît  que déjà à la cène il y a la passion […], la cène, la cène eucharistique, est bel et bien enclose dans la passion; elle en fait partie; et par conséquent reproduire la cène, c’est reproduire la passion […]. La cène n’était pas alors un élément quelconque de la passion; c’en était un des sommets, qui regarde l’autre: la croix». Cfr. anche R. Johanny, Cyprien de Carthage, in L’Eucharistie des premiers chrétiens… cit., 163: «L’eucharistie est le mémorial de la cène du Seigneur, elle est le mémorial de la Passion du Christ – et de sa Résurrection - ; mémorial dans lequel est contenu, de façon mystérieuse, la réalité du fait historique […]. Pour Cyprien il y a identité entre le sacrifice du Christ et celui de l’Eglise par le biais de la mentio passionis qui se fait dans la prière eucharistique».

[42] R. Johanny, Cyprien de Carthage, in L’Eucharistie des premiers chrétiens… cit., 171, così sintetizza la relazione che intercorre tra il martirio e l’eucaristia: «cette relation eucaristie-martyre demande à être comprise de façons diverses, qu’il s’agisse de la célébration de l’eucharistie pour ceux qui sont appelés à verser leur sang, ou de la mémoire qui est faite dans l’eucharistie de ceux qui ont subi le martyre, ou qu’il s’agisse de l’eucharistie comme d’un  soutien ou d’une énergie pour le martyre, ou plus précisément encore du martyr compris comme une participation au sacrifice eucharistique et par là au sacrifice du calvaire, ou de l’eucharistie comme trait d’union entre l’Eglise et le martyre».  Questi aspetti vengono illustrati nell’articolo di M. Pellegrino, Eucaristia e martirio in San Cipriano, in CONVIVIUM dominicum. Studi sull'Eucarestia nei Padri della Chiesa antica e miscellanea patristica, Catania 1959, 135-150.

[43] Ep.58, 2.

[44] Ep.10, 2.

[45] Ep. 58, 1.

[46] Ib.

[47] Ep. 58, 2.

[48] Ep. 59, 18.

[49] Ep., 57, 2. Cfr. anche 8, 1.

[50] Ep. 11, 1.

[51] Ib.

[52] Ep. 11, 2.

[53] Il castigo ha una funzione correttiva. «Certamente Dio è uno che ama colui che castiga; e quando castiga uno lo fa per correggerlo e migliorarlo appunto attraverso la correzione»: Ep. 11, 4.

[54] Ep. 58, 2. Cfr. 11, 5.

[55] Ep. 63, 13.

[56] Ep. 69, 5.

[57] Ep. 76, 4.

[58] Ib.

[59] Ib.

[60] Ep. 64, 3.

[61] Cfr. Lettera ai Romani IV, 1.

[62] Ep. 37, 2.

[63] Ep. 57, 4.

[64] Ep. 57, 2; cfr. 5.

[65] R. Johanny, Cyprien de Carthage, in L’Eucharistie des premiers chrétiens… cit., 172.

[66] Sempre Johanny – in  Ib., 150-151 –  delinea un profilo del personaggio Cipriano e delle sue disposizioni pastorali.

[67] Ep. 6, 4.

[68] Ep. 37, 4. Cfr. L. Padovese, Speranza cristiana e valori ultraterreni nel pensiero di Cipriano di Cartagine, in «Laurentianum» 24 (1983), 173-174 che afferma: «la dottrina di Cipriano, condizionata dalle circostanze storiche che conosciamo, propende verso un innegabile pessimismo e giustifica la fuga dai valori creati dei quali – in ordine alla vocazione cristiana – è accentuato più il pericolo che l’intrinseca bontà».

[69] Cfr. Ep. 41; 43; 59

[70] Cfr. Ep. 44; 45; 51; 52; 54; 60; 68

[71] Ep. 11, 7.

[72] Sulla questione dei lapsi cfr. Ep. 15; 16; 17; 18; 19; 27; 33; 34; 35; 54; 55; 56; 57; 65; 67

[73] Ep. 57, 5.

[74] Ep. 55, 7. Cipriano risponde ad Antoniano spiegando le ragioni del suo passaggio da una maggiore rigidità a una più larga indulgenza nei confronti dei lapsi.

[75] Ep. 57, 2. Molto bello il paragrafo 15, sorta di manifesto delle intenzioni pastorali: «Se noi respingiamo il pentimento di quelli che hanno delle speranze a che la loro colpa possa essere perdonata, presto costoro possono esser attirati dal diavolo nell’eresia, o nello scisma, insieme alla moglie e ai figli che avevano conservato incolumi. Per noi ci sarà nel giorno del giudizio l’imputazione di non aver curato una persona ferita e di averne perso molte sane per quella sola. Il Signore è andato in cerca di una sola pecora, che si era perduta e che si era stancata, dopo aver lasciato le novantanove sane. La trovò e se la portò a casa sulle spalle (cfr. Lc. 15, 4).

Noi invece non solamente non andiamo in cerca di quante sono stanche, ma allontaniamo anche quelle che vengono. Mentre ora i falsi profeti non cessano di devastare il gregge di Cristo e di dilaniarlo, noi offriamo un’occasione per i cani e per i lupi. Con la nostra durezza e mancanza di umanità perdiamo quelli che neppure la rabbia dei persecutori è riuscita a rovinare».

[76] Cfr. Ep. 10; 11; 12; 37.


"Il Dialogo - Periodico di Monteforte Irpino" - Direttore Responsabile: Giovanni Sarubbi

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